Cose del genere. Arte, anatomia e rivolta

di Cristiana Galasso

 

Premessa


Alle origini del dimorfismo sessuale

Il primo momento: l’origine della sessualità

La differenziazione sessuale

Fasi prenatali

Deviazioni prenatali


Cose del genere

Concetto di identità/ruolo di genere

Origini biologiche della differenziazione sessuale

Sviluppo dell’identità nucleare di genere

Perversione come moto di ostilità

Eccitamento come moto di ostilità


L’arte liberata

Il pensiero avanguardistico di Benjamin

L’arte nel pensiero marxiano

Debord e l’I. S.

Opera e relazione


Bibliografia

 

- PREMESSA -

Attraverso questo studio si intende tracciare il percorso dell’evoluzione umana, dalla nascita di un individuo e la separazione biologica dei sessi, alla nascita della società e la conseguente divisione del lavoro in relazione al genere sessuale.

L’essere umano è diviso biologicamente in due sessi. Nel mondo biblico della creazione il maschio e la femmina vivevano beatamente nel paradiso e l’unica distinzione fra loro era la complementarità (nell’atto) sessuale. Il peccato originale si ritrova allora nello stupro primordiale, in cui il maschio, fisicamente più forte della femmina, la soggioga e la rende schiava insieme ai suoi figli. Questi, costretti a lavorare per sopravvivere, sono la prima proprietà privata. Nasce così la prima organizzazione sociale e culturale. A questo punto per mantenere il predominio in "nome del padre", la prima legge che fonda la società è quella contro l’incesto che perpetua la mercificazione del corpo della donna e lo tramuta da valore d’uso a valore di scambio, includendola nei rapporti sociali come cosa, completamente alienata, produttrice di qualcos’altro: figli, lavoro, godimento sessuale, nutrimento emotivo ecc.

«A far apparire questa violenza come perfettamente legittima, o addirittura conforme alle leggi di natura provvede l’ideologia che non riflette, ma inventa ragioni per costruire una pratica che, pur provenendo interamente dalla cultura, possa essere letta come espressione della natura.
Inventando e fornendo senso a ciò che non lo ha, l’ideologia produce quelle false evidenze che poi diventano un modo legittimo di pensare e di agire, quindi un abitudine, e perciò una seconda natura» (Galimberti, 1983).

La prova inconfutabile di questa legittimità è data dal corpo che ricevendo un senso che non ha, annulla la profonda ambivalenza dell’essere umano creando una divisione tanto profonda quanto infondata derivante dall’avere o no il fallo. Questo fatto, come sappiamo, da luogo ad alcune conseguenze: condizione sessuale superiore, posizione sociale migliore ecc., contribuendo in maniera definitiva alla costruzione dei ruoli prima, e alla loro assegnazione poi.

Tale via ci consente di rileggere la storia dell’avanguardia (che, per definzione, non sottostà alle leggi sociali ed economiche imposte dalla società dello spettacolo e per mezzo dell’industria dello svago e dei loisirs) alla luce della ricerca di una creatività e di un’arte nuove, muovendo dalla critica della vita quotidiana.

Il potere per essere tale necessita del consenso. Il consenso riposa in larga parte sull’identificazione della "vittima" col suo "carnefice". Tale legame descrive precise dinamiche narcisiste fondate sulla sostanziale impotenza delle parti coinvolte. Infatti, mediante il meccanismo dell’identificazione chi subisce il potere appaga il proprio desiderio di potenza e scarica altrove, scegliendo fra gli stereotipi offerti, quelle responsabilità la cui gestione implica eccessivi costi affettivi.

Per assumere un ruolo dobbiamo avere un modello con il quale identificarci, questo modello viene offerto in primis dalla famiglia per poi essere riconfermato e sviluppato nella società. La differenziazione dei processi identificatori avviene in prevalenza nella fase edipica dello sviluppo psichico e, di norma, mediante l’identificazione con il genitore dello stesso sesso1. Ed è modellata sull’impronta lasciata dalla scena primaria2, e dalle cure ricevute fin dalla primissima infanzia.

«[...] La ripetizione di un atteggiamento crea un ruolo, la ripetizione di un ruolo crea lo stereotipo3. Lo stereotipo è una forma oggettiva cui il ruolo è incaricato di introdurre [...]. L’identificazione è la modalità d’ingresso nel ruolo. Per la tranquillità del potere importa più la necessità di identificarsi che la scelta dei modelli di identificazione» (Vaneigem, 1967).

Nel momento in cui abbiamo degli stereotipi in cui identificarci, ci sottomettiamo ad un potere che ci integra all’interno della società, in cambio della rinuncia alla spontaneità. Più ci si identifica nel proprio ruolo, più vi si investe energia libidica per realizzarlo e mantenerlo, meno ne rimane per la creatività e il godimento.

Il rifiuto di conformarsi a modelli imposti (anche se presentati in maniera appetibile) rende necessaria una presa di coscienza, un andare al di là dell’identificazione nevrotica per mettere in atto una protesta critica e affermare la propria volontà creatrice4.

Il reale contiene in sé ogni altro possibile, tutto sta nella volontà di saperlo, quindi in sostanza poter giocare e vivere liberamente, distaccatamente, cioè criticamente, il proprio ruolo, oltrepassarlo e ricostituirlo, sempre nuovo e mutevole, completamente libero, questo è ciò che è lecito in arte, ciò che è concesso all’artista nella sua categoria specifica, ma questo è soprattutto ciò che insegna l’arte e che dovrebbe essere concesso nella vita in generale.

Ad esempio, un attore del teatro epico di Brecht - rileva Benjamin - non si identifica nel personaggio ma lo cita, e, mantenendo la distanza crea lo spazio critico. Mostrando il gesto e non immedesimandosi in esso, egli non perde la propria capacità di giudizio, quindi mantiene la capacità di uscire ad arte dal proprio ruolo. Tutto ciò provoca una estraniazione della situazione che avviene mediante l’interruzione. Il pubblico non si trova più davanti ad un opera nella quale può catarticamente identificarsi, ma viene letteralmente schiodato dalla poltrona e costretto ad un atto critico, a completare l’opera esprimendosi creativamente.

Questa critica del ruolo, sia dell’artista sia del pubblico, la si ritrova tanto andando a ritroso nella concezione di Nietzsche della tragedia (quindi nel mondo greco) - che è vista come la messa in scena dell’irripetibile, la danza come gioco, erranza, creazione, la festa che libera l’esistenza (dionisiaco) - quanto nel teatro della crudeltà di Artaud - dove non ci sono modelli di comportamento ma l’arte è presentazione della vita così com’è, dispendio gratuito di energia, abbondanza, ebbrezza, attualità, evento.

Anche se in apparente contraddizione, lo scopo unico da raggiungere è la liberazione del ruolo e del tempo. L’uomo deve nuotare nel ruolo e non sprofondarci dentro, deve integrare la sua vita uscendo dal ruolo e completandolo per via estetica. L’arte è un fare (poiesis), una prassi che altri modi del sapere non insegnano.

«Non è sufficiente mutare di nome a quel "fare" che i secoli borghesi hanno chiamato, appunto, "letteratura" e "arte".
Bisogna riconoscere un luogo antropologico a quel fare; e ciò è stato compiuto dal pensiero rivoluzionario e anche dal Surrealismo» (Fortini, 1959).

«Bisogna sottolineare ciò: Dada a Parigi, secondo la formula di Georges Hugnet, era caratterizzato "dalla sua inclinazione per il meraviglioso (il ‘Wunderbare’dei romantici tedeschi) e le profondità del subconscio recentemente dimostrate da Freud". Se è vero che il sig. Breton è rimasto fino ad oggi sotto l’influenza di Freud (come Tristan Tzara stante il Grains et issues), noi, tra il 1916 e il 1919, avevamo già tirato tutte le conseguenze deducibili dalla psicoanalisi. Era, lo ripeto, Otto Gross che aveva svelato il conflitto Io-te, dell’in sé stesso e l’altrui, dell’estraneo, io stesso avevo portato alla luce i guasti dell’atteggiamento "maschile-protestante" fondato su conflitti protostorici, l’atteggiamento giuridico sociale, e la protesta amazzone della donna contro l’"eroe" o complesso di Clitennestra.
Noi avevamo sviluppato la nostra nuova psicologia distruttiva nel 1916; l’idea era che tutto si fonda sul cambiamento e sulla complessità delle contraddizioni e degli antagonismi che definivamo nella rivista Die Freie Strasse, al fine di inaugurare una nuova tecnica di vita e di felicità. [...] C’eravamo messi d’accordo con Huelsenbeck al suo rientro dalla Svizzera per servirci di lui e di Dada come zappa e base di combattimento contro la società e gli intellettuali, considerando il nostro atteggiamento, realizzato e vissuto, dissolvente. Non ci dimentichiamo che la nostra nuova psicoanalisi, la prima psico-tipologia fino alla furbata di Carl Gustav Jung (il figlio del pastore svizzero), ci garantiva una posizione estremamente avanzata rispetto a Freud.
Io e Baader intraprendemmo l’introduzione di queste esperienze su un piano più esteso, inquietando il militarismo tedesco, inviando lettere e telegrammi ai Guglielmo II, Hinderburg e Ludendorff, ordinando loro d’abdicare: gli uomini nuovi che noi eravamo lo reclamava.» (Hausmann, 1958).

Lo scopo di liberare la vita perseguito dall’avanguardia s’è ripetutamente avvalso di strumenti in qualche modo esterni alla ricerca artistica vera e propria: psicoanalisi, critica dell’economia politica, critica sociale ne rappresentano solo alcuni. Questo studio intende fornirne un quadro sintetico e, avvalendosi degli sviluppi più recenti, in particolare del contributo della teoria eventualista, sondarne gli esiti possibili.

 

- ALLE ORIGINI DEL DIMORFISMO SESSUALE -


Il primo momento: l’origine della sessualità

«Divorare ed essere divorati: a questo destino, che è anche la forma più antica di rapporto, sembra non sottrarsi alcuna specie vivente, e chi oggi è predatore rischia di trasformarsi in preda domani. Il danno subito dalla vittima dell’aggressione è naturalmente variabile: sul menù di un gatto la voce uccello compare sempre, ma un pennuto un po’sveglio può mandare in fumo le mire del felino; una pianticella di tarassaco, invece, di cui la mucca si limita a brucare le foglie, deve per forza subire; quanto a noi, se una zanzara ci sottrae poche gocce di sangue spesso non ce ne accorgiamo nemmeno» (Wickler, Seibt, 1983).

Il comportamento sessuale in principio era destinato alla difesa; la dinamica che attirava due elementi distinti all’unione, era dettata dalla sopravvivenza.

Questi non si limitavano a coesistere ma, inglobando le caratteristiche l’uno dell’altro, potenziavano le prestazioni individuali.

Virus e batteri per primi diedero vita alla differenziazione tra maschile e femminile, specializzandosi in ruoli e cooperando in tal modo all’ottimizzazione della propria esistenza.

Il motore primo era la volontà di vita; il movimento era la riproduzione; il mosso era la vita stessa, nell’evoluzione.

«[...] Ward richiama l’attenzione sul fatto che la riproduzione era [...] un processo di nutrizione [e che questa] e la separazione di un individuo da un organismo primitivo adulto [rappresentava] la perdita di una parte del proprio corpo per riprodurre un nuovo organismo.
Quando le differenziazioni sessuali lentamente si radicarono, il maschio ebbe un ruolo secondario, o se preferite altamente specializzato, nel regno vegetale ed animale. Secondo Ward fu instaurato un processo definito fecondazione, prima attraverso un organo appartenente all’organismo stesso (ermafroditismo), e poi con la separazione di questo organo, erettosi a organismo indipendente, anche se minuto e completamente diverso dal primario, poi complementare e adesso trasportato in un sacco creato per lo scopo» (Zilboorg, 1944).

Dal punto di vista biogenetico lo scienziato ritiene che in origine la femmina regnasse suprema, come avviene ancora nel regno animale, mentre il maschio non era che un ripensamento della natura (qualcuno ipotizza addirittura che il cromosoma Y sia in realtà un cromosoma X difettoso).

In tutti i principali animali che ci sono più o meno familiari, comprese le classi di mammiferi e uccelli, i maschi sono generalmente più grossi, forti e variati in struttura e organi, e più decorativi e ornamentali delle femmine. Confrontando questi animali con i giovani della stessa specie si nota una rassomiglianza marcata, il che ha dato credito alla teoria di diversi zoologi che il sesso femminile rappresenti un processo di sviluppo bloccato, in contrasto con quello maschile assai più accentuato e ritenuto normale.

Per restare in terreno biologico sembrerebbe più logico e in armonia con i principi cardine delle scienze biologiche considerare questi attributi non come manifestazione di superiorità biologica primaria, ma come il risultato della selezione naturale che gli è stata imposta dall’originario potere di scelta femminile. È stata la femmina ad intuire istintivamente quale compagno fosse preferibile dal punto di vista della salute e della generale efficienza biologica e, col processo della selezione naturale, il maschio si è sviluppato nella forma che meglio soddisfa le esigenze avanzate dalla femmina secondo questo punto di vista.

E nulla è più falso di quel luogo comune secondo cui il maschio ha acquisito tale forza per proteggere e nutrire la femmina e i piccoli.

Circa la connessione fra fecondazione e riproduzione, ciascun sesso aveva le idee altrettanto confuse degli animali, e perciò soltanto la madre reclamava e curava la prole. Finché questo stato di cose perdurò, la specie rimase allo stato della supremazia femminile.

Si potrebbe definirlo il primo stadio dello sviluppo sociale umano, o «protosociale» come preferisce Ward, o lo stadio del "protoplasma sociale" come preferisce Durkheim (Zilboorg, 1944).

Siamo giunti ad un punto che sembra delicato e cruciale allo stesso tempo. Poiché si ricostruisce l’evoluzione dell’uomo dal suo primo livello di vita, bisogna esaminare quel che gli è successo, prima di raggiungere lo stadio dell’orda primitiva, la più antica forma di famiglia con un padre dominatore.

All’epoca in cui la sequenza coito-fecondazione-gravidanza-parto era ancora ignota all’uomo, la donna era padrona di se stessa e della propria prole. L’uomo non aveva un posto. In virtù della selezione naturale impostagli dalla donna era potente e sano, con un vigoroso appetito sessuale. Molto probabilmente arrivò un giorno in cui divenne sufficientemente consapevole e sicuro della propria forza da sopraffare la donna, violentarla.

Spesso ho avuto la sensazione che le parole conclusive di Totem e tabù - «All’inizio ci fu quell’evento» (Freud, 1913) - fossero ancora più adatte a definire l’atto dello stupro primordiale che l’assassinio del padre.

Questa violenza non aveva certo l’obiettivo di ingravidare la donna, almeno non sulle prime. Doveva essere un impulso travolgente di scaricare la tensione sessuale; era una esigenza pulsionale. In altre parole, non era né un atto d’amore né di paternità anticipata, né di tenera sollecitudine, era un orgia momentanea, puramente egoistica.

La potenza che il maschio umano rivelò quando per la prima volta sopraffece la femmina, segnò la fine della sicurezza biologica di questa, della sua possibilità di scelta, del diritto di essere padrona di sé e della propria prole. A quell’epoca il rapporto maschile con la donna doveva essere puramente edonistico, addirittura antipaterno e infanticida. Nella fase protosociale dello sviluppo umano in cui scoprì di possedere il potere fisico di privare la donna del diritto di scelta, l’uomo era molto lontano da quella che la psicoanalisi definisce vera genitalità; il suo era un narcisismo primitivo, l’impulso di gratificare la propria sessualità organica, che non era ancora sintetizzata in vera genitalità.

Perciò è veramente ozioso individuare nell’esigenza di affermare la paternità della prole la molla che spinse l’uomo ad affermare se stesso o i propri diritti sulla madre dei figli, e a creare una famiglia sotto sua dittatura. Mi sembra un punto di vista piuttosto spurio poiché presume che con una improvvisa rivelazione il maschio scopra di aver ingravidato la donna, di essere il padre dei futuri bambini, e che la paternità imminente susciti in lui sentimenti altruistici di responsabilità libidico-oggettuale per la madre, il figlio, la famiglia. Ma i fatti e le osservazioni disponibili - cliniche, etnologiche, sociologiche - rendono più attendibile l’ipotesi che l’evento primordiale, lo stupro primevo - che può essere considerato il peccato originale nel vero senso della parola - era totalmente privo di tendenze libidiche-oggettuali, genitali. Era un atto fallico, sadico.

«Che il soggiogamento della donna fosse dovuto interamente alla sua inferiorità fisica rispetto all’uomo, o meglio alla forza e alle dimensioni superiori che l’uomo, in comune con molti altri animali superiori aveva acquisito attraverso la selezione femminile, sembra incontrovertibile, e la tendenza a negarlo o a eluderlo è ispirata completamente dalla vergogna di riconoscerlo» (Ward, L., Pure Sociology, 1914, trad. it. in Zilboorg, 1944).

Questi impulsi sadici emersi improvvisamente, raggiungendo la loro espressione compiuta e vincente, resero momentaneamente l’uomo padrone della donna. Ma una volta assaporato il gusto del sangue, egli affermò rapidamente la propria dominanza e prese delle misure per consolidarla e perpetuarla.

Evidentemente egli continuò a seguire lo schema anale narcisistico per parecchio tempo.

Cronologicamente la donna può essere considerata la prima proprietà, ossia, l’uomo ne stabilì il possesso al di là delle esigenze immediate e puramente sessuali.

Come qualsiasi strumento inventato dall’uomo primitivo, lo schiavo si riduce a una estensione e ad un completamento degli organi di chi lo schiavizza. Col dominio sullo schiavo, come maneggiando uno strumento, il padrone allarga la sua sfera d’influenza e di potere; in corrispondenza aumentano le sue esigenze e l’urgenza di soddisfarle. È semplicemente la ben nota storia di come lo standard di vita basato sul dominio e sulla conquista diventa gradualmente il falso parametro di cultura economica per pochi individui rappresentativi. Dunque, è nella prospettiva di questo processo economico di sviluppo che si deve collocare l’utilizzazione maschile della conquista della donna: è in questa prospettiva che occorre inserire lo sviluppo della famiglia umana. Dunque l’idea della famiglia non nacque dall’amore, ma da una pulsione allo sfruttamento economico, le cui possibilità abbagliarono persino l’uomo primitivo quando sfoderò la sua aggressività per conquistare la donna.

Persino la pretesa della castità prenuziale e la consacrazione della verginità hanno origine dall’esigenza di possedere, e non dalla pulsione ad amare. Nel Tabù della verginità, Freud non lascia dubbi circa la consapevolezza da lui raggiunta sulla natura istintuale del rapporto primordiale fra i sessi.

August Comte ci rammenta che in origine la parola famiglia designava i servi o gli schiavi (Zilboorg, 1944).

È noto che le prime forme di vita familiare continuarono a servire il dominio sessuale maschile, anche dopo che fu instaurato il tabù dell’incesto. «È interessante sottolineare che le prime restrizioni provocate dall’introduzione del matrimonio, con le relative classi, influirono sulla libertà sessuale della generazione più giovane, in altre parole, l’incesto tra fratelli e sorelle e tra figli e madri, mentre l’incesto tra padre e figlia fu abrogato soltanto da provvedimenti più radicali» (Freud, 1913). Madre e figli appartenevano ad una classe e il padre a un altra. Di conseguenza, una figlia non poteva giacere col fratello che apparteneva alla stessa classe, ma il padre poteva copulare con la figlia perché apparteneva ad una classe diversa. Questo fatto da solo dimostra che l’uomo non creò la famiglia perché sollecitato dalla paternità genitale, libidica, oggettuale, ma per consolidare ed estendere la gratificazione narcisistica delle sue pulsioni sessuali primitive.

Le tradizioni matrilineari in comunità completamente patriarcali, l’esistenza di deità materne precedenti quelle paterne, sono tutti sintomi del fatto che la madre era completamente riconosciuta prima ancora che l’uomo sospettasse il proprio contributo alla nascita. Tutto quel che lui sapeva era che, di quando in quando, un nuovo essere sarebbe uscito dalle viscere della donna.

Se dobbiamo proseguire la discussione sulla superiorità biologica di uno dei due sessi e sul disagio determinato dall’inferiorità conscia o inconscia dell’altro, devo riconoscere che è stato l’uomo a sentirsi biologicamente inferiore e, che questo senso di inferiorità e di concomitante ostilità, ha prodotto un identificazione magica, nevrotico-ossessiva, ostile nei confronti della madre. Attraverso quest’identificazione è stata raggiunta la paternità psicologica.

«I dati biologici fanno supporre che è stato l’uomo a raggiungere la paternità con una spirale psicobiologica complessa e tortuosa, mentre la donna è stata madre fin dall’inizio, prima che l’uomo decidesse di stuprarla, odiarla, renderla schiava e poi invidiarla e imitarla. Allo stesso modo si potrebbe concludere che l’affetto e la sollecitudine paterna per i bambini furono raggiunti attraverso l’identificazione maschile con la donna [...] perché non ci sono dubbi che, almeno sotto questo aspetto, la donna fu la prima e la più intensa oltre che la più convincente. Certo sembra estremamente paradossale affermare che la paternità è un tratto materno dell’uomo, ma è tanto paradossale quanto vero.
Vorrei sottolineare che il primo atto culturale e il primo atto sessuale che portano alla formazione della famiglia si identificano [...] l’assalto fisico, narcisistico, sessuale alla donna. Forse è lì che bisognerebbe ricercare le fonti di quella controversia culturale o sessuale che ha infuriato confrontando le questioni sostanziali. La prima auto affermazione del maschio, economica e sessuale, risale sempre e solo allo stesso atto. La famiglia e le successive istituzioni culturali nacquero da quella prima auto affermazione esplosiva. L’uomo era incapace di conservare i vantaggi che aveva momentaneamente conquistato attraverso quell’atto, a meno che e finché non avesse risolto la sua rivalità con la madre primordiale, proiettando su di lei gran parte del proprio sadismo oltre che, e forse soprattutto, identificandosi con lei. Proprio questa capacità maschile di assorbire alcune virtù dalla madre primordiale ha reso possibile la famiglia umana e la civiltà.
Bisognerà ristudiare l’intera questione della cosiddetta passività e attività, la questione del narcisismo maschile e femminile, e diversi altri attributi considerati in genere incontestabilmente maschili e femminili» (Zilboorg, 1944).

Forse sarà possibile dimostrare che questa tensione di fattori culturali nasconde la vera consapevolezza che all’inizio cultura e biologia erano la stessa cosa e che lo sono ancora, nella misura in cui nessuna manifestazione culturale è possibile senza pulsioni istintuali e che le pulsioni istintuali, le più primitive come le più complesse, non hanno possibilità di esprimersi se non attraverso modelli culturali a meno che non siano puramente fisiologiche come digestione, assimilazione, evacuazione.

Sarà anche necessario rivedere i cambiamenti culturali attuali e ristudiare la tendenza all’uguaglianza fra i sessi, espressione della riaffermazione dell’originaria situazione di libertà, che la donna possedeva ancor prima che l’uomo avesse una vaga concezione della libertà.


La differenziazione sessuale

Se l’inizio della vita è tuttora avvolto nel mistero, molto si è appreso sull’inizio della vita del singolo: un uovo maturo, staccatosi da un’ovaia materna, percorre la corrispondente tuba di falloppio e si annida nell’utero. Un unico spermatozoo, dei due o trecento milioni eiaculati dal padre e fluiti su per la tuba, penetra nell’uovo creando la singola cellula fecondata che sta all’inizio del nuovo essere.

Da quel momento in poi i cromosomi di questa prima cellula stabiliscono il modello cromosomico per ogni cellula del corpo.

Se sullo svolgersi di questo processo concordano tutti in generale, per converso è tuttora in corso un acceso dibattito su quanto tale inizio influenzi la futura vita sessuale dell'individuo.

La ricerca scientifica si è talvolta impantanata in una disputa insolubile e ostinata volta a stabilire se responsabile delle differenze fra i sessi è la natura o la cultura. Freud offrì uno slogan agli innatisti allorché affermò: «L’anatomia è destino» (cit. in Money, Tucker, 1975). Nella coscienza popolare ciò venne a significare che al momento del concepimento si fissano i limiti strettissimi a quanto l’individuo può sentire e pensare, a come può comportarsi e reagire, per tutto il resto della sua vita.

La teoria (che si richiama all’influenza della società e della cultura) è intesa che diventiamo maschili o femminili negli atteggiamenti e nel comportamento solo dopo la nascita. Tale teoria tende a glissare sulle differenze anatomiche evidenti nel neonato, concedendo loro solo un vago riconoscimento: cultura e ambiente, affermano, sono tutto ciò che conta.

La risposta è di estrema importanza, poiché se sono gli innatisti ad avere ragione, allora è molto limitato il possibile intervento sui problemi sessuali della vita quotidiana, e non resta dunque che aspettare qualche millennio affinché gli impercettibili processi dell’evoluzione biologica aiutino l’umanità ad adattarsi alle mutevoli circostanze; se per converso hanno ragione gli istruttivisti, allora, volendo, tutte le norme si possono cambiare domani stesso.

In realtà, la ragione non sta né dall’una né dall’altra parte, poiché ogni individuo è il prodotto della costante interazione tra eredità e ambiente. Il modello di sviluppo stabilito per noi nei modelli evoluzionistici che produssero la specie umana è stato punto per punto modificato, in particolare durante le fasi critiche dello sviluppo, compresa la nostra vita prenatale, dal nostro personale passato e dal costante interscambio tra noi e le sostanze, le condizioni, le cose, le persone, la cultura che ci circondano. L’interazione di tutte queste variabili crea il singolo individuo il quale a sua volta dà il proprio contributo all’interazione modificando l’ambiente, e pertanto modificandone pure l’influenza che può avere sulla sua persona.

Gli imperativi biologici fissati per tutti gli uomini e per tutte le donne si riducono a quattro: solo un uomo può fecondare, solo una donna può avere mestruazioni, gravidanza e allattare. Tutte le altre differenze sessuali, comprese differenze strettamente connesse alle quattro fondamentali come il seno o la barba, sono per così dire negoziabili, a seconda del punto in cui ha inizio la negoziazione nel ciclo vitale dell'individuo.

Molte delle differenze sessuali che vengono comunemente accettate come dati inalterabili, come verità assolute ed eterne, rimangono in realtà negoziabili fino al momento del trapasso; altre opzioni prima possibili restano per sempre precluse a un certo punto del percorso: sulla mappa si possono individuare e localizzare. Poiché se le quattro fondamentali funzioni riproduttive sono le uniche differenze sessuali irriducibili, pure devono esserci tra i sessi altre differenze per realizzarle, comunque vengano negoziate e qualunque forma assumano. Altre differenze sessuali sono essenziali poiché la richiesta irrinunciabile per la sopravvivenza dell’umanità e che uomini e donne collaborino in quanto uomini e donne almeno tanto da sopravvivere, riprodursi e allevare una nuova generazione.

La capacità di un uomo di fecondare e quella di una donna di avere mestruazioni, di portare a termine una gravidanza e di allattare non costituiscono da sole una base adeguata per la collaborazione. Perfino l’atto elementare della copula non è semplice, bensì un’intricata serie di atti reciproci che devono essere coordinati. Arrivare all’unione carnale e poi dar protezione e riparo al piccolo, nutrirlo e allevarlo, richiedono una collaborazione di ordine superiore per un notevole periodo di tempo.

Gli stereotipi di genere, con tutte le loro distinzioni più o meno arbitrarie, formano la struttura di tale collaborazione. Devono partire dalle quattro fasi riproduttive fondamentali, ma non possono finire lì. Il raggiungimento di un grado anche minimo di collaborazione dipende da una certa divisione del lavoro tra i sessi, da una selezione del comportamento nella sessualità, in amore, nel lavoro e nel gioco. Peraltro, ferme restando le quattro funzioni riproduttive fondamentali, nessun particolare stereotipo di genere è inalterabile. Una società ha una scelta quasi illimitata nella designazione e ridesignazione dei ruoli.

«In ogni società conosciuta, l’umanità ha elaborato la divisione biologica del lavoro tra i due sessi in forme assai spesso remotamente collegate alle differenze biologiche che di questa divisione sono state la causa prima» (Mead, 1949).

Al di là delle quattro funzioni riproduttive di base, niente nelle differenze tra i sessi è immutabilmente ordinato lungo linee sessuali.

Se si dovesse valutare un campione di uomini e di donne scelti a caso nel mondo sulla base di ognuna delle differenze sessuali generalmente accettate, sarebbe possibile ottenere sul grafico una netta distinzione solo dividendo coloro che sono in grado di fecondare da coloro che sono in grado di avere mestruazioni, gravidanza e allattare - e comunque potrebbero sorgere dei dubbi, ad esempio in presenza di un ermafrodito.

Sul grafico dello sviluppo del seno si troveranno in cima prevalentemente, ma non esclusivamente, donne, poiché la crescita del seno è regolata dall’ormone che di solito predomina nelle donne. Sul grafico della forza muscolare in cima si troveranno prevalentemente, ma non unicamente, uomini, poiché la forza bruta è connessa all’ormone che di solito predomina negli uomini. Nei grafici relativi all’altezza, al peso e alle attitudini, numerosissime risulteranno le sovrapposizioni, che si rivelano anche sotto la linea che delimita altre differenze arbitrariamente assegnate che variano ampiamente con la geografia e l’epoca, - per esempio quale sesso si dipinge il volto.

Incoraggiando in un sesso un particolare tratto e reprimendolo nell’altro, gli stereotipi riducono notevolmente le sovrapposizioni rilevabili nei grafici di una data società, ma resta il fatto che l’unica affermazione assolutamente certa che si può fare su una famiglia è che l’uomo ha generato i figli e la donna li ha partoriti, mentre qualsiasi altra affermazione va presa con le molle.

Oltre alla sovrapposizione, rileveremo quanto alla forza muscolare, allo sviluppo del seno e a tutte le altre caratteristiche distinzioni sessuali, escluse le quattro fondamentali, la differenza tra un uomo normale e un altro, e tra una donna normale e un altra può essere, e non di rado è, molto maggiore della differenza media tra uomini e donne nel loro insieme. Non è infatti difficile trovare un uomo normale sotto ogni punto di vista più simile, fatta ovviamente eccezione per le quattro fondamentali, alla donna media che all’uomo medio e vice versa. In altre parole, le differenze intragruppo, anche se si richiamano a caratteristiche sessuali secondarie, possono essere altrettanto grandi, e spesso sono molto maggiori delle differenze rilevabili nel gruppo misto.


Fasi prenatali

È ben noto che al momento del concepimento il nuovo essere è costituito da unica cellula completa di cromosomi, compresi i cromosomi sessuali, e che il modello cromosomico originale si duplica da quel momento in ogni cellula del corpo. Per converso non è altrettanto noto che ci sono non meno di quattro biforcazioni principali nella differenziazione sessuale tra il concepimento e la nascita.

Alla formazione della cellula iniziale, uovo e spermatozoo contribuiscono con 23 cromosomi ciascuno, e ogni cromosoma porta centinaia di geni, come perline infilate in una collana. I 23 cromosomi dello spermatozoo si accoppiano ai 23 cromosomi dell’uovo, sicché la nuova cellula è formata da 23 paia, ovvero da un totale di 46 cromosomi.

Soltanto una coppia determina il sesso genetico. La madre contribuisce sempre con un X alla coppia che regola il sesso, e quindi ogni individuo ha almeno un X, mentre il padre contribuisce con un X o un Y, per cui se è uno spermio portatore di X a vincere la gara si ha una femmina cromosomica, se invece è un Y a vincere, allora si ha un maschio cromosomico.

Tutto ciò suona familiare, visto che il principio è acquisito da anni, e a mano a mano completato nei particolari.

Nel 1949 due studiosi di anatomia, Murray L. Barr e Ewart Bertram, della Western Ontario University, accertarono che una cellula XX contiene sempre una macchiolina di cromatina5 (ora detta corpo di Barr), e la fotografarono. Siccome la cellula XY non contiene cromatina sessuale, basta una prova di laboratorio sul corpo di Barr per identificare il sesso cromosomico di una singola cellula. Tuttavia soltanto nel 1956 si arrivò a definire con precisione il numero dei cromosomi presenti in una cellula - taluni testi precedenti ne indicavano ancora 48 anziché 46.

Stando alle attuali conoscenze, è il caso a determinare la vittoria dello spermatozoo portatore di X o di Y all’uovo, ma i pronostici danno l’X come favorito. Secondo un calcolo basato sugli aborti, sono all’incirca 140 i concepimenti XY per ogni 100 XX. Tuttavia moltissimi concepimenti XY non vengono portati avanti, per cui il rapporto alla nascita è di circa 105 maschi ogni 100 femmine. Sussiste inoltre la possibilità, peraltro molto rara, che il cromosoma sessuale dello spermatozoo o dell’uovo vada perduto, o che la cellula fecondata perda o acquisti un X o un Y in più, come sarà più diffusamente illustrato in seguito.

Una linea di ricerca parte dall’ipotesi che l’uovo sia più ricettivo a un certo tipo di spermatozoo che a un altro durante un dato specifico intervallo successivo all’ovulazione.

Secondo un’altra linea di ricerca è l’acidità dell’ambiente uterino che determina la differenza tra un concepimento X o Y.

Da un inizio in forma di singola cellula fecondata che con rapidità si moltiplica, le cellule ben presto si raggruppano per formare i rudimentali organi dell’embrione. L’embrione ha in sé le cellule germinali degli organi sia maschili sia femminili. All’inizio c’è una coppia di gonadi che può trasformarsi in testicoli oppure in ovaie, e poi ci sono due serie di condotti o tube genitali interne. Nel maschio una di queste strutture, dette di Wolff6, si trasforma in vescicole seminali, nella prostata e nelle lunghe tube su entrambi i lati dette deferenti.

Nella femmina l’altra struttura, detta di Müller7, dà origine all’utero, alle tube di Falloppio e alla vagina. C’è inoltre per entrambi i sessi, una particolare protuberanza detta tubercolo genitale che si trasforma poi nel pene o nel clitoride. Sotto il tubercolo genitale c’è un’apertura i cui lembi si fondono nel maschio, e che resta invece tale nella femmina.

Dopo il concepimento, e per sei settimane, gli embrioni XX e XY procedono lungo lo stesso percorso naturale per quanto attiene lo sviluppo sessuale. Al termine della sesta settimana si presenta una biforcazione, un ramo della quale porta nella direzione della mascolinità. A questo punto, i cromosomi Y di un embrione maschio inviano un messaggio alle due gonadi, sinistra e destra, e ordina loro di proliferare, di sviluppare strutture tubolari e di trasformarsi in testicoli.

Se non interviene il cromosoma Y a farli deviare, proseguono lungo lo stesso percorso per altre sei settimane prima che le primitive gonadi indifferenziate comincino a svilupparsi definitivamente in ovaie provviste di una quantità di cellule ovariche sufficiente per tutta la vita. Se il padre ha fornito un secondo cromosoma X, che va ad aggiungersi a quello materno, è questa coppia XX a far imboccare all’embrione la diramazione della femminilità.

Sebbene il modello cromosomico XX o XY della singola cellula originaria sia duplicato in ogni cellula del nostro corpo, l’influenza dei cromosomi sessuali cessa nel momento in cui viene inviato alle gonadi il messaggio per la determinazione del sesso. Da quel momento in poi, i cromosomi sessuali non operano più direttamente nella programmazione della vita sessuale.

Una volta differenziatasi in testicolo, la gonade comincia a produrre ormoni sessuali.

Il colesterolo, parente chimico dei grassi, costituisce il materiale grezzo per la linea di produzione dell’ormone sessuale.

Dal colesterolo i testicoli prima sintetizzano il progesterone, noto come ormone della gravidanza, poi l’androgeno, l’ormone mascolinizzante e, infine, l’estrogeno, l’ormone della femminilità.

I testicoli portano avanti il processo tanto da produrre estrogeni, ma in quantità molto limitata rispetto a quella prodotta dalle ovaie. Da un punto di vista chimico sono tutti strettamente imparentati, ma ogni ormone ha funzioni specifiche e assume forme differenti.

Il progesterone è detto ormone della gravidanza perché nella donna in gestazione il suo livello si innalza, e pure dopo l’ovulazione nel corso del ciclo mestruale, in preparazione di una possibile gravidanza.

Se l’ormone maschile si chiama androgeno, quello femminile estrogeno, e progesterone quello della gravidanza, queste distinzioni sono tutte in un certo senso fuorvianti in quanto normalmente in ogni individuo sono presenti tutti e tre gli ormoni sessuali, e la differenza sta nella proporzione del miscuglio: i testicoli producono androgeni in quantità tale da dominare gli estrogeni nel maschio, mentre le ovaie producono una quantità di estrogeni tale da dominare gli androgeni nella femmina. Per gli ormoni sessuali, si tratta di una questione di soglia, dunque, di una quantità più o meno rilevante, piuttosto che della presenza, degli uni o degli altri.

La quantità di ormoni sessuali prodotti e la percentuale di ognuno nel cocktail non sono uguali in tutti gli uomini e in tutte le donne, né restano stabili nel medesimo individuo. Di solito, comunque, una variazione oltre i limiti normali, specie se in un periodo critico della vita prenatale, può avere conseguenze drammatiche.

Il nostro cocktail ci fa imboccare l’una o l’altra direzione alla biforcazione che si presenta lungo il percorso prenatale, allorché le nostre strutture genitali interne, ancora allo stato embrionale, incontrano il loro destino: una serie di strutture comincia allora a svilupparsi, l’altra ad annullarsi. Per l’uomo, la produzione di ormoni testicolari in questo periodo critico prenatale stimola le strutture di Wolff a svilupparsi in tubuli semisferici, prostata e deferenti. Il miscuglio contiene anche una speciale sostanza, la cui presenza è temporanea, che blocca lo sviluppo delle strutture di Müller.

Se il cocktail ormonico prenatale non è maschile, allora le strutture di Müller proseguono nel normale modello femminile, e si sviluppano in utero, tube di falloppio e vagina, mentre le strutture di Wolff cominciano ad atrofizzarsi8.

Occorre dunque un cocktail di ormoni maschili affinché le strutture di Wollf si sviluppino, e uno speciale e temporaneo ormone inibitore, secreto in questo periodo dai testicoli, affinché delle strutture di Müller sia stroncata l’ambizione di trasformarsi in utero, tube di falloppio e vagina; per contro, in questa fase dello sviluppo non occorre alcuna spinta ormonale per procedere verso la femminilità.

Laddove sono necessarie l’assenza del cromosoma Y e la presenza di almeno due cromosomi X affinché una gonade si trasformi in ovaia, non appena superata la biforcazione ecco che la strada neutrale e la strada femminile convergono. A meno che la spinta verso la direzione maschile non sia abbastanza forte, il feto prenderà la direzione femminile ad ogni successiva biforcazione, in presenza o no di una spinta femminile.

Tutti gli embrioni hanno un cromosoma X e tutti sono circondati dagli estrogeni materni durante la vita prenatale. Anche se insufficiente per il pieno sviluppo quale femmina fertile, pure tale sviluppo basta a sostenere lo sviluppo femminile. Generalmente i maschi sono più vulnerabili delle femmine agli errori di differenziazione sessuale. Se uno qualsiasi dei nostri sistemi fallisce, possiamo riprendere a costeggiare il percorso femminile, ma non quello maschile.

Una volta fissati il sesso cromosomico e il sesso gonadico, e stabilitosi il cocktail ormonico, e allorché una serie degli organi della riproduzione comincia a svilupparsi e l’altra ad atrofizzarsi, arriviamo all’ultima biforcazione sulla strada della differenziazione sessuale prima della nascita, vale a dire la modellazione dei genitali esterni, e anche in questa occasione sono gli ormoni sessuali a determinare la svolta. Modellazione è il termine giusto da usare perché i materiali sono in entrambi i casi gli stessi: oltre al tubercolo genitale e all’unica apertura, gli elementi sono una piega o striscia di pelle o un piccolo rigonfiamento ai due lati dell’apertura.

Per la modellazione femminile non occorre nessuno stimolo ormonale: è sufficiente l’assenza dell’ormone maschile. Se il cocktail di ormoni non è maschile, il tubercolo genitale rimane piccolo e diventa il clitoride, le due pieghe di pelle restano separate, in modo da formare le grandi labbra. L’apertura sviluppa una parete divisoria per separare l’ingresso della vagina che conduce all’utero, dall’uretra che collega la vescica urinaria.

Se la mescola di ormoni è maschile, allora il tubercolo genitale diventa il pene, e le due pieghe di pelle, fondendosi in una sutura, si avvolgono intorno al pene in modo da formare il canale uretrale. I due rigonfiamenti si fondono e formano lo scroto pronto a ricevere i testicoli che scendono circa sette mesi dopo il concepimento. Il canale uretrale si collega alla vescica urinaria e alla prostata, ai deferenti e ai testicoli9.


Deviazioni prenatali

È possibile disegnare una mappa delle fasi prenatali della differenziazione sessuale studiando i casi in cui lo sviluppo svolta in modo incoerente a una delle biforcazioni.

Nella prima cellula che si forma al momento del concepimento sono talvolta carenti i cromosomi sessuali. Ciò significa che a un cromosoma X non si è accoppiato un cromosoma Y o un altro cromosoma X, ovvero che il secondo membro della coppia, X o Y che fosse era difettoso. Poiché è il secondo membro a dirigere la differenziazione delle gonadi, un singolo cromosoma X - spesso si scrive X0 ma è più esatta la versione 45.X - consente alle gonadi di restare oziose invece di trasformarsi in testicoli o ovaie. Se manca la spinta alla differenziazione sessuale, l’individuo svolta in seguito in direzione femminile, sicché un X0 ha sempre un corpo femminile. Tuttavia, mancando delle ovaie, la donna X0 non è in grado di concepire, inoltre alla pubertà ha bisogno di un supplemento di estrogeni per supplire a quelli che in quel periodo le ovaie avrebbero prodotto per far emergere le caratteristiche sessuali secondarie, ad esempio lo sviluppo del seno. Accade anche che il cromosoma mancante impedisca una crescita d’altezza superiore al metro e mezzo circa.

I primi rapporti su persone i cui cromosomi sessuali risultavano eccedenti cominciarono ad apparire nel 1959. Le combinazioni più comunemente identificate sono: XXX, XXY, e XYY, ma esistono altre possibilità ancora: XXYY, XXXY, XY/XYY, XXY/XXXY, e parecchie altre.

Un cromosoma X in più può non danneggiare la femmina XXX, la quale può avere un esistenza normale senza accorgersi di avere un cromosoma in più. Anche se talvolta ci si trova di fronte a ritardate mentali.

I soggetti XXY sono anatomicamente maschi, di solito alti e dinoccolati. Il cromosoma X in eccedenza interferisce con il normale sviluppo dei testicoli, rendendoli sterili. I ragazzi e gli uomini XXY sono più suscettibili della maggior parte della gente a disturbi del comportamento, il che rende loro difficile sviluppare personalità adeguate. Gli individui XXY con un basso QI sono statisticamente più numerosi della norma.

La scoperta che esistono uomini con un cromosoma Y in più è stata fatta nel 1961. Siccome il primo gruppo di uomini XYY fu individuato da un’équipe di ricercatori i cui soggetti erano rinchiusi in un carcere speciale, erroneamente si avanzò l’ipotesi che il modello XYY predisponesse l’uomo alla violenza; un successivo campionamento ne ha dimostrato l’eccessiva generalizzazione. Si può comunque cautamente affermare che la maggior parte di questi soggetti, finora individuati, sono uomini impulsivi, con poco autocontrollo.

Quanto alle gonadi in particolare, ci sono persone i cui cromosomi standard XX o XY non hanno inviato il messaggio (alle gonadi) in modo opportuno e al momento giusto della vita prenatale. Il messaggio XY è spesso più confuso del messaggio XX, ed è pertanto qualcuna delle istruzioni mascolinizzanti, più spesso, ad andare perduta. Se le istruzioni sono incomplete, le gonadi di un maschio genetico non possono trasformarsi in testicoli completi né possono in seguito fornire il totale di androgeni necessari affinché l’individuo diventi maschio. Più raramente va perduto il messaggio XX, in modo tale che le gonadi non diventeranno né testicoli né ovaie, dando luogo alla condizione del vero ermafroditismo. Ancor più di rado il messaggio XX è così confuso che le gonadi di una persona in apparenza cromosomicamente femmina diventano veramente dei testicoli.

Un ermafroditismo estremamente raro è quello detto vero ermafroditismo laterale, condizione in cui l’individuo ha da una parte un’ovaia e dall’altra un testicolo. Come ciò avvenga non è ancora perfettamente noto, e il fenomeno ha piuttosto originato miti e leggende. Di regola, il vero ermafrodita laterale ha cromosomi XX, ma può anche presentare combinazioni a mosaico di X/XY o XX/XY. In una parte o organo del corpo le cellule possono avere un modello cromosomico differente da quello presente in altre parti del corpo, oppure si ritrova in tutti gli organi il miscuglio a mosaico.

Nella fase prenatale, in cui sta agli ormoni controllare la differenziazione sessuale prenatale, aumentano un poco le eventualità di deviazioni dalla norma.

La differenziazione maschile allo stadio fetale è complicata dal fatto che le strutture di Wolff devono essere stimolate e le strutture di Müller delimitate dagli ormoni. Se l’ormone inibitore è assente in un cocktail di ormoni maschili altrimenti normale, ovvero se fallisce nella sua missione, un maschio perfettamente normale può ritrovarsi fornito di utero e di tube di Falloppio perfettamente normali (seppure non funzionanti) oltre che degli organi genitali interni maschili. L’utero superfluo crea un certo disagio poiché ostacola la discesa dei testicoli. Questi ultimi, poi, se restano all’interno del corpo invece di discendere nello scroto, in cui l’aerazione ne abbassa la temperatura, non possono produrre sperma vivo, e pertanto la sterilità è di norma in questi uomini, a meno che non si intervenga presto per rimuovere gli organi eccedenti e far ridiscendere i testicoli, operazione che non sempre consente di superare la sterilità.

Può anche darsi il caso in cui un maschio genetico e gonadico i cui testicoli producono androgeni non siano capaci di usarli. Questa condizione è detta «sindrome di insensibilità agli androgeni», e si tratta di un difetto ereditario che viene trasmesso attraverso le femmine, ma soltanto alla prole geneticamente maschile. Incapaci di captare le istruzioni degli ormoni testicolari, le strutture di Wolff di un feto insensibile agli androgeni non riescono a trasformarsi in prostata, tubuli, semisferi e deferenti. Il messaggio inibente, tuttavia, di solito passa e impedisce alle strutture di Müller di svilupparsi; pertanto, l’individuo finisce per non avere organi genitali interni completi né maschili né femminili. La vagina e gli altri genitali esterni sono formati secondo il modello femminile, e di conseguenza l’infante appare normalissimo, risulta femmina e viene allevato come tale. Può vivere tranquillamente ignorando i suoi cromosomi fino alla pubertà, momento in cui al di là dell’aspetto esteriore, si accorgerà di non essere una ragazza normale, di non avere mestruazioni e poi, di non poter concepire.

I suoi cromosomi XY non le impediranno di diventare una donna. Nella mescola di ormoni testicolari è presente una quantità di estrogeni sufficiente a dotare un ragazzo di seno e a far sì che il tessuto adiposo ne arrotondi le forme nell’adolescenza se gli estrogeni non sono dominati dagli androgeni che guidano l’emergenza delle caratteristiche maschili secondarie. I testicoli non scesi nei giovani insensibili agli androgeni producono androgeni in abbondanza, ma siccome le cellule corporali non sono in grado di rispondere alle istruzioni degli androgeni, questi individui appaiono comunque femminili: si sviluppa il seno, il corpo si arrotonda, la voce non diventa grave né spunta la barba. Una donna insensibile agli androgeni deve magari, ma non necessariamente, sottoporsi a un intervento chirurgico per allungare la vagina. Se i testicoli vengono scoperti e asportati nell’infanzia o nella pubertà, le saranno somministrati estrogeni per supplire a quelli che avrebbero fornito i testicoli.

È anche possibile una insensibilità marginale agli androgeni, con cellule corporali che riescono a fare un uso solo parziale degli androgeni, per cui il neonato viene al mondo con un piccolo pene mancante di condotto urinario e solo poco più grande di un normale clitoride, con testicoli che paiono protuberanze all’inguine e lo scroto parzialmente non fuso. La soluzione migliore per questo piccolo individuo è di essere considerato femmina, come tale allevato, e sottoposto poi all’intervento chirurgico e all’ormonoterapia.

La chirurgia può femminilizzare l’aspetto genitale riducendo le dimensioni del pene e separando lo scroto per aprire la vagina. La rimozione di parte del tessuto genitale e l’approfondimento della vagina non interferiscono necessariamente con la capacità orgastica. L’orgasmo rappresenta per la natura la certezza della riproduzione, e se ne preoccupa talmente tanto da rendere possibile l’asportazione di quantità notevoli di tessuto sessuale, senza intaccare la capacità orgastica.

Taluni considerano maschi, e li allevano come tali, neonati particolarmente insensibili agli androgeni, o perché non si comprende bene la prognosi, oppure perché si esita ad interferire con quella che viene considerata la volontà divina.

L’aspetto esteriore dell’infante è anatomicamente imperfetto: la chirurgia può completare la fusione dello scroto e far scendere i testicoli sterili, ma non può provocare la crescita del pene. In un secondo momento il pene potrà anche avere capacità orgastica ed erettiva, come un clitoride delle stesse dimensioni, ma sarà inadeguato al ruolo maschile nel rapporto sessuale. Se il pene è corto, o persino se viene amputato, un uomo è in grado di esperire eccitamento e orgasmo, ma un pene in erezione deve almeno raggiungere i sei centimetri e mezzo di lunghezza perché il coito sia soddisfacente per ambedue i partner. Con un intervento chirurgico è possibile asportare i seni che gli estrogeni presenti nel cocktail di ormoni maschili di un corpo parzialmente insensibile agli androgeni, s’incaricano di sviluppare al momento della pubertà, ma è impossibile conferire al corpo una linea mascolina, rendere grave la voce o far crescere la barba. Non serve somministrare dosi supplementari di androgeni, già presenti in abbondanza: le cellule organiche infatti non sono in grado di usarli. Questo individuo sarà sempre ostacolato da un corpo effemminato e vivrà una insoddisfacente vita sessuale.

Se la ipoandrogenizzazione ha effetti tanto rilevanti su un maschio genetico e gonadico, l’effetto contrario, ovvero un eccessiva dose di estrogeni, procura l’aborto.

Diversi sono i rischi di natura ormonica per il feto femmina. La differenziazione femminile non richiede un qualcosa in più ad ogni fase; il pericolo è che qualcosa, in particolare una eccessiva dose di ormoni maschili, si aggiunga in una fase critica della vita prenatale. Un eccedenza di androgeni può provenire da varie fonti. Alcuni tumori delle ovaie e delle ghiandole surrenali producono androgeni, e se la madre è colpita da un siffatto tumore durante la gravidanza, gli androgeni possono raggiungere il feto attraverso il sangue materno. Le due ghiandole, o capsule, surrenali si trovano ognuna sulla parte superiore e interna del rene corrispondente, e una delle due porzioni da cui sono formate, la corteccia surrenale appunto, elabora tra l’altro il cortisone. Il cortisone non è un ormone sessuale, bensì un suo cugino primo. Un corticosurrene mal funzionante secerne talvolta un prodotto incompleto, un cortisone difettoso, che nell’organismo svolge la stessa funzione degli androgeni.

Per un certo periodo, negli anni quaranta e cinquanta, si presentò un’altra possibile fonte di preoccupazione per il feto femmina: il progesterone sintetico, che al tempo costituiva una novità, e di cui si era appena scoperta la proprietà di scoraggiare l’aborto spontaneo. Il progesterone sintetico se assomiglia molto ai normali ormoni maschili nella struttura biochimica, quanto ad azione biologica imita il progesterone naturale (l’ormone della gravidanza). Allorché cominciarono ad accumularsi le relazioni mediche da cui risultava che alcune delle gestanti sottoposte al trattamento avevano partorito bambine con genitali esterni mascolinizzati, si individuarono i colpevoli in taluni progesteroni sintetici.

Un eccessiva dose di androgeni o di progesteroni sintetici nel periodo prenatale non interferisce nella differenziazione degli organi interni della riproduzione, ma tende tuttavia a mascolinizzare i genitali esterni nel loro modellarsi. Il neonato può sembrare una femmina, un maschio o un ermafrodita: tutto dipende dalla quantità e dal momento in cui sono stati somministrati gli ormoni.

Se nel neonato si riconosce una femmina, che se necessario sarà sottoposta a intervento chirurgico, a ormonoterapia, l’androgenizzazione non le nuocerà in alcun modo. Crescerà normalmente e potrà avere dei figli, e le sue probabilità di diventare omosessuale non superano quelle di ragazze non esposte a forti dosi di progesterone sintetico o di androgeni nel periodo prenatale.

Quelli che alla nascita paiono maschietti, con il clitoride delle dimensioni di un pene o un vero pene con relativa uretra, e con le labbra che si sono fuse per trasformarsi in scroto, molto probabilmente, com’è ovvio, verranno considerati maschi e come tali allevati, anche se lo scroto è vuoto. Se si interviene adeguatamente al momento della pubertà, non ci saranno problemi, eccezion fatta per la fertilità. Se durante la pubertà la condizione femminile dei genitali interni si evidenzia nello svilupparsi dei seni e nell’inizio delle mestruazioni, si renderanno allora necessari un intervento chirurgico onde asportare l’utero e le ovaie, e una terapia a base di androgeni per mascolinizzare il corpo. Con questi accorgimenti il corpo assumerà un aspetto mascolino, la voce si farà grave e comincerà a crescergli la barba. Il suo fallo, seppure non proprio della grandezza media, avrà capacità erettiva, e i testicoli protetici di gomma al silicone possono venire inseriti all’interno dello scroto per normalizzare l’anatomia esterna dei genitali. Sebbene sterile la sua tendenza all’omosessualità non sarà più pronunciata che se fosse un individuo con cromosomi XY. In breve, nonostante i suoi cromosomi XX, può diventare un uomo non molto diverso dagli altri.

Per concludere, ciò che ci rende maschili o femminili non è determinato esclusivamente dai cromosomi, né dagli ormoni e neanche dagli organi sessuali, ma è un intricata correlazione di questi elementi, a cui si aggiunge con un ruolo di primo piano la cultura e l’educazione inflittaci.

 

- COSE DEL GENERE -

Queste considerazioni porterebbero ad una visione del mondo in chiave ginecocentrica, come si può riscontrare nel regno vegetale, animale e in principio anche nell’uomo.

Non si porrà ulteriormente l’accento sulla superiorità biologica femminile - ché è ormai indubbio lo sviluppo di una femminilità primaria e la favorevole inclinazione della natura in questa direzione - né ci si soffermerà sulle presunte ragioni sadico-narcisistiche che con la violenza hanno ribaltato lo stato naturale. D’altronde si porta qui l’attenzione sulle surrettizie distinzioni pseudoscientifiche, le quali ignorano l’influsso della civilizzazione, invece, l’unico e solo imperativo biologico che ci distingue, risiede nella capacità di fecondare o concepire, tutto il resto è umanità.


Concetto di identità/ruolo di genere

Con il termine di identità di genere si intende la consapevolezza che ogni individuo ha di appartenere al genere maschile oppure al genere femminile, questo in corrispondenza, normalmente, con l’anatomia esterna dei propri genitali.

Questa è solo apparentemente un’ovvietà, della quale non ci si asterrà dal metterne in luce le controversie.

Di seguito sono riportate le definizioni ufficiali dei termini:

identità di genere: l’uniformità, l’unità e la persistenza della individualità di una persona quale maschio, femmina o quale persona ambivalente, in maggiore o minor grado, specie se esperita nell’autoconsapevolezza e nel comportamento; l’identità di genere è l’esperienza privata del ruolo di genere, e il ruolo di genere è l’espressione pubblica dell'identità di genere;

ruolo di genere: tutto ciò che una persona dice e fa per indicare agli altri o al sé in che grado è maschio, femmina o ambivalente; include l’eccitamento e la risposta sessuali, ma a ciò non si limita; il ruolo di genere è l’espressione pubblica dell'identità di genere, e l’identità di genere è l’esperienza privata del ruolo di genere (Money, Ehrhardt, 1972).

Dunque, fattori genetici o ormonali, prenatali o postnatali, predispongono lo sviluppo dell'identità e dei ruoli in una direzione o nell’altra, ma, mentre hanno un forte carattere di conferma da parte della società che rinforza le differenze, - a parte le anomalie dello sviluppo ad essi connesse - queste possono essere smentite, a dispetto della perfezione fisica, da innumerevoli casi tra cui, i più immediati esempi si possono raccogliere nel transessualismo e nel travestitismo.


Origini biologiche della differenziazione sessuale

Per avere un quadro generale più adeguato del campo in cui ci si sta muovendo, è opportuno sintetizzare brevemente il sistema di differenziazione sessuale di tipo genetico e ormonale.

I cromosomi sessuali si distinguono in XX per la femmina, ed in XY per il maschio. Se il cromosoma Y invia messaggi alle gonadi, queste si trasformeranno in testicoli che svilupperanno in seguito un adeguato quantitativo di androgeni, altrimenti la direzione sarà femminile sia in assenza d’informazione X, sia in conseguenza di una ipoandrogenizzazione ormonale.

Esiste una infinita varietà di intrecci cromosomici e cocktail ormonali che, da un estremo all’altro attraversano una gamma di sfumature intermedie fino a raggiungere l’ambiguità totale.

Si prenda l’esempio di un ermafrodita il quale, se non allevato in maniera ambigua, sviluppa un’identità di genere solida, tale che, se durante la pubertà iniziano ad apparire segni del suo sesso genetico (opposto a quello della sua assegnazione), preferirà sottoporsi a tutte le peripezie di interventi chirurgici e terapie ormonali, ma non potrà mai rinnegare la propria identità a favore della propria biologia. Oppure una bambina lievemente androgenizzata sarà più portata a sviluppare un carattere da maschiaccio, più portata all’attività fisica e più competitiva, insomma, verrà influenzato il suo ruolo di genere ma non la sua identità (Money, Ehrhardt, 1972; Money, Tucker, 1975).


Sviluppo dell'identità nucleare di genere

Si è detto [v. cap. 2 §2 ] che identità e ruolo di genere si riferiscono al senso che si ha della propria mascolinità o femminilità; Stoller asserisce invece, che l’identità di genere è quel miscuglio di mascolinità e femminilità relativo al proprio sé e al proprio ruolo.

Dall’analisi di maschi e femmine transessuali veri, Stoller dimostra l’esistenza di una identità nucleare di genere. Questa non è impostata sul risolversi di conflitti e si sviluppa attraverso meccanismi preidentificatori10.

Le cause che danno forma all’identità nucleare di genere sono da ricondursi ad una serie di eventi che coinvolgono il bambino durante il primo anno di vita:

I Forza biologica: ha inizio nella vita prenatale ed è di provenienza genetica oppure ormonale (per es. maschi cromosomici non sensibili agli androgeni si sviluppano come femmine, sia per quanto concerne i genitali sia per l’identità).

II Attribuzione del sesso: nella maggioranza dei casi non ci sono errori di attribuzione, e né i genitori né il bambino, metteranno in dubbio la corrispondenza del corpo al sesso assegnato (si tenga però presente la possibilità di un’assegnazione ambigua in presenza di genitali ermafroditici).

III Atteggiamento dei genitori: comportamento differenziale da parte, specialmente della madre che ha a che fare con un maschio oppure una femmina; le sue pressioni nell’indirizzarlo verso l’uno o l’altro sesso.

IV Fenomeni biopsichici: messaggi subliminali che condizionano permanentemente il cervello del bambino (imprinting).

V Io corporeo: sensazioni, in particolare genitali, che aiutano a definire fisicamente e psichicamente il sesso, confermando la propria convinzione con quella dei genitori.

VI Sviluppo endopsichico: tutte queste forze vengono dapprima subite dal bambino, il quale con la sua crescente capacità fantasmatica impara a difendersi e a dare un senso a sé e al mondo. (inizia così a formarsi la struttura caratteriale dell’Io, che sarà capace di affrontare conflitti, di identificazione con i genitori ecc.) (Stoller, 1979).



Perversione come trionfo della volontà sui traumi dell'infanzia

«Le due sfide che ogni essere umano deve raccogliere - il complicato processo che lo porta ad acquisire e ad assumere un senso di identità individuale, seguito dall’adattamento alla propria identità di genere e all’assunzione di un ruolo sessuale [...] - sono le principali ferite narcisistiche alla psiche megalomaniaca del bambino» (McDougall, 1995).

Il trauma della nascita è la prima ferita subita, frattura tra l’Io e il mondo, separazione, abbandono, perdita.

La genitalità - raggiunta attraverso la fusione delle pulsioni parziali (anfimissi) e della risoluzione dei conflitti edipici (nella quale l’ideale dell’Io è stato proiettato sulla figura paterna) permette, nel coito eterosessuale, un momentaneo ritorno nel seno materno. Questo è realizzabile mediante «[...] un triplice processo identificatorio: identificazione dell’intero organismo con l’organo genitale, identificazione con il partner e identificazione con la secrezione genitale» (Ferenczi, 1924).

«[...] la perversione può essere sostanzialmente un disturbo della identità di genere [...] e può derivare dalla collera nel rinunciare alla primissima beatitudine e identificazione con la madre [...]» (Stoller, 1975). La perversione è il tentativo di ricomporre l’immagine narcisistica del Sé attraverso una regressione al periodo in cui l’Io e l’ideale dell’Io coincidevano, al caos (Chasseguet-Smirgel, 1985) nel quale il Sé era indistinto dal non Sé, ossia, il non Sé non differiva dall’inconsapevolezza del non Sé (Winnicott, 1971).

Chasseguet-Smirgel sottolinea il fatto che nel momento in cui il bambino è costretto a riconoscere la differenza genitale dei sessi, prende contemporaneamente coscienza delle differenze tra le generazioni. A questo punto o il bambino è persuaso dalla realtà e supera i suoi desideri differendoli, imparando l’attesa e proiettando nel futuro il soddisfacimento. Oppure può negare le diversità e assumere una posizione regressiva al livello sadico anale, in cui il suo pene fecale viene idealizzato, sublimato. All’opposto del quale si colloca il pene genitale paterno che, essendo svalutato non risulta minaccioso (il tutto non avviene senza la complicità materna); il suo ideale dell’Io, rimane fissato alla sua immagine narcisistica che è l’Io, Dio onnipotente, creatore di sé e del suo piacere.

Il perverso nega la realtà per imporre la sua volontà, ovvero induce la realtà a coincidere con la propria verità. Quindi assurge a creatore. E l’atto creativo può coincidere con l’atto perverso, che in tal caso è reiterazione della sconfessione dell’evento traumatico e riconferma del trionfo della propria volontà.

Allorché scopre le ineguaglianze anatomiche, il bambino è spinto ad indagare tali differenze allo scopo di confermare la propria virilità o femminilità. Senonché la sua curiosità viene frenata dalla società che ne frustra il desiderio rendendo le differenze pericolose e acutizzando conseguentemente il mistero.

Con l’insorgere dei desideri edipici e le sensazioni fisiologiche provenienti dai genitali, questa curiosità è incrementata e pervasa di eccitazione e frustrazione. Il bambino cerca così gratificazione attraverso l’osservazione, conquistandosi il premio e sfuggendo alla punizione.

Questo gioco di premi e punizioni agito dalla famiglia (e in primo luogo dalla madre), può provocare un atto di difesa del bambino che svilupperà una nevrosi o una perversione11.

Il mistero ed il pericolo sono intensificati ed il bambino è stato traumatizzato o stimolato proprio in relazione al mistero, conseguenza del sovrainvestimento dei genitali e della loro investigazione.

La risoluzione del mistero e dell’angoscia di perdere la propria identità si ha con l’invenzione dell’atto perverso, o della fantasia dell’atto perverso (Kaplan, 1991; Stoller, 1979). In genere negando le differenze, o rendendo queste innocue sopravvalutando il sesso corrispondente al proprio.

Il trauma dell'infanzia o la frustrazione, riemergono nello stato di eccitazione sessuale e ricostituiscono il mistero che era stato deviato ma non risolto.

Nell’atto perverso è rivissuta la situazione traumatica e cancellata dal rovesciamento dell’angoscia in trionfo, della vittima in vincitore.

L’eccitazione è presente nella misura in cui la situazione reale corrisponde o somiglia alla fantasia difensiva, prima del bambino, ora dell’adulto. Più la realtà è simile al trauma o richiama la frustrazione, tanto maggiore sarà l’angoscia che farà oscillare l’eccitazione tra il rischio del riemergere del trauma e la speranza del trionfo su di esso, attraverso un’immensa gratificazione sessuale. Finalmente il bambino violentato è diventato il violentatore; si è preso ciò che gli era stato proibito e questa vendetta lo rassicura sulla sua identità. Ogni volta che questa identità è messa in pericolo da circostanze reali o immaginarie, il copione perverso viene ripetuto in una coazione che ha lo scopo di salvaguardare non solo la salute psichica dell'individuo (anche a rischio della morte biologica) (McDougall, 1995) ma anche la sopravvivenza della specie [sic]. Anzi, spesso il perverso si sente ossessionato dalla necessità di rinnovare l’atto, forse a causa di un reciproco condizionamento dei centri del piacere con la negazione ogni volta dell’evento traumatico (Stoller, 1975).


Eccitamento come moto di ostilità

Già Freud ipotizzava che «[...] la crudeltà e la pulsione sessuale [erano] intimamente connesse [...]. Sulla via di questo nesso della crudeltà con la libido, avviene anche la trasformazione dell’amore in odio, di moti affettuosi in moti ostili [...]» (Freud, 1905).

Il predominio dell’ostilità in un atto sessuale è sufficiente e necessario per considerarlo perverso, ma lo stesso Freud ritiene che in ogni individuo normale sono presenti caratteri di perversione.

Di conseguenza tutte le relazioni, o quanto meno la maggioranza, si basano più su una dinamica di ostilità che non su quella della tenerezza, sicché negano la possibilità di instaurare una relazione d’amore matura (Kernberg, 1995).

A Stoller comunque il merito di aver fatto emergere la forma erotica dell’odio, dunque l’ostilità come componente onnipresente in ogni perversione - anche quelle che appaiono innocue - ed averne indagato le origini ed il funzionamento (la psicodinamica). In pratica ha ipotizzato e dimostrato che qualunque atto perverso è contraddistinto dalla volontà di fare del male al proprio oggetto d’amore, di danneggiarlo.

Le componenti fisse, anche se non sempre apertamente manifeste, presenti nell’atto perverso, sono: ostilità, che prende forma in una fantasia di vendetta, celata nelle azioni che servono a convertire il trauma dell’infanzia nel trionfo dell’adulto. Per creare la massima eccitazione, la perversione deve anche rappresentare un’azione rischiosa e una feticizzazione.

Lo stesso trauma, la stessa frustrazione, la stessa ostilità, lo stesso rischio e un tocco di feticismo rendono possibile l’eccitazione sessuale sia negli individui considerati perversi, sia nei così detti normali.

Anche se l’ipotesi che l’amore si basi su una dinamica di ostilità può apparire deludente, è quanto mai raro che le qualità che conducono all’innamoramento non coincidano con quelle che inibiscono il desiderio sessuale.

Si è visto che lo sviluppo di un’identità/ruolo di genere nella norma è qualcosa di non connaturato all’uomo. Gli stereotipi sociali maschili e femminili, rappresentati dagli ideali di purezza femminile e virilità maschile sono perversioni istituzionalizzate.

Tutto quello che ci viene presentato come libertà sessuale non è altro che la più perfetta e subdola manipolazione, quella del desiderio.

Il desiderio è così reso disponibile ad un soddisfacimento immediato e, quel che più conta, socialmente accettabile, anche nelle sue forme più violente e perverse. Il desiderio nella sua forma reificata è, come una qualunque merce, alla portata di tutti gli uomini di buona volontà che, d’ora in avanti, saranno dispensati dal sublimarne gli eccessi, attività divenuta - in questi ultimi tempi - pericolosamente rivoluzionaria.

Si è liberi di scegliere: vivere una sessualità sviata e reificata o reprimerla fino alla malattia, ma si può anche scegliere di rimanere nella confusione.

 

- L’ARTE LIBERATA -




Noi vediamo che gli individui vivono creativamente e trovano che la vita valga la pena di essere vissuta, o che non possono vivere in maniera creativa e dubitano del valore del vivere. Questa variabile negli esseri umani è direttamente in rapporto alla qualità e alla quantità di opportunità ambientale [...] È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’essere scopre il Sé.[...] Tra il vivere creativamente e il semplice vivere, si possono studiare le ragioni per cui il vivere creativamente può andare perduto e perché può scomparire nell’individuo il sentimento che la vita reale ha un senso.
Winnicott, 1971

 

Il pensiero avanguardistico di Benjamin

Benjamin pone l’attenzione sulle nuove tecniche di riproducibilità dell’arte e, di conseguenza, sul loro carattere rivoluzionario, carattere che pone termine ad una concezione aristocratica dell’arte, abolendo dalla scena l’individuo borghese, e permettendo altre forme di vita e d’arte in una nuova società di massa.

La distinzione di un quadro da una riproduzione illustrata si trova dettagliatamente espressa nel concetto di "aura" (Benjamin, 1936).

L’aura è un «singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. Seguire placidamente in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte [...] fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione - tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti [...]» (Benjamin, 1936).

La teoria della scomparsa dell’aura è per Benjamin una caratteristica di questa epoca delle masse che è portata attraverso la tecnica a sviluppare una nuova appercezione del mondo, (spinta dal bisogno di avvicinare le cose).

L’arte popolare, tecnicamente riproducibile si contrappone all’arte individualistico-aristocratica che esalta quel feticcio che è il nome del maestro.

A partire da queste riflessioni, Benjamin scrive un saggio dedicato a Eduard Fuchs, il quale sia in quanto teorico sia in quanto collezionista, aveva «rotto su tutta la linea della concezione classicistica dell’arte, una concezione di cui si trovano ancora tracce in Marx» (Benjamin, 1936). Fuchs, dice Benjamin, ha avviato la liberazione della storia dell’arte, dimostrando come, ad esempio nella scultura dell’era dei Tang le esperienze artistiche mostravano il modo in cui il mondo era visto dalla comunità, (e, con intuito dialettico) definendo in tal modo il carattere particolare dell’arte di massa, (che nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è tanto più attuale quanto deflagrante). Ed in questo saggio espone chiaramente la propria idea di materialismo storico, prendendo a pretesto il pensiero di Engels che «polemizza su due punti: da un lato contro l’abitudine a presentare un nuovo dogma nella storia dello spirito come lo sviluppo di un altro precedente, una nuova scuola di poeti come reazione ad un altra passata, un nuovo stile come il superamento di un altro precedente; ma insieme, implicitamente, polemizza anche, e con tutta evidenza, contro l’abitudine a presentare simili complessi indipendentemente dal loro effetto sugli uomini e dai loro processi produttivi, sia spirituali sia economici» (Benjamin, 1936). Tipico dello storicismo è chiudere vari settori e i loro prodotti in una loro autonomia circoscritta - come l’arte e le sue opere con un concetto stabilito. «Lo storicismo rappresenta l’immagine eterna del passato; il materialismo storico una peculiare esperienza [...] della storia che per ogni presente è un esperienza originaria» (Benjamin, 1936) - come l’arte e le sue opere che si integrano col tempo e mutano la propria funzione.


L’arte nel pensiero marxiano

L’interpretazione materialistica della storia si sviluppa in Marx dall’analisi tra la base materiale (struttura economica) e la sovrastruttura culturale. «Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato puto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti [...]» (Marx, Engels, ed. it. 1967).

Quindi le sovrastrutture culturali, quali ad esempio l’arte, non sono funzioni eterne della natura umana o categorie universali dello spirito ma sono, anche se non sempre immediatamente, correlate alla struttura economica. La validità delle forze culturali si può confrontare solo in rapporto al mondo reale, altrimenti vengono considerate ideologia in senso propriamente marxista.

Il legame che l’arte ha con determinate forme di sviluppo sociale è dunque variabile e «ad esempio, la produzione capitalistica è avversa a certi rami di produzione spirituale quali l’arte e la poesia» (Marx, Engels, 1967) e ironicamente si chiede se «dato che nella meccanica siamo più avanti degli antichi perché non dovremmo anche poter creare un’epica?» (Marx, Engels, 1967). Naturalmente da un tale tentativo non può che nascere un’opera morta, in quanto il piacere che ci procura l’arte classica è dovuta non già da elementi eterni e, tanto meno dal fluire delle esperienze del passato, ma dalla sua irriproducibilità in quanto unica e in quanto creazione della fanciullezza dell’umanità, condizione non più ripristinabile.

Il ruolo del lavoro nel processo formativo dell’arte è naturalmente evolutivo. E «la mano non’è [...] soltanto l’organo del lavoro: è anche il suo prodotto [...]. La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale, [...] il bisogno dell’oggetto è creato dalla percezione dell’oggetto. L’oggetto artistico - e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto - crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto ma anche un soggetto per l’oggetto» (Marx, Engels, 1967).

La divisione del lavoro, in origine non era che la divisione del lavoro nell’atto sessuale. Del resto divisione del lavoro e la proprietà privata sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all’attività esattamente ciò che con l’altra si esprime in riferimento al prodotto dell’attività. La ripartizione del lavoro, tanto nella famiglia quanto nella società, è ineguale sia per quantità che per qualità di lavoro e di prodotti, e la proprietà ha il suo germe nella famiglia dove la donna e i suoi figli sono schiavi dell’uomo. Viene quindi a mancare l’interesse collettivo per soddisfare quello del singolo individuo (capitalismo). «Cioè appena il lavoro comincia a essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva da cui non può sfuggire [...] e tale deve restare se non vuole perdere i mezzi per vivere [...]. Questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative [...]» (Marx, Engels, 1967) questa è alienazione.

L’economia è una scienza morale che sottrae vita. L’alienazione è in primo luogo estraniamento di ciò che appartiene al proprio essere. Quindi il lavoro non afferma ma nega, non appaga ma mortifica. Il lavoro non è soddisfazione di un bisogno ma mezzo per soddisfare bisogni esterni, quindi l’operaio si sente libero solo fuori dal lavoro, perché il lavoro che svolge non gli appartiene ma è di un altro. «Allorché dunque, il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua produzione [...] gli sottrae la sua reale oggettività. Egualmente, quando il lavoro alienato abbassa la spontaneità, la libera attività, ad un mezzo, fa della vita generica dell’uomo il mezzo della sua esistenza fisica» (Marx, Engels, 1967). Per vita generica intende la vita reale, la realtà oggettivata dall’uomo attraverso il "lavoro vero", come ad esempio lo è l’arte in quanto libera attività consapevole, attraverso la quale l’uomo produce il mondo oggettivo.

Il lavoro artistico nella società capitalistica sia che produca merci vendibili direttamente (quadri, libri, dischi, ecc.) sia che si realizzi indistintamente nell’attività dell’artista (attore, oratore, e qualunque esecutore), è considerato produttivo o non produttivo, non in quanto distinguibile da un altro lavoro, ma differisce solo in quanto se è impiegato da un imprenditore a fini capitalistici o meno. Ovvero se produce plusvalore o se consuma un reddito per se stesso. Per fare un esempio, «uno scrittore è un lavoratore produttivo, non in quanto produce idee, ma in quanto arricchisce l’editore che pubblica i suoi scritti, o in quanto è il lavoratore salariato di un capitalista» (Marx, Engels, 1967).

In seguito della rivoluzione industriale non esiste nessuna giustificazione della divisione in classi. Anzi queste sono di ostacolo allo sviluppo culturale in una società nella quale più nessuno deve essere costretto a penare per guadagnarsi la sopravvivenza, ma tutti avranno il tempo e i mezzi per curarsi del lavoro spirituale.

«La concentrazione esclusiva del talento artistico in alcuni individui e il suo soffocamento nella grande massa, che ad essa è connesso, è conseguenza della divisione del lavoro. Anche se in certe condizioni sociali ognuno fosse un pittore eccellente, ciò non escluderebbe che ognuno fosse un pittore originale, cosicché anche qui la distinzione tra lavoro umano e lavoro unico si risolve in una pura assurdità. In un’organizzazione comunistica della società in ogni caso cessa la sussunzione dell’artista sotto la ristrettezza locale o nazionale, che deriva unicamente dalla divisione del lavoro, e la sussunzione dell’individuo sotto questa arte determinata, per cui egli è esclusivamente un pittore, uno scultore, ecc.: nomi che già esprimono a sufficienza la limitatezza del suo sviluppo professionale e la sua dipendenza dalla divisione del lavoro. In una società comunista non esistono pittori, ma tutt’al più uomini che, tra l’altro, dipingono» (Marx, Engels, 1967).


Debord e l’I. S

L’immagine si riferisce a qualcosa fuori di sé. L’evento è l’opposto dell’immagine, l’immagine è nata per definire l’evento. L’oggetto contemplato passivamente sottrae vita allo spettatore: «più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo agente si manifesta in ciò, che i suoi gesti non sono più i suoi, ma di un altro che glieli rappresenta; È la ragione per cui lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto» (Debord, 1967; 1988).

La divisione del lavoro e la separazione di questo dal proprio prodotto sono alla base dello spettacolo, in quanto questo è separazione. Esiste in quanto astratto. «Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine» (Debord, 1967).

Quale creatività può esserci in un uomo che viene continuamente anticipato e bloccato nel pensiero dal dispiegarsi incessante di contenuti estranei e saturi, e, nell’azione, dalla necessità di sopravvivere? Inoltre, è possibile continuare a sentire come propri i bisogni sempre più colonizzati, desiderabili, e spettacolari resi disponibili dall’industria dei loisirs?

L’esperienza estetica ha sempre a che fare con il possibile e con la ricerca di senso. Questa esperienza è sia realtà sia alternativa al presente. È un sentire eversivo. Si tratta di recitare un ruolo senza identificarsi ma mantenendo la distanza dal ruolo. Ciò implica un’attenzione costante, un controllo, sempre. Fare esperienza e sottrarsi ad essa.

Nel teatro di Brecht12 l’attore non recita ma cita, mantiene lo spazio critico, è un gesto esibito, mostrato, è un pezzo di vita.

Attraverso la fantasia e l’elaborazione dei ricordi, si può completare ciò che non è dato. La finzione è una caratteristica dell’arte, è giocare con la realtà, «... E sulla base del gioco viene costruita l’intera esistenza dell’uomo come esperienza; Noi facciamo esperienza della vita [...] nell’eccitante sconfinamento della soggettività e della osservazione oggettiva, in un territorio che è intermedio tra la realtà interiore dell’individuo e la realtà condivisa del mondo, che è esterna agli individui» (Winnicott, 1971). L’arte è sperimentazione di percorsi. Non è un atto liberatorio per cui è il luogo del tempo libero, ma è piuttosto il luogo del tempo liberato. Rispetto alle modalità permesse di vivere, questo tempo è tempo che si apre all’esperienza. Entrare ed uscire nei diversi ruoli, godere apprendendo. C’è sempre la presenza dell’altro considerato non lecito, è sperimentazione del momento essenziale della festa che esprime un nuovo sentire non ancora ritualizzato; è un fare volontario, libero, revocabile.

«La costruzione di situazioni comincia al di là del crollo moderno della nozione di spettacolo. È facile vedere fino a che punto il principio stesso di spettacolo sia legato all’alienazione del vecchio mondo: il non intervento. Si vede, al contrario, come le più valide ricerche rivoluzionarie all’interno della cultura abbiano tentato di spezzare l’identificazione psicologica dello spettatore con l’eroe, per trascinare questo spettatore all’attività, provocando le sue capacità di sconvolgere la propria vita. La situazione è così fatta per essere vissuta dai suoi costruttori. Il ruolo del "pubblico", se non passivo almeno solo di comparsa, deve diminuire sempre più mentre aumenterà la parte di quelli che non possono essere chiamati attori ma, in un senso nuovo di questo termine, "viveurs".
[...] Ecco tutto il nostro programma, che è essenzialmente transitorio. Le nostre situazioni saranno senza avvenire, saranno luoghi di passaggio. Il carattere immutabile dell’arte, o di qualunque altra cosa, non entra nelle nostre considerazioni, che sono serie. L’idea di eternità è la più grossolana che un uomo possa concepire a proposito dei suoi atti [...]. L’attitudine situazionista consiste nel puntare sulla fuga del tempo, contrariamente ai sistemi estetici che tendevano a fissare l’emozione [...]. Un saggio primitivo su un nuovo modo di comportamento è già stato ottenuto con quello che noi abbiamo chiamato deriva, e cioè la pratica di uno spaesamento passionale attraverso il rapido cambiamento di ambienti» (Debord, 1957). «Ciò significa l’abbandono di ogni "opera" che mira a essere durevole e a venir conservata come merce di scambio, non per sostituirla con un’arte senza opere, con degli happening o performance, ma per superare la dicotomia che esiste tra i momenti artistici e i momenti banali.
Le attività artistiche tradizionali hanno valore solo in quanto concorrono alla creazione di situazioni. [...] [Lo scopo è di raggiungere] una "vita sperimentale", [...] "inglobando la sopravvivenza dell’arte nell’arte di vivere" [...]; fino alla fine, l’I. S. ha concepito tutta la sua attività come una specie di avanguardia artistica» (Jappe, 1992).


Opera e relazione

Nell’articolo I fondamenti teorici dell’avanguardia fra ispirazione e relazione, Sergio Lombardo porta l’attenzione sul fatto che fino alle prime avanguardie del ’900, (quindi fino alla nascita della psicoanalisi) regnava suprema la teoria emanatista.

Tale teoria afferma l’esistenza di un centro da cui emana tutta l’energia e che sarebbe, dunque, l’origine del mondo. Di conseguenza tutto ciò che si trova più vicino al centro è carico di energia e puro, mentre tutto ciò che si trova più lontano dal centro è decadente e sporco.

Quindi un’arte che si rifaccia a tale teoria non può che essere primitivista ed infantile perché: «L’intuizione del bambino vale più della scienza dell’adulto, l’autenticità dell’uomo selvaggio vale più della razionalità dell’uomo civilizzato [...]. La contrapposizione più radicale fra passatisti e futuristi si riflette nella contrapposizione dei metodi poetici: il metodo dell’ispirazione per i passatisti, quello dell’evento sperimentale per i futuristi» (Lombardo, 1995a).

Secondo la psicoanalisi, il comportamento umano si modella sullo scontro di due forze in contrasto: una è la pulsione a realizzare il piacere; l’altra è la realtà che frustra tale desiderio (almeno in principio le costrizioni provengono dall’esterno, in seguito le istanze parentali vengono interiorizzate ed elevate ad inibizioni personali interne, formando in questo modo il Super-io).

Da questa dialettica nascono le relazioni d’amore.

«Ogni opera d’arte è, così come il sogno e i sintomi nevrotici, l’adempimento velato di un desiderio represso, "rimosso", e i desideri consistono nel formare il momento ideale dell’opera d’arte» (Rank, 1907).

«L’opera d’arte nella prospettiva psicoanalitica può essere vista come il risultato di un’attività di sublimazione del desiderio frustrato. Essa dunque manifesta in forma simbolica o fantastica una relazione d’amore mancata, che tuttavia riesce per vie più complesse a produrre piacere, a scaricare libido [...]. L’arte produce piacere estetico in quanto si propone allo spettatore come modello di rapporto d’amore» (Lombardo, 1995a).

Quindi come nell’analisi o nell’innamoramento, l’opera d’arte ripropone la relazione incestuosa del passato su un oggetto non incestuoso e nel presente.

Nella teoria primitivista l’ispirazione porta a realizzare direttamente la pulsione erotica, e l’oggetto d’amore può godere solo attraverso l’identificazione con l’aggressore13.

Allo stesso modo «l’effetto dell’opera d’arte è per colui che ne gode simile a quello dell’artista, benché in maniera diversa.
L’opera d’arte offre all’"improduttivo" la possibilità di scaricare eccedenti quantità di eccitamento senza significativi dispendi; l’artista infatti per eliminare le inibizioni interne doveva compiere il necessario lavoro psichico per sé... ed anche per chi ne gode. Costui, attratto dalla forma, s’immagina al posto dell’artista (creazione collettiva) [...]. Su questa semplice abreazione emozionale degli "affetti" si fonda il maggior effetto di piacere dell’opera d’arte [...]» (Rank, 1907).

«Il piacere per identificazione è stato tagliato alla radice dall’idea avanguardista che il rapporto d’amore possa essere una relazione interattiva, che i comportamenti di ambedue gli amanti possano essere modificati durante l’atto e che l’atto d’amore possa essere un processo di apprendimento per raggiungere livelli più profondi di piacere. Dunque l’attività dello spettatore nell’evento estetico deve avere la stessa potenzialità creativa dell’opera dell’artista, l’evento deve poter essere modificato dall’attività dello spettatore» (Lombardo, 1995a).

Lombardo considera superata l’arte passatista con il limite estremo raggiunto da Pollock, oltre il quale c’è solo il pazzo, il selvaggio, lo psicopatico, il neonato, il drogato, e le avanguardie come prosecuzione delle idee futuriste nella ricerca della relazione tra l’opera ed il pubblico.

La psicologia dell’arte ha cercato di risolvere sperimentalmente la questione del coinvolgimento del pubblico nell’opera d’arte, ovvero sulla relazione opera/stimolo-spettatore (Galeotti, 1995a).

Nella realizzazione di un monocromo, non a caso qui assurto ad esempio, si obbliga lo spettatore ad interagire con l’opera/stimolo, quindi ad esprimersi, e nel contempo l’artista svuota il suo agire da ogni possibile contenuto espressivo, riducendo il proprio compito ad una esecuzione puramente meccanica di un stimolo precedentemente progettato.

«I cinque principi estetici dell’avanguardia degli anni Sessanta furono i seguenti.
Primo principio, o principio di spontaneità: valorizzare i comportamenti umani spontanei in quanto involontari, automatici, incontrollabili, irripetibili, imprevedibili e soprattutto non simulabili; vietando ogni possibile "finzione di spontaneità" o atteggiamento spontaneistico.
Secondo principio, o principio dell’interattività: stimolare l’espressione dello spettatore (interpretazioni proiettive, spaesamento), vietando ogni espressione dei contenuti personali dell’artista (astinenza espressiva).
Terzo principio o principio dell’eventualità: inventare oggetti-stimolo capaci di provocare lo spettatore sul piano della realtà (evento), vietando la rappresentazione fittizia di mondi virtuali (finzione artistica, rappresentazione illusionistica, simulazione prospettica).
Quarto principio, o principio di strutturalità: vincolare la forma dell’oggetto-stimolo alla più semplice regola generativa in grado di garantirne la massima funzionalità estetica (Struttura), vietando la libertà compositiva dell’artista (composizione lirica).
Quinto principio, o principio di minimalità: nella produzione dell’oggetto-stimolo scegliere sempre la via più breve e più semplice (minimalismo), vietando l’uso di scelte arbitrarie, ispirate o poetiche (creatività, liricità)» (Lombardo, 1995b).

Cosicché, l’artista si pone nel ruolo dello psicoanalista. All’interno del setting analitico si crea una situazione di transfert nel quale il paziente può agire le proprie pulsioni, cioè può dare corpo alle sue fantasie realizzando con ciò un acting out.

Per creare questo acting out attraverso il transfert, in analisi, come anche in arte può essere necessario il ricorso alla seduzione (Saraval, 1989).

Facciamo un passo in dietro a riscoprire le analogie tra il setting analitico e quello Surrealista e Futurista studiato da Lombardo nell’articolo L’irruzione della realtà nell’arte e nella psicoanalisi.

Nel setting analitico si provoca forzatamente l’innamoramento del paziente invitandolo ad abbandonare le resistenze e a confessare i suoi pensieri più intimi automaticamente. L’analista deve però obbedire alla regola dell’astinenza spingendo il paziente all’elaborazione del lutto.

Se ciò non avviene ed il paziente insiste per realizzare i suoi desideri, ci si trova davanti alla messa in atto (acting out) della coazione a ripetere, cioè ad una «riedizione nevrotica del passato» (Freud, cit. in Lombardo, 1997). In questa condizione critica si raffrontano due ordini di comportamento: da una parte la rappresentazione, attuata dall’analista che protetto dall’astinenza, quindi completamente padrone del proprio controtransfert, sceglie sempre l’interpretazione, la raffigurazione verbale. Dall’altra la realtà, con il paziente che sceglie sempre l’acting out, ripetendo le sue reazioni infantili e le precedenti tattiche seduttive14.

Da questo scontro fra rappresentazione e realtà scaturiscono nuove problematiche che si ripropongono anche nel setting estetico.

«[...] La relazione estetica fra artista e pubblico deve avvenire necessariamente sul piano della rappresentazione e della contemplazione dell’opera, o può costituirsi direttamente come realtà? Se il rapporto estetico venisse definito programmaticamente come indistinguibile dalla realtà, anzi come realtà nel senso più proprio, come "evento", si potrebbe ancora parlare di esperienza estetica e di arte? E simmetricamente, sarebbe immaginabile un metodo di cura fondato sull’appagamento sistematico dell’amore di transfert?» (Lombardo, 1997).

Nel Surrealismo Breton cerca di produrre un transfert con il pubblico attraverso l’automatica verbalizzazione dei propri contenuti inconsci e la libera associazione, rinunciando dunque alle difese. Quindi assume il ruolo del paziente, ma escludendo dal setting l’analista, cioè colui che interpreta, i contenuti diventano ossessivi e le pulsioni tendono a tradursi in un acting out, questa volta rivolto al pubblico.

Da qui si veda quanto detto sopra sull’arte primitivista che deriva direttamente da questo automatismo a scopo espressivo, nel quale perdere il controllo dell’Io equivale a riconquistare l’origine perduta.

Nel setting Futurista, invece l’acting out (il passaggio dalla rappresentazione alla realtà) è messo in atto dal pubblico, e non dall’artista, il quale si pone nel ruolo dell’analista che suscita il transfert e scatena le pulsioni infantili.

La ricerca di un acting out nella realtà, capace di mutare il ruolo tradizionale dello spettatore davanti all’artista espressivo, è stato mantenuto dalle avanguardie di derivazione Futurista. Da una parte il concettuale tentò di produrre opere analiticamente calcolate, ma incapaci di provocare un transfert. Dall’altra l’happening che però non riusciva a misurare la qualità del materiale creato dagli acting out del pubblico.

«L’Eventualismo ha cercato di superare questi limiti elaborando un metodo di valutazione della attività del pubblico: il calcolo della dispersione delle risposte allo stimolo estetico. Tale indice è infatti direttamente correlato alla potenza scatenante dello stimolo» (Galeotti, 1994).

Per concludere, si propone «una ricerca di psicologia dell’arte, che sia capace di criticare non solo le strutture dei contenuti (dell’arte), [...] ma soprattutto i contenuti delle strutture produttive, così da riformulare al presente tutti i problemi posti dalle avanguardie e non risolti» (Ferraris, Galeotti, 1995).

Tale ricerca procede per tentativi ed errori e non può che servirsi del metodo scientifico, e per via sperimentale raggiungere dati verificabili (Galeotti, 1995b).

 

NOTE

  1. Mentre, alla nascita la prima identificazione avviene indifferentemente nei due sessi con la madre, quindi è primariamente femminile (a causa dell'indistinzione del Sé, dal corpo che lo nutre).

  2. Per scena primaria si intende il vedere, o l'immaginare, il rapporto sessuale tra i genitori.

  3. Quindi si fonda sulla coazione a ripetere che ritroviamo sia nelle perversioni sia nelle nevrosi, oltre dunque il principio di piacere.

  4. «Per Freud ciò che noi chiamiamo volontà in un certo senso si esaurisce nell'identificazione col padre, nel desiderio di prendere il suo posto. Ma questa concezione a mio parere, non è altro che una negazione di volontà personale, che viene cosÌ attribuita al padre (identificazione) oppure a dio. Per Adler, invece, la volontà non è tanto l'identificazione col padre quanto la protesta contro il padre, il volere altro; (...). La volontà però è tutt'e due le concezioni (...).». Rank, O., La volontà di essere felici, SugarCo 1992.

  5. La cromatina è materiale del nucleo cellulare visibile durante l'interrasse tra due divisioni cellulari, è costituita da acido nucleico (DNA). Durante la divisione cellulare i filamenti di cromatina si organizzano in cromosomi.

  6. Da Kaspar Wolff, un anatomista tedesco del XVIII secolo che le individuò.

  7. Dal nome del fisiologo tedesco Joannes Müller (1801-1858).

  8. Da notare che in questo secondo caso non occorre un miscuglio di ormoni femminili, e che la produzione di ormoni ovarici appare irrilevante nella differenziazione sessuale femminile.

  9. Sono i deferenti a trasportare dai testicoli gli spermatozoi che vanno a mescolarsi al liquido prostatico per formare lo sperma.

  10. Cfr. quanto sopra, alla fine del capitolo Origini biologiche della differenziazione sessuale.

  11. Freud nei suoi Tre saggi sulla teoria sessuale, definisce la nevrosi come l'immagine negativa della perversione. Ambedue si possono sviluppare dalla medesima pulsione sessuale, ma mentre l'una si mette al servizio del principio del piacere (perversione), l'altra viene rimossa succube della realtà, almeno all'origine. Il nevrotico, privato dell'illusione «a differenza dell'uomo di volontà creativa rappresentato da Edipo, non ricerca la verità per proprio volere o piacere, ma la incontra perché costretto dalla sofferenza». Rank, O., La volontà di essere felici, SugarCo 1992.

  12. Cfr. la Premessa.

  13. Cfr. la Premessa.

  14. Fino alla risoluzione dei conflitti edipici, quindi all'elaborazione del lutto, dunque anche all'acquisita capacità di instaurare una relazione d'amore libera dagli schemi nevrotici e matura.

 

- BIBLIOGRAFIA -

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