Passeggiate morbegnesi

L’antica chiesa di San Martino

«San Martino giace bassa e grave in una pianura
acquitrinosa e le sue muraglie sono ignude
d’ogni fregio e rotte da poche e strette finestre.
E pure è quello uno dei più antichi templi
della Valle e nella sua struttura a tre navi,
senza facciata, col portico grande sul davanti
significa tuttavia l’origine sua anteriore al mille,
quando ancora dominava l’uso di foggiare
le chiese come le antiche basiliche … ».

Così Guglielmo Felice Damiani descrive la chiesa di San Martino nel resoconto del viaggio compiuto con il suo maestro di pittura Giovanni Gavazzeni nell’estate del 1900. Ed effettivamente l’origine della chiesa sembra essere molto antica anche se oggi non si conserva nulla delle primitive strutture.

La leggenda vuole che sia sorta sulle vestigia di un tempio romano dedicato ad Ercole: esiste, nella storia dell’architettura, la persistenza dei siti più antichi anche perché li si riteneva luoghi magici, centro di forze positive. La chiesa San Martino È quindi possibile che i primi insediamenti paleocristiani in Valtellina intorno al V – VI secolo, abbiano conservato strutture preesistenti lungo il percorso dei grandi traffici.
Giustino Renato Orsini ne colloca l’origine in età carolingia, alle dipendenze della pieve di San Lorenzo di Ardenno, e nell’XI secolo alle dipendenze dei monasteri milanesi di San Dionigi e di San Simpliciano e del monastero comense di Sant’Abbondio. «Questo tempio, già soggetto al priore dell’Abbazia di Sant’Abbondio di Como, nell’anno 1208 fu elevato a parrocchiale di Morbegno, con diritto per il parroco di istituire beneficiari della stessa chiesa, come risulta dalla Bolla di Innocenzo III» (brano dell’epigrafe in latino lapidario interna alla chiesa, tradotto da Rinaldo Rapella).

Sappiamo di certo che «questa chiesa fu reffatta tutta di nuovo l’anno 1566, con tre navi e quattro colonne». Lo si trova scritto nella relazione della visita pastorale del Vescovo di Como Feliciano Ninguarda; alla data 14 settembre 1589 l’edificio aveva le forme attuali. Del pronao invece si comincia a parlare negli atti della visita pastorale del vescovo di Como Francesco Olgiati, nel 1718.

La chiesa Era da tempo una chiesa cimiteriale, come viene testimoniato dal teschio sovrastante il portale cinquecentesco, da lapidi e simboli dentro e fuori la chiesa. Sul sagrato Nord è ancora in piedi un’alta croce di ferro portante i segni della passione di Cristo, tragico monito ai fedeli voluto dalla controriforma cattolica promossa dai decreti del Concilio di Trento: la lancia con cui fu trafitto il costato di Gesù, l’asta per porgergli l’amaro fiele, la scala, le tenaglie, il martello, grandi ed inquietanti chiodi, il sudario, la corona di spine. Sempre a nord, tra le tombe lungo la cinta muraria, si trova quella del poeta Guglielmo Felice Damiani.

Dopo l’abrasione di un’immagine di San Giorgio, sulla facciata a capanna nascosta dal porticato ad archi a tutto sesto, a lato del portale d’ingresso, resta solo un’effigie di San Martino che dona il mantello. I due santi venivano spesso associati nella devozione popolare per il comune impegno di difensori della fede cristiana in abiti militari. I frequenti interventi di manutenzione hanno sicuramente cancellato altre tracce dell’antico decoro, e l’azione del tempo ha cancellato anche gli arredi sacri che risultavano abbondanti e di pregio, come risulta dagli atti delle visite pastorali e dagli inventari di San Martino, oggi conservati presso l’archivio della parrocchia di Morbegno.

All’interno, sulla parete di sinistra, si trova un affresco che rappresenta la Madonna in trono con il Bambino Gesù, già attribuito da Roberto Togni a un «ignoto frescante nell’ambito di Cipriano Valorsa (sec.XVI)», è oggi quasi concordemente assegnato al pittore Bresciano Vincenzo de Barberis e sembra essere sovrapposto a un precedente affresco. Madonna in trono con il Bambino Gesù Il linguaggio pittorico è semplice, nella scia della tradizione valtellinese del primo Cinquecento presente negli affreschi della chiesa di Sant’Antonio. Un telo giallo, teso tra i rami dei cespugli di fondo, isola le figure sacre come un sipario e, allo stesso tempo le incornicia. Danneggiata nell’alluvione del 1987, è stata sottoposta a restauro nel 1993 ed ultimamente recuperata a una leggibilità totale. Dopo la porta della sagrestia c’è un’epigrafe settecentesca che ricorda la dedicazione della chiesa a San Martino di Tours (ricorrenza da celebrare la seconda domenica di luglio) e la data della raggiunta autonomia dalla pieve di San Lorenzo di Ardenno, il 1208.
Sulla parete opposta, nel 1801, fu montato l’organo proveniente dalla chiesa di Sant’Antonio. Nulla si sa degli organi precedenti, annotati negli Atti delle visite pastorali.

Il soffitto è stato decorato nel 1842 da Angelo Greco, pittore morbegnese, con motivi di stampo classicistico, in monocromo; vi si riconoscono i simboli della passione di Cristo, l’Agnello mistico, la tiara vescovile, lo scapolare, un candelabro a sette bracci, il calice, la frusta …. La decorazione fu realizzata per incarico degli emigrati a Roma, come ricorda l’epigrafe della contro facciata, posta appena sopra il portale.

L’interno della chiesa di San Martino Lo spazio delle navate si conclude a Est con l’area absidale a pianta quadrata e due cappelle laterali.

Ai piedi dell’accesso alla cappella di sinistra è la lapide tombale di Tomaso Paravicini con la data 1643 (MDCXXXXIII). Nel 1718, negli atti della visita di monsignor Francesco Olgiati conservati presso l'Archivio storico della diocesi di Como e qui presentati in traduzione, risulta che «nel pavimento della chiesa sono scavate otto sepolture, ricoperte da pietre, di cui una per i sacerdoti, due per gli uomini e le donne separatamente, la quarta riservata alla famiglia del signor Giuseppe Paravicini Lozza, la quinta alla famiglia del signor Vincenzo Delfino, la sesta alla famiglia Schenardi, la settima alla famiglia de Romegianis e l’ottava ai de Casalis detti Perini». Nel 1737 le pietre tombali sono nove (visita del Vescovo Alberico Simonetta, presso il medesimo archivio).
La cappella di sinistra è dedicata alla Madonna di Loreto, rappresentata nella pala d’altare oggi in pessime condizioni. La devozione alla Madonna di Loreto è anteriore al XV secolo (l’equipaggio di Cristoforo Colombo, sorpreso da una tempesta nel viaggio di ritorno del 1493, le fece un voto).

La cappella di destra è dedicata a Santo Stefano, il primo dei martiri del Cristianesimo, il cui culto era diffusissimo nel medioevo contro i mali del corpo e dell’anima. La sua storia è raccontata da Luca negli Atti degli Apostoli: era diacono di Gerusalemme e fu lapidato «per aver offeso Mosè, Dio ed il tempio di Gerusalemme». In realtà la sua predicazione, le sue parole ascetiche, non erano state capite dagli Ebrei e male interpretate. Gli attributi iconografici di santo Stefano (festeggiato il 26 dicembre, la data più vicina al Natale di Cristo) sono le pietre, la dalmatica dei diaconi, la stola, la palma del martirio. L’episodio della lapidazione è ricordato nella pala dell’altare. Nella sagrestia della chiesa era conservata una seconda tela, dipinta da Giovan Pietro Gnocchi nel 1591, raffigurante la lapidazione avvenuta fuori le mura di Gerusalemme. Opera recentemente restaurata dopo i danni delle alluvioni del 1960 e 1987, non è stata ancora ricollocata in San Martino.

La cappella centrale La parte più interessante è la cappella centrale, la più ampia, destinata a presbiterio. Sui pilastri dell’arcone di accesso sono dipinte: a sinistra Maria Maddalena con l’ampolla degli unguenti e della mirra, a destra Caterina d’Alessandria con la ruota del supplizio; nelle grottesche del sottarco, tra i motivi simbolici: la sfera armillare ed i compassi, che si riferiscono al mondo reale, al finito; la gabbietta con uccellino e farfalle, che alludono al mondo dello spirito, all’infinito.

La cappella centrale Il secentesco altare maggiore in marmo nero è dono degli emigrati napoletani, come ricorda l’iscrizione del medaglione collocato nel frontone spezzato: «NEAPOLIS ET PATRIAE SUFFRAGIIS».

Il ciclo pittorico delle pareti e della volta risale al 1575, come è dipinto nel sottarco della finestra di destra. Ne sono autori Francesco Guaita da Como e Abbondio Baruta da Domaso: «di questi due artisti, che lavoravano insieme, l’uno, cioè l’autore delle storie grandi di San Martino, ha un fare largo, quasi secentesco, e preferisce i toni rossi; l’altro invece è più composto e risente ancora della rigidità del Quattrocento» (Damiani). Esponenti del tardo manierismo milanese, «impaginano le scene con gusto narrativo piuttosto marcato, arricchito da notazioni decorative dalle tinte squillanti e contrastate, memori dei modi di Aurelio Luini» (Sicoli).

Ai lati dell’altare: a sinistra c’è l’effigie di Santo Stefano, già ricordato nella cappella laterale omonima; a destra è l’immagine di San Lorenzo a ricordare l’antica dipendenza dalla pieve di Ardenno. Nel medioevo, ma non solo, le immagini avevano una funzione devozionale ma soprattutto didascalica: «In essa (la pittura, ndr.) leggono coloro che ignorano le lettere (…), la pittura serve da lezione» (Decretum Gratiani o Concordia discordantium canonum, sec. XII).

Le ‘storie grandi’ trattano: a sinistra, forse l’episodio del viaggio di Martino a Treviri, per combattere l’eresia ariana; a destra il miracolo della resurrezione di un piccolo defunto, implorata dalla madre disperata. Nelle ‘storie piccole’ si racconta, a destra, dell’imboscata tesa dagli abitanti di Tours a Martino che si sottraeva all’elezione a vescovo; mentre a sinistra è rappresentato l’episodio dell’incontro con «un orribile lebbroso; lo baciò, lo benedisse, e subito il lebbroso fu sanato» (dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze).

La volta del presbiterio è ripartita in vele i cui vertici generano una vivace ragnatela architettonica: nelle lunette sono narrati episodi biblici: il più noto è il sacrificio di Isacco. Al centro della volta campeggia l’Agnello mistico dell’Apocalisse di San Giovanni: un palio verde separa l’Agnello da alberi il cui senso simbolico può alludere alla rinascita in Cristo del credente dopo la morte, ma anche essere un richiamo iconografico alla vita di Martino che aveva abbattuto gli alberi sacri dei ceffi pagani. Nella cornice corrono festoni: uva, melograno, fichi, zucchine; sono eredità del mito pagano della linfa dionisiaca e del ‘mito’ biblico: Dio fece crescere una zucca per fare ombra a Giona. In entrambi i casi, e anche nel paleocristianesimo, simboli di vita rinnovata, di Resurrezione.
Il soffitto della cappella centrale Gli angeli in cerchio mostrano gli strumenti della Passione e confermano la destinazione cimiteriale della Chiesa. In tutto questo ciclo di affreschi è interessante notare il gioco dei tessuti e dei panneggi raccolti attorno ai corpi nudi: il Concilio di Trento imponeva agli artisti di coprire le nudità: quanta foga nel coprire il corpo del lebbroso! Quante volute di tessuto per gli angeli! Più tardi Caravaggio vestirà di un cangiante panneggio l’angelo musicante del «Riposo nella fuga in Egitto» e sarà uno degli ultimi sospiri di manierismo lombardo.

La pala dell’altare è dedicata a San Martino: Martino, figlio di un veterano romano, prestava servizio militare al posto del padre. «Un giorno d’inverno, mentre passava per la porta di Amiens, gli si fece incontro un povero completamente nudo, che non aveva ancora ricevuto nulla da nessuno. Martino capì che il povero era stato conservato per lui. Prese allora la spada e divise in due parti la clamide che portava addosso: una la dette al povero, e si copri con la parte che avanzava. La notte seguente gli apparve Cristo vestito della parte di clamide con cui aveva coperto il povero» (dalla Legenda Aurea).
Martino divenne protettore dei poveri, degli umili, degli oppressi; difese il cristianesimo dall’eresia; fu invocato contro ‘la febbre maligna’, la peste. Sotto la sua protezione, il sonno della morte doveva apparire più confortante. La tela è opera del pittore Giacomo Paravicini di Caspano, detto il Gianolo (1660-1729). «Il dipinto può essere datato intorno alla fine del nono decennio del Seicento, nel momento di avvio della carriera del Gianolo … (ritenuto il più importante pittore locale a cavallo dei due secoli …) a partire da questa data inizierà ad operare oltre che nella nativa Valtellina anche in territori limitrofi, quali il milanese, il novarese, il cremasco e il varesotto» (Sicoli).
Simonetta Coppa scrive dell’arte di Gianolo: «La sua cultura, per il senso plasticamente robusto della forma, e per il gusto dei contrasti luministici violenti, appare radicata nella pittura del Seicento lombardo», caratteri stilistici che si leggono anche nelle tele poste ai lati dell’altare nella chiesa di San Pietro. La studiosa riconosce l’attribuzione al Gianolo della pala di San Martino «per analogia con i lavori di Caspano»; mentre Rinaldo Rapella cita, a sostegno della paternità di Gianolo per la stessa tela, un «un confesso fatto dal Gianolo per il quadro dell’altare maggiore di St. Martino», che dice essere depositato presso l’archivio parrocchiale di Morbegno.

Ristrutturato l’edificio, dopo un complesso intervento sono stati riportati alla cromia originale anche gli affreschi del presbiterio e la pala dell’altare maggiore; attendono di essere restaurate le tele degli altari laterali.

Ancora oggi la chiesa di San Martino è legata al culto cimiteriale.
E tale costante nella storia di questa chiesa è documentata da numerose fonti di svariata natura. Sempre dagli atti delle visite pastorali si viene a sapere che l’ossario esterno alla chiesa venne iniziato nel 1752 e concluso nel 1766 «alto ed elegante, in cui si trovano collocate le ossa dei defunti». Ossario San Martino Fino al 1935 , data in cui l’ossario fu smantellato, vi erano esposti anche i teschi di quattro uomini della val Gerola che furono giustiziati dalle truppe napoleoniche ai primi dell’Ottocento: non sopportavano l’idea che i soldati alloggiassero nella chiesa di Sant’Antonio mancando di rispetto alle cose sacre. I quattro corpi furono sepolti fuori dalle mura del cimitero ma in inverno la neve non si posava mai su quella zolla di terra. Anzi, un Natale vi fiorirono quattro gigli! La pietà dei morbegnesi ottenne per le loro ossa la sepoltura nel cimitero e nella successiva esumazione i teschi vennero collocati nell’ossario che fu detto ‘dei quattro giustiziati’.
Nell’ossario era conservata un’asta di gagliardetto sottratta, dice la leggenda, alle truppe di Giangiacomo Medici detto il Medeghino che cercava di togliere ai Grigioni i territori della bassa valle per costituirvi un proprio potere autonomo. Nel 1531 ci fu lo scontro finale proprio a Morbegno ed i Grigioni vincitori consolidarono il proprio dominio della Valtellina, che durerà sino al 1620. Nelle frequenti lotte per il possesso della Valle, il territorio di Morbegno tra San Martino e l’Assunta, «i cui campanili servirono di vedetta e come propugnacolo» (Orsini), L’11 novembre 1635 vedrà lo scontro tra gli Spagnoli condotti dal conte milanese Giovanni Serbelloni e gli alleati Grigioni e Francesi guidati dal duca di Rohan.

Se il prossimo 11 novembre splenderà un tiepido sole, sarà l’estate di San Martino: l’ultimo dei suoi miracoli alle porte dell’inverno.

Per la vostra passeggiata: la chiesa è aperta la domenica mattina e nella ricorrenza dei morti.

Evangelina Laini

Fotografie di Ugo Zecca

Data di pubblicazione: 13 ottobre 2006



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