lunedì 24 settembre 2007

"Finpart, un fallimento che nasce dagli interessi degli istituti di credito"

Nella relazione del curatore fallimentare e nella ricostruzione di Gianluigi Facchini l’accusa alle banche

di Walter Galbiati

Le indagini sono chiuse. Il fallimento della Finpart, l’azienda di Gianluigi Facchini e dello scomparso Giancarlo Arnaboldi passa ora all’esame dei giudici. Una storia di mala finanza che non ha mancato di lasciare morti e feriti sulla sua strada. E come il più delle volte capita, le vittime, oltre che tra i lavoratori e i fornitori, si contano tra i piccoli risparmiatori. Le cifre del disastro stanno nella relazione del curatore fallimentare, Piero Canevelli. Su un passivo di oltre 300 milioni di euro, ben 250 milioni fanno capo a obbligazionisti. Solo 35 milioni, invece, sono da ricondurre al sistema bancario.
La storia della Finpart è quella di un’azienda cresciuta velocemente attraverso acquisizioni di altre aziende, dove però i mezzi arrivavano più da terzi che dai soci. Uno sbilanciamento che a fine 2001 ha portato la società al collasso. Facchini ha cercato di rilanciare senza riuscirvi alcuni marchi storici della moda italiana e, nel corso dell’incidente probatorio, ha indicato in un evento, l’emissione del bond Cerruti, la principale causa del tracollo finanziario del gruppo. Un’emissione obbligazionaria mastodontica per le possibilità di rimborso della Finpart, che si è sommata a una crisi del settore tessile acuita dal crollo delle Torri Gemelle. La Finpart a metà 2001 aveva già acquistato il 51% della Cerruti, la società di alta moda che insieme con i marchi Moncler, Best Company, Henry Cotton’s e Frette, avrebbe dovuto costituire il nocciolo duro del gruppo.
Il restante 49%, valutato intorno a 80 milioni di euro, era rimasto in mano a Nino Cerruti che in azienda continuava a svolgere il ruolo di direttore creativo. La Finpart si era impegnata a rilevare quella quota nel giro di tre anni, ma le banche, cavalcando i dissapori con Cerruti, convinsero la Finpart ad emettere un prestito obbligazionario per comprare anticipatamente tutta la società. Servono solo 80 milioni, ma gli advisor, Ubm (gruppo Unicredit) e Abax Bank (gruppo Credem) spingono per emettere titoli di debito per 200 milioni di euro. Un’operazione «asservita scrive il curatore fallimentare all’interesse di Unicredit», perché la banca usò l’eccesso di liquidità raccolta per rientrare della propria esposizione nei confronti di Finpart, nata con l’acquisto del primo 51% della Cerruti.
«Il bond racconta Facchini nel corso dell’incidente probatorio era stato inizialmente pianificato a 150 milioni per consentire anche un rifinanziamento per lo sviluppo delle aziende. [...] Una parte di questo bond, segnatamente per la quota eccedente i 150 milioni, gli altri 50 milioni, fu convogliata da Unicredit direttamente a rimborso anticipato di una tranche del finanziamento a scadenza fissa gennaio 2002, quindi fu rimborsato anticipatamente questo finanziamento Unicredit ottenuto per l’acquisto del 51% [di Cerruti]».
Ma con quali banchieri aveva rapporti Facchini? «Inizialmente io trattavo col dottor Pietro Modiano, che era l’amministratore delegato di Ubm, e poi invece gradualmente anche questo contatto si dilatò e lui delegò altri suoi sottoposti.[...] che erano il dottor Davide Mereghetti e il dottor Luca Fornoni ... Fausto Galmarini curava l’aspetto creditizio», mentre per Abax Bank c’era Fabio Arpe. Per convincere il mercato che la Finpart sarebbe stata in grado di ripagare quel bond, le stesse Ubm e Abax Bank emisero un giudizio favorevole sull’operazione. «Dopo l’emissione del bond, la posizione finanziaria netta dice Facchini ammontava a 500 milioni di euro. Analizzati e ritenuti sostenibili dalle stesse Unicredit e Abax Bank nelle loro credit opinion».
Per quanto riguarda Unicredit, secondo il curatore, «la banca al di là della mera facciata dell’acquisto di un nuovo gruppo aveva solo l’interesse a rientrare del suo credito e ne aveva già precostituito le condizioni; conseguito il rimborso, ha immediatamente abbandonato Finpart; il loro intervento era stato accuratamente programmato per far sì che al passivo dell’ineluttabile fallimento Finpart, invece del Credito Italiano vi fossero alcune migliaia di risparmiatori». Alla fine l’esposizione di Unicredit al fallimento sarà di 1,4 milioni di euro.
La società, infatti, dopo un lungo tira e molla, fallisce il 25 ottobre 2005, ma per il curatore era «decotta» fin da allora, tanto è vero che per l’accusa i primi fatti di bancarotta (la compravendita di azioni Pepper e Frette) risalgono proprio agli anni 2000 e 2001. Le banche, rientrate dei crediti, mollano la baracca. Nell’aprile 2002 la Finpart subisce una vera e propria stretta creditizia. «Le linee di credito spiega Facchini sono congelate», non revocate, in modo tale che «nella Centrale rischi appari come affidato», ovvero come un cliente che ha fidi in abbondanza, mentre in realtà il cliente ha a disposizione linee bancarie che non può utilizzare.
Per risolvere i problemi con il sistema bancario, Facchini si rivolge a Ubaldo Livolsi. La soluzione proposta dal nuovo consulente è di effettuare un aumento di capitale da 100 milioni di euro. Ma anche di questi soldi, in gran parte garantiti dalla Popolare di Intra, una delle banche più esposte verso Facchini e il suo gruppo, ben pochi restano a disposizione di Finpart. Interbanca che si impegna a cogarantire l’aumento di capitale ne approfitta per rientrare di una linea di credito ponte di 26 milioni di euro, mentre la Lafico, società di investimenti del governo libico, che si impegna a versare 30 milioni di euro per l’aumento di capitale, costringe Facchini ad utilizzarne ben 24 per acquistare una quota di Olcese, un’altra società tessile in fallimento, gestita da Paolo Mettel e dal figlio di Gianni Varasi, Leopoldo. Secondo la ricostruzione di Facchini, Livolsi chiede di fare l’operazione con Lafico per fare un favore a Gaetano Miccichè, approdato da poco a Banca Intesa, nella speranza di avere un appoggio dalla banca di Corrado Passera e di Giovanni Bazoli. «Miccichè dice Facchini che era stato amministratore delegato di Olcese, fino alla credo primavera del 2002, aveva un ottimo rapporto con il dottor Livolsi e aveva promesso supporto lui stesso a Finpart, tramite Livolsi, nell’ipotesi in cui l’operazione con i libici fosse andata in porto, in sostanza, cioè, che si salvasse Olcese. L’interesse di Miccichè chiaramente era di avere l’operazione Olcese in sicurezza». Alla fine si rimanda solo di qualche anno il fallimento di Finpart. Mentre i consiglieri, i sindaci e i soci che si sono succeduti con peripezie varie alla guida del gruppo sono in attesa di un possibile rinvio a giudizio.


Affari&Finanza, 24/9/07

1 commento:

cesare ha detto...

Ho cercato di seguire la vicenda FINPART anche perchè la Cerruti aveva alcune produzioni nella zona dove abito e un mio conoscente aveva dei rapporti di lavoro con Cerruti.
Non sono ancora riuscito però a capire bene due cose:
la prima, più che altro una curiosità, è di cosa è deceduto nel 2001 l'ex presidente Arnaboldi e magari - pura curiosità - dove è stato sepolto (il mio amico non ha saputo dirmelo neanche lui).
La seconda è come mai il Livolsi a un bel momento si è buttato nella FINPART fino a diventarne il presidente. Intendo dire quali possono essere state le motivazioni che hanno spinto un finanziere cosi' introdotto come il Livolsi a entrare nel businnes FINPART che se ben ricordo già all'epoca (verso il 2002 credo) era chiacchierata.
grazie e saluti