Ingratitudine, il nuovo romanzo di Lucio Trevisan
di Ade Zeno

17 febbraio 1977: «Chi l’ha detto che una democrazia non è una forma di dittatura, la dittatura della maggioranza? E la minoranza deve stare a guardare, impassibile? E se la minoranza decide che la democrazia è una dittatura?», si domanda Lucio nel bel mezzo di una spaventosa rissa tra compagni alla Sapienza di Roma mentre Luciano Lama tenta invano di portare a termine il suo comizio. Già, le minoranze. Ci sarà spazio, prima o poi, anche per loro? Sarà concessa al dissenso appartato almeno la possibilità di ostinarsi a proporre ipotesi di felicità alternative, foss’anche trincerate dietro i baluardi di ideologie fallite in partenza? Anni e anni di lotte, assemblee, picchetti, occupazioni, viaggi di andata e ritorno nelle patrie galere in nome di un mondo migliore; poi un bel mattino ti trovi a guardar fuori dalla finestra osservando il traffico della città in corsa: formiche che brulicano sui marciapiedi, auto in coda, semafori intermittenti. E pensi: «Stiamo perdendo il nostro tempo. Questi qui non li smuove nessuno. Siamo degli illusi». Sono gli occhi di un’intera generazione a masticarlo fra i denti, ma la voce – ruvida, rassegnata – che ora fissa in parole il significato della triste visione è quella di un grande autore. Scrittore anomalo, schivo, solitario, dopo un silenzio di quasi dieci anni (Il mostro di Roma, suo ultimo e ormai introvabile libro, uscì presso Mondadori nel 2002) Lucio Trevisan torna finalmente in libreria con un romanzo feroce e struggente che ripercorre – senza cedere a sbrodolanti tantazioni nostalgiche – alcuni nodi mai risolti di quei formidabili e sfrontati anni Settanta che ancora oggi, di tanto in tanto, bussano con prepotenza dalle porte semichiuse di certi vecchi armadi. Per Lucio il primo colpo di questo bussare si fa sentire alla morte del padre ottantenne; è da qui che prende il via il riflusso dei ricordi, in quella che d’ora in poi sarà una vera e propria esondazione di eventi e fantasmi: l’infanzia nella Milano del dopoguerra, i primi amori, l’adesione alla rivolta studentesca, i viaggi, le comuni, ancora amori via via sempre più complicati, l’impegno politico, la discussione in carcere della tesi di laurea su Ezra Pound (relatori: Gillo Dorfles e Nemi D’Agostino); e poi ancora incontri, fratellanze, funerali, sogni, ideali in bilico tra la fantasia del ’77 bolognese e il rapido tracollo nella lotta armata che segnerà l’inesorabile crollo. Un enorme serbatoio che si apre all’improvviso e libera i ricordi, dapprima sparigliati come tessere opache di un mosaico in bianco e nero, poi pian piano sempre più nitidi, brucianti, carichi di un’elettricità disturbante.
Amaro e sarcastico, Trevisan corre avanti e indietro fra le maglie del passato senza curarsi di rispettare una cronologia definita, senza concedersi pause, mettendo sul piatto gli ingredienti di una vita intera per osservarli simultaneamente con sguardo spietato, a tratti malinconico, soprattutto mai scontato. “Il più buono dei cattivi e il più cattivo dei buoni” – è l’etichetta affibiatagli da un’amica, che lui farà subito sua – si scopre lentamente protagonista di una storia colma di illusioni e promesse disattese: rivoluzioni mancate, eroi farlocchi (impietoso, fra tutti, il ritratto di Mario Capanna, sorpreso a farsi bello con scioperi della fame condotti da altri), amori perennemente destinati a concludersi nell’abbandono. Distante anni luce da qualsivoglia impianto documentaristico, Ingratitudine (No Reply, pp. 220, 12 euro) è un libro di altissimo livello letterario che riesce con ammirevole eleganza a intrecciare le cadute di un Paese disorientato con quella, altrettanto funambolica, di un irriducibile cane sciolto, testimone di sé stesso prima ancora che della Storia. Perché è esattamente alla propria coscienza, alla sua volontà di affondare dentro la dimensione più intima e umana che Trevisan sceglie di affidare gli ultimi bilanci. E lo fa – dopo tanta cronaca – regalandoci un epilogo lirico e sorprendente nelle conclusive, inaspettate pagine in cui il protagonista, autoesiliatosi in un’isola indonesiana, si ritrova solo e sconfitto a scrivere sconsolate lettere d’amore all’ultima compagna di vita. Insomma il ritratto di una generazione parecchio smarrita che non ha mai saputo fare bene i conti con sé stessa. E che, una volta fatti, li scopre irrimediabilmente sballati.

(articolo uscito il 3 maggio 2011 sul settimanale Gli Altri)