L'IMMIGRAZIONE ISLAMICA IN ITALIA


di Guido Vignelli





Lezione tenuta all’Università di Verona, 16 novembre 2009

ringraziamo la

ASSOCIAZIONE STUDENTESCA UNIVERSITARIA

CENTRO STUDI “ROMANO GUARDINI” di Verona che ci ha consentito la pubblicazione delle lezioni tenute nell'ambito del corso "L'Islam com'è". Nei prossimi aggiornamenti pubblicheremo altri interventi


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Dati recenti sull’immigrazione generale in Italia

I dati sull’immigrazione generale in Italia sono in realtà elastici e parziali, anche perché riguardano solo gl’immigrati ufficialmente riconosciuti come tali. Resta infatti impossibile quantificare la presenza di quelli clandestini; secondo talune fonti ottimistiche, essi costituirebbero solo il 15% dei presenti, ma si tratta di un dato irrealistico, perché si sospetta che costituiscano almeno un terzo del totale.

Comunque sia, gl’immigrati ufficiali sono tra i 4 milioni e i 5 milioni, costituendo quindi circa il 6,5% della popolazione italiana: un dato superiore alla media europea, che si arresta al 5%. Ogni anno entrano mediamente 365.000 persone, ma negli ultimi due anni queste sono salite a 500.000, con una crescita del 13%. L’età media degl’immigrati è di 31 anni; i minorenni sono circa 800.000, ossia il 22% del totale; la natalità prodotta dagl’immigrati è alta e ormai costituisce il 15% di quella globale avvenuta in Italia.

La comunità nazionale immigrata più numerosa risulta essere quella romena (20,5% con 780.000 presenze), seguita da quell’albanese (11,3% con 441.400 presenze), quella marocchina (10,4% con 403.600 presenze), quella cinese (4,4% con 170.260 presenze), quella ucraina (4% con 154.000 presenze), quella filippina (2,9% con 113.690 presenze) e quella polacca (2,6% con 99.400 presenze). La metà circa degl’immigrati provengono quindi dall’Europa orientale.

Fra le religioni praticate dagl’immigrati, quella cristiana conquista la maggioranza assoluta (52%, fra i quali un 28,3% di “ortodossi” e un 19,5% di cattolici); seguono quella islamica (32%), quella animista (1,5%), e quella buddista (1,4%). Gl’immigrati musulmani sarebbero quindi meno di un terzo del totale; questo dato però non smentisce l’esistenza di un problema islamico; bisogna infatti notare che la religione maomettana è rapidamente diventata la seconda dell’Italia, con circa 1.200.000 aderenti, il 15% dei quali maschi; è praticata da alcune fra le comunità immigrate più numerose (albanese, marocchina, algerina, tunisina); è quella che fa il maggior proselitismo nel nostro Paese ed è anche la più esigente ed aggressiva nel reclamare i propri diritti (veri o falsi). Quanto ai luoghi di culto islamici ufficialmente presenti sul territorio italiano, ne risultano già 750 (tra i quali 156 moschee), vale a dire uno per ogni 1800 musulmani: una percentuale vicina a quella esistente nei Paesi islamici; ma questo computo non tiene conto delle numerose sale di preghiera clandestine certamente presenti sul nostro territorio. La libertà di culto islamico in terra italiana è dunque assicurata, spesso dall’aiuto degli Stati musulmani di provenienza, talvolta anche dal contributo offerto dallo stesso Stato italiano. Se l’ingresso e la natalità islamiche continueranno a crescere come ora, entro il 2040 il 20% dei residenti in Italia sarà di religione musulmana.

Nelle scuole italiane, si calcola che gli alunni stranieri siano stati circa 680.000 per l’anno scolastico 2008-2009, con un aumento del 14% rispetto a quello precedente. La maggioranza di loro proviene dall’Europa orientale e dall’Africa; ad esempio, il 16% dalla Romania, il 14,3% dall’Albania, il 13,3% dal Marocco; seguono cinesi, filippini ed ucraini.

L’economia sommersa che coinvolge gl’immigrati costituirebbe tra il 15 e il 20% del prodotto interno lordo nazionale, mobilitando quindi manodopera, merci e capitali ingenti. La recente crisi economica coinvolge l’economia immigrata regolare, ma favorisce quella clandestina grazie alla concorrenza sleale dovuta al basso costo di merci e manodopera, all’evasione fiscale e all’elusione degl’impacci burocratici.

Quanto alla criminalità, nelle nostre carceri vi sono attualmente 23.500 extracomunitari, di nazionalità soprattutto romena, albanese, marocchina, tunisina e indiana. La percentuale d’immigrati regolari condannati per crimini è del 1,30%, ossia il doppio rispetto a quella degl’Italiani; il 40% delle denunce per violenza sessuale accusa un immigrato come colpevole.

[Fonti impiegate: Fondazione Migrantes e Caritas Italiana, dossier statistico 2009; Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (del C.N.R.), rapporto del maggio 2009; CENSIS, Rapporto sulle migrazioni, settembre 2009; Ministero dell’Interno, rapporto 2008 del Dipartimento per l’Immmigrazione; Ministero della Pubblica Istruzione, rapporto per l’anno scolastico 2007-2008]

Principali comunità islamiche presenti in Italia

La presenza musulmana in Italia è variegata, per il fatto che il “popolo di Allàh” – pur essendo in Italia quasi completamente di confessione sunnita – è diviso in varie comunità che fanno riferimento a una scuola che le ispira o più spesso a una nazione di provenienza che le finanzia. Abbiamo quindi principalmente le seguenti associazioni, o meglio federazioni associative:

- Lega Musulmana Mondiale, ispirata dalla scuola wahabita e legata all’Arabia Saudita.

- Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII), ispirata dal movimento dei Fratelli Musulmani, dipende dal Consiglio Europeo della Fatwa ed è legata alla Siria.

- Assemblea Musulmana d’Italia (AMI), associazione secolarizzata e filo-occidentale.

- Unione dei Musulmani d’Italia (UMI), guidata da Adel Smith, noto per le sue esibizioni scolastiche e televisive.

- Comunità Religiosa Islamica (COREIS), ispirata al sufismo e di tendenza “ecumenica”, dialoga con l’Occidente e con la Santa Sede.

Questa varietà di associazioni, spesso in conflitto tra di loro, unita alla mancanza di una vera gerarchia capace di guidare la umma (ossia la comunità dei “credenti”), impedisce al mondo islamico di avere una rappresentanza unitaria e credibile, per cui esso non è in grado di presentare al nostro Stato una controparte affidabile con la quale trattare le questioni di comune interesse con l’assicurazione che il “popolo di Allàh” rispetterà i patti eventualmente sottoscritti. Lo stesso problema si ha con il “dialogo” ecumenico di matrice religiosa, che rimane un fatto di vertice senza credibile riscontro nella base. Pertanto, un accordo stipulato con una o più di quelle associazioni potrebbe essere facilmente contrastato dalle altre o smentito dalla loro stessa base, rendendo quindi inverificabili o inapplicabili gli accordi stessi. Senza contare che i conflitti interni all’islamismo (riemersi nelle recenti vicende in Iraq, Pakistan e Afghanistan) e quelli tra islamismo e le altre religioni (come accade in India) si ripercuoterebbero all’interno della società italiana, con le caotiche conseguenze facilmente immaginabili.

Le esigenti richieste delle associazioni islamiche italiane

Tutte le associazioni musulmane italiane, anche quelle cosiddette “moderate”, rivolgono allo Stato una serie di richieste (minime) abbastanza precise ed esigenti:

- libera costruzione di moschee col contributo statale

- concessione di facile e rapida cittadinanza e ricongiungimento familiare per gl’immigrati

- riconoscimento giuridico delle rappresentanze religiose delle comunità islamiche, con le relative facilitazioni burocratiche e fiscali

- autorizzazione del regime alimentare islamico

- autorizzazione del venerdì come giorno islamico di riposo

- assicurazione dell’assistenza religiosa islamica nei luoghi pubblici (uffici, ospedali, caserme…)

- insegnamento islamico facoltativo nelle scuole statali

- riconoscimento del matrimonio islamico poligamico e della conseguente “famiglia allargata” (harem)

- autogestione delle comunità islamiche nei luoghi (enclaves) in cui essi costituiscono la maggioranza assoluta dei residenti

- riconoscimento della competenza giuridica dei tribunali coranici sui membri e sulle associazioni musulmane

- in generale, inserimento del diritto islamico (shari’àh) nell’ordinamento giuridico italiano.

Queste richieste, ripetiamo, sono avanzate non dalle sole fazioni “estremistiche”, bensì da quasi tutte le associazioni islamiche, perché si compendiano in un solo punto onnicomprensivo, per loro irrinunciabile, che è l’ultimo sopra elencato: ossia il riconoscimento del Corano e della sua regolamentazione giuridica (shari’àh) da parte della società ospitante. Se questo avvenisse, la comunità islamica diventerebbe uno Stato all’interno di quello italiano, contrastandolo nei princìpi giuridici fondamentali, costituendone quindi una contraddizione conflittuale che renderebbe la convivenza alla lunga impossibile; il che ci fa capire che non servirebbe premettere alle eventuali forme d’intesa tra Stato e “chiesa” islamica una promessa di giuramento alla Costituzione Italiana o di fedeltà alla Nazione che per il diritto coranico non avrebbe alcun senso, anzi costituirebbe un peccato d’idolatria.

Impostazione del problema

Data la vastità e complessità del fenomeno, mi limito a porre alcuni punti chiarificatori, per dimostrare i quali rinvio alla bibliografia finale.

Il problema che qui tratto viene offuscato e deformato dai pregiudizi, dal “buonismo” e dalla disinformazione che affliggono sia l’argomento migratorio che quello islamico. Abbiamo qui un tipico esempio di come una certa cultura, anche con pretese scientifiche, possa manipolare e falsificare la realtà per evidenti scopi pratici. Il panorama culturale è infatti dominato da una pubblicistica “politicamente corretta” che ne impone una “religiosamente corretta” la quale, a sua volta, ne contiene una “islamicamente corretta”. I mass-media hanno una precisa responsabilità in questo, perché svolgono quasi una propaganda faziosa che difende ed anzi elogia l’immigrazione, soprattutto se clandestina e soprattutto se islamica, usando tutti gli artifici e i mezzi disponibili: articoli, libri, romanzi, servizi televisivi, fiction e film (Welcome, del francese Philippe Lioret, è solo l’ultimo di una lunga serie che contiene anche molti titoli italiani).

Tale propaganda dà anche una fallace impressione di pluralismo, perché tende a polarizzarsi su due posizioni – due concezioni della cosiddetta globalizzazione – apparentemente contrapposte ma in realtà convergenti, anche se la prima è ormai declinante a vantaggio della seconda.

La prima posizione, di matrice “modernistica”, presenta il problema islamico in chiave ottimistica. Essa sostiene che, come tutte le religioni attuali, anche quella islamica finirà con l’adeguarsi al processo storico di secolarizzazione che le sta assimilando all’emergente “umanesimo planetario” incaricato di assicurare una “pace perpetua” anche in campo religioso, appianando quindi tutte le divergenze rimaste (dogmatiche, rituali, morali e politiche) in un laicismo alimentato teoricamente dal “dialogo” e praticamente dalla “collaborazione ecumenica” tesa a risolvere gli urgenti problemi sociali.

La seconda posizione, di matrice “postmoderna”, sorta dalla crescente crisi della prima, presenta il problema islamico in chiave più pessimistica. Essa sostiene che il crescente esercizio delle moderne libertés condurrà l’umanità non a una pace perpetua, bensì a un perpetuo conflitto interetnico, interculturale e interreligioso, ormai confermato anche dall’attuale riemergere dei “fondamentalismi”, a cominciare appunto da quello islamico. Tuttavia questa crescente conflittualità non va repressa con timore bensì alimentata con speranza, perché costituisce un fattore di riscossa spirituale capace di realizzare quel salto rivoluzionario, quel rinnovamento globale in senso “democratico e partecipativo” mancato all’esperimento social-comunista; bisogna solo far sì che l’attuale effervescenza sociale raggiunga uno stato di bilanciamento e di equilibrio tra le parti in conflitto, seppure solo parziale e momentaneo.

Entrambe queste posizioni vanno vagliate con severità, perché provengono non da una oggettiva e disinteressata analisi della situazione bensì da un progetto ideologico che pretende di cambiare il mondo descrivendolo come già in marcia verso questo cambiamento (“primato della prassi sulla teoria”: yes, we can change!). In questa prospettiva, il problema islamico viene falsato in radice, perché ci viene presentato come un “evento” inevitabile e irreversibile, destinato a facilitare la soluzione dei problemi del mondo, per cui bisognerebbe accettarlo fatalisticamente, o in chiave ottimistica (“inutile preoccuparsene, è un fattore che comunque verrà assimilato”) in chiave pessimistica (“inutile resistergli, è un fattore che comunque sconvolgerà tutto”).

In seguito a questa impostazione ideologica, entrambe le citate posizioni programmano la cosiddetta “piena integrazione” del fenomeno islamico all’interno della società europea; pertanto esse reclamano che l’immigrazione musulmana venga ufficialmente riconosciuta a livello non solo individuale ma anche comunitario e non solo nel campo politico (cittadinanza, diritto elettorale) ma anche in quello giuridico (inserimento della shari’àh nel sistema legislativo-giudiziario) e sociale (poligamia, harem, disuguaglianze sessuali e civili, usanze religiose ed etnico-tribali). Tuttavia la prima posizione concepisce questa “integrazione” come pacifica assimilazione del fattore islamico nel sistema di una società ugualitaria, secolarizzata e laicizzata; la seconda posizione invece concepisce questa “integrazione” come inserimento di un fattore disugualitario e conflittuale (e quindi paradossalmente “dis-integrante”) capace di dissolvere e rigenerare una società purificandola in tal modo da una colpa storica: quella per cui, approfittandosi del fallimento del progetto sovietico, essa avrebbe tradito il progetto della “modernità” rinunciando a realizzare l’utopia rivoluzionaria ed adagiandosi nella comoda ma sterile palude consumistica. Su questo punto convengono anche alcune note associazioni assistenziali d’ispirazione cristiana.

Queste due divergenti posizioni sul problema islamico vengono elaborate, anche a livello accademico, da politologi, sociologi, giuristi, antropologi e perfino teologi, e poi vengono semplificate da opinionisti e giornalisti allo scopo di essere diffuse dai mass-media presso il grande pubblico. Leggendo la pubblicistica corrente, ciascuno potrà facilmente individuare gli esponenti e gli ambienti che sostengono e propagandano queste due posizioni, capire le originarie matrici delle loro tesi, scoprirne i secondi fini e prevedere le conseguenze ultime dei loro progetti. Tale previa impostazione e chiarificazione permetterà di rispondere ai quesiti cruciali sul problema islamico.

Penetrazione, occupazione e propaganda dell’immigrazione islamica

Bisogna innanzitutto tener ben presente che il fenomeno migratorio islamico non è neutrale né casuale. Esso non va ridotto a un fatto meramente economico e nemmeno geopolitico, bensì va compreso nel suo preciso carattere programmatico d’infiltrazione, di proselitismo e di propaganda religiosa e politica: “Il fedele che emigra, emigra per Allah”, dice un noto hadit maomettano. Per il Corano, le nazioni non musulmane sono “territorio di guerra”, ossia di conquista da parte dei fedeli di Allah, e la “profezia” della inevitabile conquista di Roma (ossia dell’Europa) venne sempre attribuita a Maometto e ad altre personalità islamiche. Se il metodo storicamente prevalente di tale conquista è stato quello della invasione militare, recentemente gli viene preferito quello della infiltrazione migratoria, ritenuto più efficace e meno rischioso perché è più facile da giustificare, più difficile da combattere e soprattutto provoca meno reazioni di rifiuto. Inoltre, l’attuale fenomeno migratorio islamico pare essere stato preparato molto tempo fa; non a caso, esso è cominciato in coincidenza con la fine del colonialismo europeo, con la crisi dei movimenti islamici “modernisti” e con la rinascita di quelli estremistici. Già nel 1974, il presidente algerino Huari Bumedièn aveva lanciato questa minaccia dalla tribuna dell’O.N.U.: «Un giorno, milioni dei nostri abbandoneranno il Sud del mondo per fare irruzione negli spazi accessibili dell’emisfero Nord; e non verranno certo da amici. Ma non avremo bisogno di combattere per conquistare: saranno i ventri delle nostre donne a darci la vittoria» (“Lectures Françaises”, Paris, n. 204, p. 36).

Da allora, la strategia islamica ha puntato principalmente sulla lenta ma costante penetrazione migratoria, sulla proliferazione mediante la natalità e sulla conquista del territorio invaso; questa conquista avviene con tutti i mezzi leciti, ma anche con quelli illeciti, come racket delle occupazioni abusive, controllo criminale del territorio, intimidazione e isolamento degli autoctoni allo scopo di espellerli o di costringerli a trasferirsi, lasciando il campo libero agli occupanti. In questo modo vengono costituite locali enclaves o ghetti abitati da soli musulmani, o comunque autogestiti dalla comunità islamica e regolamentate dalla shari’àh. In alcune città europee, tali enclaves sono talmente chiuse, che la Polizia non osa penetrarvi per far valere la legge, o può farlo solo prendendo precisi e umilianti accordi con i capi-tribù locali. In questi luoghi, viene spesso organizzato anche una sorta di welfare islamico come sistema assistenziale autosufficiente, che assiste solo i “fedeli” e finanzia anche l’espansione e la conquista politico-religiosa e la lotta contro gl’ “infedeli” (jihàd). Lo scopo finale di questa operazione, per quanto riguarda il nostro Paese, è quello di realizzare una “Italia Saudita” in seno all’ “Eurabia”, ossia all’Europa islamizzata.

Questa strategia di penetrazione-occupazione-espansione ha però bisogno di essere giustificata e difesa e da una parallela propaganda filo-islamica, svolta soprattutto in nome dei “diritti delle minoranze religiose”; si tratta degli stessi diritti spesso negati, repressi o comunque violati dall’Islam nei Paesi da esso dominati; diritti ai quali l’autorità islamica non si sente vincolata ed anzi si ritiene autorizzata a combattere, ma anche a pretendere dai Paesi ospitanti in nome della loro democrazia e dei loro valori di tolleranza e libertà. Paradossalmente e slealmente, qui la tolleranza della minoranza viene inizialmente reclamata per far valere un finale diritto della maggioranza, ottenuto tramite conquista. C’è in questo una somiglianza con la propaganda comunista sovietica: pretendere dalle democrazie quegli stessi diritti di minoranza che verranno poi negati una volta che si è diventati maggioranza o si ha conquistato il potere o si è in grado di ricattarlo.

Perché riesca, questa strategia esige che le associazioni islamiche si procurino una rete di simpatizzanti, alleati e complici interni al territorio invaso, insomma una vera e propria “quinta colonna” infiltrata, sia occulta che palese. Essa ha la funzione di giustificare la presenza musulmana, darle prestigio, difenderne le pretese e minimizzarne i pericoli, allo scopo di tranquillizzare l’opinione pubblica autoctona, specie quella potenzialmente contraria, addormentandone la reattività o, se questa si desta, estinguendola con promesse e illusioni; se poi, nonostante tutte le precauzioni, insorgesse ugualmente una reazione oppositoria, gli ambienti filo-islamici hanno il compito di ridicolizzarla, demonizzarla, farla condannare dalle autorità ecclesiastiche e farla reprimere dalle autorità civili in quanto colpevole di “xenofobia”, usando all’uopo leggi liberticide previamente fatte approvare dai Parlamenti. Com’è noto, la recente legislazione di alcuni Stati europei – compreso quello italiano – o gl’impegni imposti dall’Unione Europea agli Stati nazionali, prevedono appunto questa repressione di chi rifiuta la società “multiculturale, multietnica, multireligiosa”.

Il conflitto tra diritto islamico e democrazia moderna

Come nel campo religioso, anche in quello politico-sociale non è attendibile la conclamata distinzione tra un islam “laico” e uno “fondamentalista”; queste categorie furono inventate da una certa sociologia religiosa relativamente al caso protestante, ma non possono essere applicate al mondo musulmano. Chiedere a un maomettano se è “moderato” o “fondamentalista”, sarebbe come chiedere a un cristiano se è “sunnita” o “sciita”: una domanza senza senso che non merita risposta. Esistono ovviamente ambienti islamici “moderati” o “estremisti”, ma si tratta di una caratteristica psicologica o al massimo tattica, che riguarda lo stile o i mezzi o i metodi da usare ma non i fini da conseguire; dal punto di vista della dottrina e del suo scopo, tutti i musulmani sarebbero semmai “fondamentalisti”, perché non possono rinunciare ai pochi ma esigenti “pilastri” stabiliti dalla loro Legge.

Per quanto riguarda la domanda se l’Islam sia compatibile con la “democrazia moderna”, e in concreto se i movimenti islamici accettino o no i “diritti dell’uomo” intesi in senso moderno (ossia “laico” ed egualitario), la risposta è problematica e tendenzialmente negativa. Un caso curioso ma rivelatore è rappresentato dal fatto che esistono ben tre Carte islamiche sui “diritti dell’uomo”: quella promulgata dalla Conferenza musulmana presso l’UNESCO il 19 settembre 1981; quella promulgata il 5 agosto 1990 dalla Conferenza dei Ministri degli Esteri Islamici; quella promulgata il 24 gennaio 2008 dagli Stati della Lega Araba. Queste tre Carte sono divergenti fra loro e per così dire progressive, perché la prima dichiara che i “diritti dell’uomo” sono sostanzialmente compatibili con la shari’àh, la seconda dichiara che sono compatibili ma facendo importanti correzioni ed eccezioni, la terza dichiara che sono sostanzialmente incompatibili. Evidentemente, la prima Carta è stata stesa sotto controllo democratico (l’UNESCO) con lo scopo di accontentare (e illudere?) gli occidentali, mentre le altre due sono state stese più liberamente in ambiente musulmano con lo scopo di riassicurare i fedeli di Allah. Tre posizioni che sembrano fatte apposta per accontentare tutti, spingendo i democratici al cedimento senza però costringere i musulmani a rinnegare la loro dottrina politico-giuridica.

Questa situazione, come molte altre, va infatti valutata alla luce della precise norme stabilite dall’Islam riguardo le trattative che i “fedeli” possono avere con gl’ “infedeli”. Se infatti il musulmano è tenuto alla onestà e veracità nei suoi rapporti con i propri simili, non è tenuto altrettanto nei suoi rapporti col non-musulmano: verso di lui egli può ricorrere alla takiya, ossia non solo alla dissimulazione, ma anche alla menzogna, ad esempio a fare promesse e giuramenti e a stipulare patti con la riserva di violarli o almeno eluderli quando non saranno più convenienti. Infatti la dottrina islamica, non ammettendo l’esistenza di una morale naturale né di un diritto naturale comuni e vincolanti per tutti gli uomini, fedeli o infedeli che siano, non ammette un dovere di veracità e onestà e osservanza dei primi verso i secondi, se ciò viene a contrastare gl’interessi della comunità musulmana e soprattutto i dettami del Corano. Stando così le cose, viene da chiedersi quanto siano credibili gl’impegni presi dai musulmani verso gl’ “infedeli” in campo religioso, politico e sociale. La risposta è semplice: quegl’impegni verranno rispettati solo se e finché non danneggeranno la comunità islamica o la Legge di Allah, ma verranno elusi o violati nei casi contrarii.

Questa giustificazione religiosa della slealtà, assieme alla difficoltà di trattare con una rappresentanza islamica globale e affidabile, rende problematici i tentativi d’intesa tra Stati nazionali e comunità islamiche. La Consulta per l’Islam Italiano, costituita nel 2005 dal Ministero dell’Interno, ha recentemente prodotto una “Carta dei Valori”, che dovrebbe costituire la base di principio per una possibile futura intesa, perché in essa le dette comunità si dovrebbero riconoscere ed ad essa dovrebbero adeguarsi, almeno nel comportamento pubblico. Eppure questa Carta è stata firmata anche da una importante associazione islamica – l’ Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII) – che certamente e palesemente non la condivide ed anzi la rifiuta in punti qualificanti e irrinunciabili, com’è stato notato da esponenti di altre comunità; il che significa che l’UCOII, applicando la citata takiya, ha finto di aderire alla Carta per ottenerne i vantaggi ma ripromettendosi di eluderla o violarla nei casi concreti che contrasteranno con gl’interessi islamici. Stando a questo presupposto, diventa davvero problematico promuovere ed anzi anche solo auspicare una intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche di questo tipo.

Assimilazione, integrazione o conflitto

Spesso s’ipotizza la necessità di scegliere tra “europeizzare l’Islam o islamizzare l’Europa”. Ma qui si tratta di una falsa alternativa. Una volta infatti che si rifiuta, per ovvie ragioni, la prospettiva d’ “islamizzare l’Europa”, si pone come unica alternativa quella di “europeizzare l’Islam”; ma questo tentativo, fatto lungo l’intero XX secolo, è fallito generando un Islam “modernista” di élites finito presto in crisi e comunque rifiutato dalle masse; pertanto oggi si prospetta una europeizzazione dell’Islam che comporti il tentativo di realizzare una realtà intermedia, né europea (dunque classico-cristiana) né islamica, basata o su un laicismo buono per tutte le culture, fedi e politiche, ottenuto per sottrazione fino a raggiungere un minimo comun denominbatore che però non sarebbe qualificante né aggregante, oppure su un “ecumenismo” che raccolga tutte le culture, fedi e politiche, ottenuto per pluralizzazione (“multi-“ ). Ma entrambe le soluzioni non potranno funzionare, perché la prima non è altro che la vecchia operazione “modernista” annacquata, la seconda è la nuova operazione ecumenistica ugualmente annacquata; entrambe non potrebbero resistere alle critiche, e soprattutto alle opposizioni, che verrebbero sollevate dalle parti opposte di un relativismo o di un fondamentalismo rigorosi e conseguenti.

La storia recente ha ampiamente dimostrato quanto sia fallimentare il progetto di una società “multietnica, multiculturale, multireligiosa”. I casi del Libano, di Cipro e della Bosnia lo dimostrano brutalmente: dove gli ospitanti cristiani hanno ceduto alle pretese degli ospitati musulmani, costoro hanno rapidamente prevalso ed emarginato gli autoctoni, usando un misto di armi psicologiche (vittimismo+fanatismo), politiche (aiuto internazionale islamico), sociali (occupazione immigrata) e militare (persecuzione armata). Né è servito agli spodestati ed emarginati rispondere con una reazione estrema e disperata affidata alle sole armi, facilmente demonizzata dalla propaganda filoislamica e repressa dalla comunità internazionale, come dimostra la triste vicenda dei cristiani bosniaci-kosovari, che da persecutori sono tornati ad essere perseguitati.

Quanto al problema dell’integrazione dell’immigrazione islamica, bisogna porsi la domanda se sia davvero possibile convivere con un “Islam italiano”. La risposta può essere positiva solo se si realizzeranno due fattori necessari e convergenti. Il primo è se l’Italia ufficiale ricupererà la propria identità (culturale, etica, politica e religiosa), rendendosi capace d’imporsi con prestigio e vigore su una numerosa e aggressiva presenza islamica, di limitarne le pretese a quelle compatibili con il diritto naturale e la “democrazia moderna”, e quindi assimilarla come ha fatto con altre presenze etnico-religiose già esistenti nel Paese. Il secondo è se l’Islam ufficiale rinuncerà a imporre quegli aspetti della propria identità (culturale, etica, politica e religiosa) che sono incompatibili con il diritto e l’etica naturali, accontentandosi di un regime di tollerante accoglienza che comporta anche un’accurata sorveglianza sulle fazioni o frangie estremistiche inevitabilmente penetrate nella società ospitante. La differenza tra ricuperare e rinunciare dà l’idea della differenza delle posizioni di partenza e dei relativi doveri: gl’Italiani debbono ricuperare un bene ormai perduto, mentre i musulmani debbono rinunciare a pretese già ricuperate. Se invece le autorità italiane saranno tanto cedevoli sui campanili quanto quelle islamiche sono intransigenti sui minareti, il “dialogo” e la collaborazione diventeranno, da difficili, impossibili e l’unica alternativa sarà tra l’islamizzazione dell’Eueopa e il temuto “scontro di civiltà”.

In conclusione, le condizioni per una vera “integrazione” sono molteplici e complesse, spaziando dal campo culturale a quello etico-religioso a quello politico-sociale. Molte di queste non possono essere risolte dalla politica, men che meno da una politica “buonista” e arrendista; alcune di queste possono essere risolte solo dalla religione, purché non sia una religiosità “ecumenica” e relativistica; tutte possono essere risolte dalla buona volontà di tutti, ma particolarmente del popolo italiano, purché esso ricuperi quella identità di cui abbiamo detto: risultato, questo, che dipende in ultima analisi da un soprassalto di dignità e da una rinascita spirituale che potranno realizzarsi solo con l’aiuto di quella divina Provvidenza che per molti secoli ha salvato l’Italia da altri numerosi pericoli.

Bibliografia consigliata per l’approfondimento

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