Le rubriche

La poesia dialettale

di Mario Macioce

tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze

 

1a parte

Accanto a quella in lingua, si è sviluppata attraverso i secoli una poesia in dialetto o in vernacolo, spesso popolare, a volte popolareggiante ma in realtà colta, non meno viva e brillante di quella in italiano.

Del resto l'italiano stesso all'origine era una parlata locale, il fiorentino, che in seguito ha prevalso sulle altre.

Inoltre le più antiche composizioni in "volgare" che conosciamo (prima metà del Milleduecento) sono Il Cantico di Frate Sole di S.Francesco, in dialetto umbro (Altissimu, onnipotente, bon Signore / tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione. / Ad te solo, Altissimo, se konfano, / et nullo homo ene dignu te mentovare. / . . . ) e le poesie della Scuola siciliana .

Queste però ci sono note nella traduzione toscana, dato che, dopo la morte di Federico II nel 1250, la Toscana si sostituì alla Sicilia come principale area culturale.

In lingua originale ci resta solo una canzone di Stefano Protonotaro, di cui riporto alcuni versi:

Pir meu cori alligrari,
chi multo longiamenti
senza alligranza e joi d'amuri è statu,
mi ritornu in cantari,
. . . . . . .  

e quando l'omu ha rasuni di diri,
ben di' cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza
joi siria sempri di pocu valuri

(Per rallegrare il mio cuore, che molto a lungo è stato senza allegria e gioia d'amore, io ritorno a cantare, . . . . . e quando l'uomo ha motivo di dire [in versi], ben deve cantare e mostrare allegria, ché senza dimostrarla la gioia sarebbe sempre di poco valore).

 

Poi, trascurando autori minori e con un grande salto nel tempo, cito due veneziani, vissuti a distanza di secoli e molto diversi tra loro, anche se saliti tutti e due alle più alte cariche pubbliche.

Il primo, Leonardo Giustinian (1388-1446), autore di dotte opere in latino, scrisse anche, e musicò, canzonette di tono popolare, che ebbero grande successo anche fuori della sua regione.

Ogni notte pur convegno - ch'io me insoni
de ti sola, o zentil fiore;
fra le braccia io te tegno - e tu rasoni,
tu conforti el mio dolore.
Poi tremante e pien d'amore
talor baso el viso adorno.
Stesse un anno a venir zorno
quando son su tal dormir!

(Conviene – cioè è inevitabile - che ogni notte sogni solo di te, o gentil fiore; io ti tengo fra le braccia e tu parli e conforti il mio dolore. Poi tremante e pieno d'amore ogni tanto bacio il bel viso. Come vorrei che passasse un anno prima che venga giorno, quando dormo in questo modo!)

Il secondo, Giorgio Baffo (1694-1768), fu un bravissimo poeta, ma, in contrasto con la sua immagine pubblica di Senatore, così licenzioso da fare il paio con Pietro Aretino. Ecco la sua autodifesa: un sonetto in cui annuncia quali saranno gli argomenti della sua poesia e dichiara che non è il caso di prendersela con lui, perché non farà male a nessuno e non parlerà di politica!

Mi dedico ste mie composizion
ai omeni, e alle donne morbinose,
a quelli veramente, che le cosse
le varda per el verso, che xe bon.

Sotto le metto alla so protezion,
come persone tutte spiritose,
perché da certe teste scrupolose,
i le difenda co la so rason.

Che i diga che qua drento no ghe xe
né critiche, né offese alle persone,
che de Dio no se parla, né dei Re,

ma sol de cosse allegre, belle, e bone,
cosse deliciosissime, cioè
de bocche, tette, culi, cazzi, e mone.

 

Poi, con una rapida carrellata da sud a nord, iniziamo con il palermitano Giovanni Meli (1740-1815), di cui riporto l'inizio della poesia Lu pettu (Il petto).

Ntra ssu pittuzzu amabili,
ortu di rosi e ciuri,
dui mazzuneddi Amuri
cu li soi manu fa.

Ci spruzza poi cu l'ali
li fiocchi di la nivi,
'ntriccia li vini e scrivi:
Lu paradisu è ccà.
. . . . . .

(Nel suo pettuccio amabile,/ orto di rose e fiori,/ due mazzolini Amore/ con le sue mani fa./ Ci spruzza poi con l'ali/ i fiocchi della neve,/ intreccia le vene e scrive:/ Il paradiso è qua./ . . . )

 

Del romano Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) ho riportato un sonetto nella 10 a puntata della Piccola storia della Poesia italiana. Aggiungo qui i versi finali da La creazzione der monno .

Me scordavo de dì che creò l'omo,
e coll'omo la donna, Adamo e Eva;
e je proibbì de nun toccaje un pomo.

Ma appena che a maggnà l'ebbe viduti,
strillò per dio con quanta voce aveva:
«Ommini da vienì, sete futtuti».

 

E poi troviamo il milanese Carlo Porta (1775-1821); dalla poesia in sestine rimate Desgrazzi de Giovannin Bongee (Disgrazie di Giovannino Bongeri):

Deggià, Lustrissem, che semm sul descors
de quij prepotentoni de Frances,
ch'el senta on poo mò adess cossa m'è occors
jer sira in tra i noeuv e mezza e i des,
giust in quell'ora che vegneva via
sloffi e stracch come on asen de bottia.
. . . . . .

(Di già, Illustrissimo, che siamo nel discorso di quei prepotentoni di Francesi, senta un po' adesso cosa m'è capitato ieri sera tra le nove e mezza e le dieci, giusto all'ora che venivo via loffio e stanco come un asino di bottega. . . .)