sabato 13 dicembre 2008

Tradizione: il segreto della grandezza di Roma



Ci sono termini ed espressioni che hanno uno strano destino, soprattutto se si tratta di traduzioni. Una di queste è l’espressione latina “mos maiorum”. Purtroppo in ambito accademico i traduttori di opere greche e latine ci offrono spesso versioni letterali, orribili e – va detto! – “sbagliate”. Sbagliate non già sotto un aspetto prettamente semantico (la traduzione è, in fin dei conti, accettabile), ma perché non tengono conto di una più libera ma esatta equivalenza tra termini di lingue diverse e, soprattutto, eludono – per stanca e incolore prassi scientifico-accademica – il fattore estetico. Per rendere mos maiorum troverete, infatti, “usanze dei padri”, “costume degli antenati” e altre formulacce del genere. Al contrario, per tradurre esattamente il termine, esiste una e una precisa parola: Tradizione (in greco èthos). Che altro sono “i costumi dei padri” se non princìpi e valori verso i quali i membri di una comunità devono osservare venerazione ed emulazione? “Tradizione”. Punto.

Il mos maiorum è inoltre assolutamente necessario per comprendere veramente la Romanità: esso, infatti, era alla base e si manifestava in ogni aspetto (diritto, famiglia, politica, cultura, religione…) della vita comunitaria e privata dei cittadini romani.

Il diritto romano, anzitutto, fu da principio regolato unicamente dalla tradizione non scritta che gli avi trasmisero ai posteri: prima della codificazione delle leggi delle XII tavole non esisteva, infatti, legge (lex da lego, cioè che deve esser letta in quanto scritta). «La concezione romana rifiuta in linea di massima la codificazione e mostra una forte riluttanza nella emanazione di singole leggi. Il popolo del diritto non è il popolo della legge»: questa la celebre formula coniata da F. Schulz nei Prinzipien des römischen Rechts (Princìpi del Diritto romano). Da qui nasce, in ambito giuridico, la dicotomia/antitesi tra mos e lex, tra costume che viene dalla veneranda tradizione e la legge. Così Cicerone, nelle Catilinarie, invoca il mos maiorum contro la legge scritta per poter mettere a morte Catilina: secondo la Tradizione era possibile condannare a morte i nemici della Patria, non per le leges Valeriae-Semproniae che proibivano la pena capitale per un cittadino romano. Questo esempio mette in evidenza l’enorme potere che la Tradizione esercitava nel diritto romano, molto spesso superiore alla stessa legge.

La Tradizione era altresì fondamentale nella vita politica e, in particolar modo, per il Senato. I membri di quest’ultimo, infatti, erano i discendenti degli eroi che fecero grande Roma e, giacché secondo i Romani la virtus maiorum si trasmetteva di padre in figlio, la auctoritas e la legittimazione del potere dei senatori venivano direttamente dalla gloria dei loro antenati. Tale principio si manifestava al massimo grado nei funerali pubblici delle famiglie patrizie, in cui tutte le imagines degli antenati della gens (maschere di cera che riproducevano le fattezze degli avi) sfilavano in lunghi cortei che si concludevano con l’orazione celebrativa, nella quale si lodavano, oltre alle virtù del defunto, le gloriose gesta dei suoi progenitori. Era quindi obbligatorio per gli eredi delle grandi famiglie di Roma conoscere le imprese dei propri antenati, e l’educazione dei giovani nobili verteva eminentemente sulla trasmissione dei mores maiorum. È emblematica al riguardo l’immagine, lasciataci dalla letteratura antica, di Scipione Emiliano che ritrova vigore e propensione a grandiose gesta osservando le immagini dei suoi avi.

Ma tale culto della Tradizione non esisteva esclusivamente nelle autorevoli famiglie patrizie, ma era altresì venerata la gloria populi Romani, ossia la Tradizione comune a tutto il popolo di Roma.
Ogni cittadino romano ha dunque il dovere di mantenere e, possibilmente, di accrescere la gloria dei padri, praticando la via della virtus.

Parimenti in ambito militare e religioso il mos maiorum è un elemento inscindibile dall’essenza stessa della Romanità. Le virtù dei maiores, come ce le tramandano gli scrittori greci e romani, sono le seguenti:

- Fortitudo: capacità, coraggio;
- Fides: fedeltà (verso gli altri);
- Pietas: fedeltà (verso gli dèi, la Patria, la famiglia);
- Iustitia: senso della giustizia;
- Audacia: coraggio;
- Constantia: costanza;
- Magnitudo animi: nobiltà d’animo;
- Aequitas: equità;
- Probitas: probità;
- Auctoritas: autorità;
- Honestas: onestà;
- Temperantia: misura;
- Clementia: moderazione.

La tradizione romana si fondava, in ultima analisi, sugli exempla maiorum, ossia le eroiche gesta compiute dagli avi, le quali spingevano i giovani a rendere sempre più grande Roma: e questo proprio perché gli esempi di virtù degli antenati erano tali in quanto volti all’accrescimento della gloria dell’Urbe. Si capirà meglio, quindi, il motivo per il quale l’educazione dei fanciulli romani si basasse sugli exempla maiorum: non precetti ma esempi, giacché il precetto istruisce, ma è l’esempio che trascina e muove gli animi.

In conclusione, vediamo che sia gli antichi che i moderni ravvisarono nel culto della Tradizione (il mos maiorum) il segreto della grandezza di Roma; e tanto più i romani se ne discostavano, tanto più era lecito parlare di decadenza e degenerazione dei costumi.
Non a caso lo storico greco Polibio canta la gloria di Roma spiegando ai propri compatrioti che Roma ha conquistato il mondo grazie alle sue istituzioni e alla forza che le viene dall’osservanza della sua nobile Tradizione.

Ora, dunque, potremo comprendere più a fondo il celeberrimo verso del poeta Ennio che, scolpendo il suo esametro come solido marmo, cantò: Moribus antiquis res stat romana virisque, «Roma si fonda sulla Tradizione e sui suoi eroi»!

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