La Maddalena di Novara – Silvana Bartoli

Oggi gioco in casa,  e credo che le monache della Maddalena siano qui ad ascoltare. Mi fa piacere pensarlo.
Io devo moltissimo a questo luogo, alla sua direttrice Marcella Vallascas, e anche al direttore precedente,  Giovanni Silengo, che mi ha molto aiutata nelle prime ricerche, quando le difficoltà mi apparivano insormontabili.
Devo molto a questo luogo non solo per le monache della Maddalena ma anche per altre storie femminili, che in molti casi non ho cercato ma mi sono venute incontro, e proprio dalle carte che vegliano in questo archivio. Mi riferisco in particolare alla storia drammatica di Barbara Tornielli,  alle lettere di Cristina di Belgiojoso, ai documenti ancora silenziosi sulla famiglia Faraggiana.
In generale comunque il mio lavoro di ricerca è in debito con gli archivi e le biblioteche, per questo voglio citare la frase che è incisa sopra l’ingresso dell’archivio- biblioteca di un monastero spagnolo, il Monasterio de la Encarnaciòn: “Questo è il luogo in cui i morti aprono gli occhi ai vivi”.
Il lavoro di ricerca, in effetti, ha questa dimensione e il titolo di oggi, “Memorie disperse, memorie salvate”, è efficacissimo nel definirne il percorso.
Quando mi sono accostata al monastero della Maddalena, e ho cominciato a fare un primo regesto di ciò che era consultabile, ho dovuto fare i conti con i bombardamenti del ’43 che hanno distrutto l’ala dell’Archivio di stato di Milano in cui erano conservati molti dei documenti provenienti dai monasteri novaresi. In quei bombardamenti è andata perduta anche tutta la documentazione relativa alla giustizia punitiva, per cui quando poi ho iniziato a lavorare  su Barbara Tornielli, ho potuto utilizzare solo la documentazione novarese, tutto ciò che alla metà del Cinquecento era stato inviato alla Regia Camera di Milano è andato perduto.
Sui monasteri, per fortuna di chi fa lavoro di ricerca, ci sono le visite pastorali e i notai.
Incrociando le visite pastorali, che sono in Archivio diocesano, i faldoni dei notai che sono qui, insieme a molti atti di proprietà, si è potuto ricostruire una vicenda da cui emerge subito un paradosso.
Nel senso che normalmente si pensa che le monache di clausura fossero tutte vittime di costrizioni terribili e che fossero le escluse dal mondo, le cancellate dal mondo. In realtà le carte giunte sino a noi ci dicono che le cosiddette escluse sono presenti nella memoria molto più delle sorelle rimaste nel mondo, perché di loro è sopravvissuta la documentazione.
Grazie alle visite pastorali, grazie ai notai, vediamo, ad esempio, che le monache sono sempre presenti come soggetti nei documenti, le mogli mai; anzi le notizie sulle sorelle sposate vengono in molti casi proprio dalle sorelle monache.  
Le mogli sono oggetti che consentono passaggi di denaro e nobiltà da una famiglia all’altra.
Nei documenti notarili in cui compaiono le monache, ovviamente la badessa, la vicaria e le discrete, cioè le monache scelte per coadiuvare la badessa, esse compaiono sempre come soggetti anche quando entrano in gioco le famiglie, come i  Gallarati ad esempio, una famiglia  fondamentale per seguire la storia del monastero della Maddalena.
Il monastero, di osservanza agostiniana, ebbe una sua prima sede in una zona allora periferica della città, l’attuale Rondò in Borgo San Martino; poi le monache dovettero trasferirsi a causa delle fortificazioni: Novara era zona di confine tra Francia e Spagna. Per convincere le monache a trasferirsi, erano piuttosto riluttanti, l’edificio venne addirittura minato, sicché dovettero accettare il trasloco nella casa dei Caccia, esattamente di Aloisio Caccia, che è appunto quella dove ora ci troviamo.
La casa diventa proprietà delle monache in seguito ad una transazione piuttosto complessa e lunga   che vede quattro attori: il monastero della Maddalena, la Regia camera di Milano, la Famiglia Caccia che è costretta a vendere, e i Frati Barnabiti di San Marco.
La famiglia Gallarati è quella che fa da trait d’union tra questi attori. Infatti Paolo Gallarati, importantissimo giureconsulto del 1600, aveva sposato Dianira Gattinara, discendente di quel Mercurino Gattinara che è stato consigliere di Carlo V.  Paolo Gallarati ha 6 figlie femmine e un maschio e, secondo le consuetudini, le prime tre devono essere monache. 
Le più grandi entrano in monastero, sostenute da un’adeguata “dote spirituale”, che era comunque inferiore alla dote per un matrimonio, ragione per la quale, a Venezia, era obbligatorio  monacare un certo di numero di ragazze ogni anno per evitare che gli esborsi per le doti matrimoniali fossero tali da impoverire le famiglie.
Perché le più grandi? Perché facendo carriera in monastero consentivano alla famiglia di acquistare quel vantaggio di immagine e di sostanza che avrebbe consentito di sposare bene le altre. Le ragazze Gallarati che fanno professione sono  Antonia, Paola e Vittoria; le tre più giovani, Anna, Giacinta e Cecilia sposeranno un Capra, un Calciati e un Bellini, tre famiglie cospicue nella Novara seicentesca, e nella generazione successiva troviamo in monastero le loro figlie maggiori. Ma quando le tre ragazze Gallarati entrano in questo monastero, ci sono già due zie: Anna Maria e Angela Francesca Gattinara, sorelle più grandi della madre.  
C’è infatti anche questo legame: zia-nipote che ristabilisce gli assi parentali all’interno dei monasteri e consente alle famiglie di costruire le celle, arredarle e detenerne il possesso, come un patrimonio privato che poteva passare da una generazione l’altra.
Poco dopo l’ingresso delle ragazze Gallarati si presenta il problema del trasloco: dove alloggiare il monastero che deve per forza andarsene sotto minaccia della distruzione dell’edificio fuori le mura?
A questo punto la famiglia Gallarati fa sentire tutto il suo peso: il padre, le tre monache e il figlio Gallarati, che era malato ed era stato collocato tra i Barnabiti di San Marco, ai quali Paolo Gallarati per gratitudine lascerà la sua biblioteca.
I Barnabiti si fanno intermediari:  hanno prestato moltissimi soldi alla famiglia Caccia, proprietaria del palazzo in cui ora ci troviamo, e in cambio dei denari che i Caccia non possono restituire, i Barnabiti si prendono l’edificio e lo cedono  alle monache che pagano con i soldi ricevuti dalla Regia Camera di Milano.
Chi resta col cerino in mano è la famiglia Caccia. La quale farà tutta una serie di ricorsi per cercare di riavere il palazzo: perché è stato un abuso, perché non si è rispettata la legge ma le cose non cambieranno.
Apro una parentesi:  tutto questo avviene alla metà del 1600, il trasloco è esattamente del 1 luglio del 1646, e il grosso debito dei Caccia nei confronti dei Barnabiti di San Marco risale al 1609. Questa data ha suscitato un bel dubbio, perché il 1609 è l’anno del processo al Caccetta, quel famigerato bandito presente anche nella Chimera, che ad un certo punto è stato preso, condannato a morte e giustiziato. L’uso era che la famiglia del condannato dovesse pagare tutto: il processo, il carcere, i carcerieri, il boia, la confraternita della buona morte che lo accompagnava al patibolo, la legna per il patibolo. Quindi i Caccia si sono svenati per questa disgrazia e io mi sono chiesta se quel debito non fosse collegato alla condanna.
Non ho però trovato il documento che permetta di fare il collegamento tra le due cose, il rogito notarile che permetta di dire che i Barnabiti hanno prestato soldi proprio per quel processo. Non l’ho trovato sicché chiudo la parentesi dicendo è un’ipotesi e basta.
Il monastero intanto, grazie alle sorelle Gallarati, al padre e al fratello barnabita, riesce ad avere questo edificio e, con i soldi che sono arrivati dalla Regia Camera, riesce a farlo ristrutturare magnificamente.
Ho trovato disegni precedenti all’arrivo delle monache, era un edificio certamente signorile ma molto più dimesso. C’era soltanto la corte nobiliare, che attualmente è il cortile interno del liceo artistico, dove il quadriportico è rimasto intatto, mentre il cortile su cui si affaccia adesso l’Archivio di stato era il viridarium delle monache, sostanzialmente l’orto da cui potevano trarre del cibo. C’era un canale di scolo che correva in mezzo, e un sentierino che attraversava e divideva lo spazio monastico dalla casa dei conti Leonardi che abitavano proprio nell’angolo.
Dal  1651 al 1654 viene edificata la chiesa con abbondanza di marmi e di arredi dei quali quasi nulla  è andato perso. L’altare di Santa Maria Maddalena, il sontuoso e mirabile altare descritto dal Frasconi, è ora nella Basilica di San Gaudenzio, esattamente nella cappella del crocifisso. Tra l’altro il crocifisso ha capelli veri e, poiché c’era l’abitudine che le ragazze, al momento della tonsura, facessero dono dei loro capelli per finalità devote, non è da escludere che quei capelli siano di qualche monaca della Maddalena.   
Questa vicenda del trasloco che ho cercato di riassumere, è stata talmente importante per tutta la comunità, che ha suggerito alle monache di fare memoria, infatti hanno scritto una “Istoria della mutazione ossia translazione del nostro onorato monastero, in cui raccontano minuziosamente tutto ciò che è avvenuto, i passaggi e i problemi. Però la storia della traslazione viene firmata da un canonico. In realtà, alcuni documenti, fanno concretamente supporre che l’abbiano scritta loro, ma perché è firmata da un canonico?
Perché non era lecito ad una donna entrata in clausura varcare il muro del silenzio al quale si era votata:  la scrittura si configurava come un gesto di ribellione, un ricercare di nuovo parola pubblica e quindi andava accuratamente velata.
Come vivevano le monache qui dentro? La vita monastica era fondata sul “sistema per celle”, che ho già accennato, e che consentiva  alle famiglie di costruire il loro potere anche all’interno della comunità.
Le monache  facevano carriera: s’ iniziava come canevana, cioè l’incaricata della cantina, poi come portinaia, poi dispensaria, incaricata delle stoviglie,  e via via si diventava “discreta”, vicaria e badessa. E si amministravano i beni del monastero che erano cospicui. Terre e cascine che producevano cibo e, in un mondo affamato, era una cosa importantissima. Questo dunque era anche un luogo di potere in cui anche le donne gestivano il denaro. Certo nessuna di loro poteva saltare a cavallo per andare a vedere cosa succedeva nel campo non lontano. Sicché le monache provvedevano delegavano questo compito a controllori ed amministratori che erano sempre i loro parenti. Così  le famiglie delle monache, grazie a questi incarichi, riuscivano effettivamente a controllare una buona fetta di potere economico.
Le monache poi votavano. Sono state le prime donne ad esercitare il diritto di voto perché nei monasteri le cariche erano tutte elettive. Si votava quella che doveva occuparsi della cantina, quella che doveva essere discreta, quella che doveva priora, badessa ecc.
Si potrebbe quindi dire la prima esperienza di attività politica le donne l’hanno fatta all’interno di un monastero. Dove infatti c’erano i partiti: ogni famiglia cercava di avere per la propria figlia il ruolo di amministratrice della dispensa, perché significava appunto controllare il cibo che arrivava e che si distribuiva, controllare chi andava a vedere le vigne, i campi, le ortaglie. E dunque si formavano all’interno in un monastero quelle che i vescovi chiamano le “combriccole”, molto simili ai partiti in cerca di voti.
I vescovi cercano di spezzare le “combriccole”, perché ciò non è confacente alla vita monastica, ma, al di là delle enunciazioni, su questi aspetti non c’è molta severità. La severità dei vescovi si esercita su altro: sull’abito, che deve essere impeccabile, sui capelli che devono essere sempre rasati e ben nascosti; si esercita sulla prontezza con cui le monache accorrono ad aprire la porta quando il vescovo arriva in visita, ogni ritardo fa nascere sgradevoli sospetti…
Si esercita sulla proibizione per le monache a guardare fuori dalla finestre: si tratta di una mancanza gravissima, e la prima cosa che il vescovo viene a verificare è se le grate delle finestre sono ben fitte e solide, perché guardare fuori significa essere indotte in tentazione, il pericolo sessuale è sempre in agguato.
Io non ho però molte storie di scandali da raccontare relativamente a santa Maria Maddalena e devo dire che il lavoro negli archivi di tutti i monasteri novaresi, negli atti di monacazione e nei rogiti dei notai ecclesiastici, ha fruttato una sola storia “piccante”. Nel monastero di San Cristoforo, nel 1570, arriva un messo del vescovo il quale chiede alla badessa se è vero che una delle sue monache abbia avuto una bambina da un prete. La badessa giura che non è vero, la monaca che è appena morta “è morta per infermità di bisogno e non d’altro”, ripete più volte, ma il monastero viene chiuso seduta stante e le monache trasferite in santa Maria Maddalena, nella cui documentazione l’ho ritrovata.  
Le monache, dicevo, possono fare carriera, gestiscono la produzione di cibo, amministrando beni e denaro. Vorrei ricordare che in famiglia, le donne potevano avere soltanto quello che si chiamava il “potere delle chiavi”, non altro. Ovvero le chiavi della cantina e della dispensa. Non compaiono soggetti femminili nei documenti notarili che definiscono il passaggio di denaro da una famiglia all’altra. Nel contratti matrimoniali sono il padre o il fratello a dire quanto verrà dato di dote al futuro sposo al momento della consegna della figlia o sorella.
In convento le donne erano, sulla base della documentazione rimasta, molto più libere che in famiglia. Erano certamente libere dalle gravidanze. Non si ricorda mai abbastanza che la gravidanza era una delle prime cause di morte e che, per garantirsi una discendenza, gli uomini di famiglie importanti arrivano a sposare tre o quattro donne, perché la mortalità infantile era elevatissima e le donne morivano con altrettanta frequenza di parto. Per cui erano necessarie molte fattrici per garantirsi la discendenza.
Le monacazione coatte certamente ci sono state ma erano coatte esattamente come i matrimoni. Nessuna donna poteva scegliere chi sposare quindi non c’era una grossa differenza all’interno del mercato matrimoniale o monastico.
Inoltre le monacazioni coatte non sono automaticamente associabili agli scandali sessuali, il loro prodotto principale è la pazzia.
Con grande frequenza nei monasteri si trova la monaca pazza. Quella che viene legata nella sua cella e che, a seconda della  parentela con le famiglie importanti, è eternamente rinchiusa, a volte incatenata, in una cella che ha o non ha il camino. Per lei, murata in quel luogo, la possibilità di un po’ di riscaldamento dipendeva solo dall’interesse che i parenti volevano testimoniarle, per le altre il camino era un oggetto improponibile, perché nuoceva gravemente alla salvezza dell’anima, scaldarsi infatti significava  una concessione al corpo  non prevista sulla strada verso il paradiso.
Dicevo che nei monasteri non ho trovato troppi scandali ma neanche  troppe “pie suorine ignoranti”. Quello che emerge dalle visite pastorali e dai documenti notarili è una storia di donne assolutamente consapevoli del loro ruolo nel gioco di squadra, questo infatti è l’aspetto fondamentale della condizione femminile nei secoli passati: la partecipazione al gioco di squadra.
Si tratta di una dimensione importantissima, salta fuori continuamente dai documenti, anche senza cercarla. Le mogli, le monache, tutte le donne sono inserite in un gioco di squadra che deva fare il bene della famiglia, o di appartenenza, quando sono giovani e quando sono monache, o acquisita, quando sono sposate. Questa è la regola inderogabile.
Qualche esempio. Nel gioco di squadra che deve fare gli interessi della famiglia molto spesso le donne vengono usate per andare in avanscoperta. Ovvero per gestire le situazioni dubbie. Si fa parlare “lei” quando non si sa se quell’alleanza matrimoniale andrà davvero a buon fine. Se ha parlato una donna e la cosa non procede bene, beh si sa, la parola femminile non ha valore….
Ho trovato la documentazione relativa a Maddalena Caccia alla quale gli oratori del comune di Novara chiedono una raccomandazione presso il Senato di Milano. Il marito di Maddalena Caccia ne era allora il presidente; non ci si poteva esporre andando direttamente da lui perché, se avesse detto no, sarebbero stati compromessi i rapporti col Senato di Milano. Allora ci si rivolge a lei perché faccia un primo passo e si sta a vedere come vanno le cose.
Questo ruolo di donna in avanscoperta nel gioco di squadra, con finalità di vario genere, sembra sia stato utilizzato anche nella vicenda di Isabella di Castiglia con Cristoforo Colombo. Facciamo trattare a lei la cosa… poi se va male, è una donna… e qualcuno, oggi, dice che le donne sono state messe ai vertici di Confindustria perché siamo in un momento di crisi e se le cose vanno ancora peggio, ci si è fidati di una donna…
Per riprendere il confronto tra condizione monastica e condizione maritale non posso non citare tre libri. Uno è stato pubblicato di recente da Francesca Medioli ed è L’inferno monacale. Si tratta di un manoscritto di Arcangela Tarabotti, monaca veneziana del ‘600, incattivita nera perché costretta a monacarsi in quanto zoppa, e quindi matrimoniabile solo con una dote troppo elevata che la famiglia non riteneva utile. Lei non ha nessuna voglia di fare la monaca e scrive questo primo libro in cui dice tutto il male possibile della sua situazione e delle sue compagne di sventura. Poi gradualmente impara a fare di necessità virtù e scrive il Paradiso monacale; il luogo è lo stesso ma si respira un’aria tutta diversa. Nel parlatorio del convento però, la nostra colta Arcangela riceve le visite e le confidenze di altre donne veneziane, parenti e amiche, e scrive il Purgatorio delle mal maritate.
Il Paradiso monacale è stato pubblicato subito, nel 600; l’Inferno monacale è stato pubblicato una ventina d’anni fa, il Purgatorio della mal maritate è andato completamente perduto…
Uno degli aspetti più significativi che emerge dall’analisi delle monacazioni e dei matrimoni coatti è la costante registrazione di un’assenza: l’assenza dell’amore materno.
L’amore materno è davvero un comportamento sociale molto recente,  come Elisabeth Badinter ha dimostrato benissimo nei suoi libri.
Per tutto l’Ancien Régime l’amore materno è considerato dannoso. Non solo inutile, proprio dannoso, soprattutto quando è rivolto alle figlie. Perché questo? Perché la rivalità tra donne è la più importante stampella del patriarcato e la si deve imparare in famiglia, la documentazione è vastissima su quest’aspetto. Le figlie infatti imparano in famiglia ad essere rivali delle altre donne e lo imparano prima come figlie poi come madri, prima contro le madri poi contro le figlie. Le figlie sono tenute a fare gli interessi del padre e dei fratelli. La moglie, la madre è tenuta a fare gli interessi della famiglia maritale e dei figli maschi.
Emblematica in questo senso la vicenda di Barbara Tornielli, conservata anch’essa qui in Archivio di stato.
Barbara Tornielli è una ragazzina di quindici anni, appartenente ad una famiglia illustrissima ma alquanto povera, e certamente non è matrimoniabile come si deve, infatti nessuno si preoccupa di trovare e spendere una dote per lei. Probabilmente perché era stata violentata, in effetti questo era anche  l’unico motivo che impediva a una ragazza di essere accettata in convento: l’aver già “gustato i piaceri della carne”, come dicono con agghiacciante ironia i documenti ecclesiastici quando parlano di stupro.
Dunque questa ragazza non matrimoniabile viene consegnata mani e piedi ad un uomo violento che l’ammazza dopo 25 giorni di matrimonio. La uccide perché la famiglia non gli paga la dote, e  la famiglia non gli paga la dote perché la ragazza non vale i 400 scudi che lui chiede.
Meglio trovare la maniera per liberarsene. E infatti il marito trova il modo di liberarsene anche perché nel frattempo ha già conosciuto un’altra, ricchissima, e Barbara è ormai solo un impiccio.
Il documento che racconta il processo è la registrazione di quanto è avvenuto giorno per giorno, dal matrimonio all’uxoricidio, e la madre sa benissimo qual è il rapporto tra la figlia e quest’uomo violento. La madre sa benissimo cosa sta per accadere quella notte. Ma non dice nulla. E quindi acconsente sostanzialmente che la ragazza venga uccisa perché è inutile alla famiglia, e poiché anche quest’uomo si è rivelato poco vantaggioso per la famiglia, si può rinunciare alla parentela, semplicemente rinunciando alla ragazza…
“Memorie disperse, memorie salvate” è un passaggio importante: è fondamentale infatti aprire gli archivi del passato, disseppellire voci, smontare una lettura della storia che per troppo tempo ha ignorato metà dell’umanità.
Dalle storie di donne che pian piano vengono alla luce, emerge il dato che la memoria del femminile varca il muro del silenzio quando ci sono casi di violenza o di ribellione. Al di fuori di queste eccezioni, i ritratti di donne considerati utili si assomigliano tutti: figlia, moglie, madre esemplare, vedova devota. Tutte talmente simili che, come già notava Jane Austen, nei libri di storia le donne non c’erano proprio, la loro presenza è fatto recente.
Chiedersi il perché di quest’assenza significa porsi molte altre domande che riguardano i rapporti tra gli uomini e le donne; la storia come ricerca, come scrittura e come insegnamento; i libri di storia, chi li scrive e perché, quello che dicono e quello che tacciono.
Tutto quindi dipende dalle domande che si pongono ai documenti.

Silvana Bartoli