Stefano Beverini

Ordine dei Giornalisti n. 57489

Scrittore e giornalista della stampa specializzata.

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Riscontri oggettivi nella fenomenologia soggettiva delle near death experiences.

 

N.D.E.: negli anni Settanta, come convenzione internazionale, venne scelto questo acronimo per indicare una categoria di fenomeni non ancora definiti in modo esauriente (near death experiences: esperienze vicino alla morte). In Italia si usa anche la sigla E.PM. (esperienze di premorte), il termine "premortale" e il neologismo "perimortale".

Altre parole sono usate impropriamente o comprendono più vaste categorie di fenomeni. L'errore più comune è quello di accomunare le N.D.E. con le cosiddette "esperienze in punto di morte" (anch'esse spesso definite di premorte, alimentando confusione). Sono molto diverse, e in queste ultime soprattutto non sussiste alcuna sensazione di "coscienza extrasomatica".

Le N.D.E. sono esperienze soggettive, spesso con elementi oggettivi estremamente particolari, vissute in una situazione clinica gravissima da persone apparentemente decedute.

E' ovvio che tra i primi sintomi (mancanza di reattività agli stimoli, arresto respiratorio, assenza di battito cardiaco... e la morte di tutte le cellule dell'organismo umano trascorra molto tempo, e che quello che noi definiamo decesso altro non è che una convenzione basata su alcuni parametri. Non esiste un "momento del trapasso" in senso assoluto.

L'obiezione che le esperienze di N.D.E. non riguardino persone decedute, ma vive, non è soddisfacente, perché sposta solo i termini della questione, senza affrontarla. Non è comunque utile analizzare la parola "morte" da un punto di vista semantico, ma, da un punto di vista medico, occorre precisare che, trattandosi di persone "rianimate alla vita", si presume che la loro attività biologica fosse tale da evitare l'irreversibilità del loro stato.

Forse il concetto di morte dell'uomo rientra più nella filosofia che non nella medicina: si tratta di stabilire quando cessa il collegamento tra il corpo fisico e la coscienza di se stessi e, paradossalmente, non è detto che ciò escluda la reversibilità dell'evento. Il corpo fisico, nella sua globalità, muore lentamente, organo dopo organo, cellula dopo cellula e potrebbe apparire imprudente accomunare la fenomenologia di cui parliamo con il concetto ancora non troppo precisato di decesso. Una buona definizione della N.D.E. ci viene proposta dal medico italiano di rinomanza internazionale Aldo Sodaro:

Per "esperienze di premorte" si intendono i vissuti riferiti dai pazienti nei quali una qualsiasi condizione, traumatica, tossica o patologica, abbia determinato un arresto temporaneo dell'attività cardiaca, respiratoria, dei riflessi e della coscienza.

Il cardiologo americano Fred Schoonmaker, tra il 1961 e il 1979, studiò centinaia di casi di arresto cardiaco, con una percentuale N.D.E. del 60%. Addirittura 55 pazienti con sospensione dell'attività elettrica del cervello, registrata con EEG piatto, riscontrarono esperienze di N.D.E.. Secondo altri la percentuale è minore e riguarderebbe il 40% di coloro che "tornano dalla morte clinica". Anche altri sondaggi americani riportano cifre inferiori, come quello del noto istituto Gallup, che riferisce un 34%.

Analoghe esperienze vissute durante lo stato di coma, invece, anche se particolarmente grave e irreversibile, non dovrebbero venire classificate nei fenomeni N.D.E., rientrando nella cosiddetta O.B.E. (out of body experience). Si tratta di una casistica abbastanza simile, ma riguardante sia persone sane, sia soggetti clinicamente gravi, ma senza sintomi di decesso.Tuttavia lo stesso Raymond Moody, forse il maggiore divulgatore della materia, classificava le esperienze di premorte in tre categorie:

  1. Persone "clinicamente morte" e rianimate;
  2. Persone coinvolte in gravi incidenti;
  3. Moribondi mentalmente lucidi.

Delle tre, solo la prima rientra, a mio avviso, nella casistica oggetto del nostro studio. La determinazione della fenomenologia non è però ancora definitiva. Si tratta di ricerche relativamente recenti, vuoi perché le tecniche di rianimazione si sono sviluppate solo in questi ultimi anni, vuoi perché‚ radicati preconcetti o convinzioni hanno tenuto medici e psicologi lontano da queste osservazioni. Ma di quali fenomeni stiamo parlando?

Il quadro, per così dire, "sintomatologico" più comune è il seguente:

Contrariamente a quanto in genere si crede, dunque, non sempre le percezioni N.D.E. sono foriere di gioia e di serenità. In alcuni casi si hanno visioni terrificanti, paragonate a immagini infernali. Tuttavia esse non sembrano molto ricorrenti: vengono descritte specialmente nelle ricerche del cardiologo Maurice Rawlings e dello psicologo Charles Garfield. Detto per inciso, appare evidente una stretta analogia con quanto descritto nel tibetano Bardo Thödol, il libro della salvazione; questo può far riflettere sull'analogia tra certi antichi testi religiosi e profonde esperienze personali.

Ugualmente, l'uniformità della "dinamica N.D.E." in luoghi e culture diverse - esistono anche studi comparati in molte aree geografiche, anche induiste e musulmane - ci induce a pensare. "Effetto tunnel", sensazione di generale benessere, percezione di una grande luce, visione panoramica del proprio vissuto, eccetera. Ma non sono questi gli aspetti in comune che voglio evidenziare. L'analisi comparata delle citate impressioni soggettive riveste grande interesse, ma non elimina totalmente il dubbio che la N.D.E. sia un "qualcosa" elaborato dal cervello. Inoltre certe rappresentazioni potrebbero costituire il frutto di un bagaglio collettivo, come negli archetipi junghiani. Ancora, la cosiddetta visione panoramica retrospettiva degli avvenimenti della propria vita (sequenza vissuta frequentemente nel corso di una N.D.E.) secondo alcuni studiosi potrebbe essere originata sempre dal cervello, il quale, comportandosi come un computer, "salva il dischetto", cioè duplica la memoria.

Il quadro teorico è comunque molto complesso. Anzitutto si avanza l'ipotesi che la visione extrasomatica sia la conseguenza allucinatoria della produzione, nell'organismo umano, di particolari sostanze. Altri descrivono la N.D.E. come una psicopatologia, anche se non si tratta di un insieme di esperienze incoerenti o confuse, né vi sono caratteristiche destabilizzanti; anzi, tutt'altro! Alcuni ipotizzano inoltre che le esperienze siano conseguenza di una sorta di "tempesta psicofisica" durante la rianimazione, e non della condizione di apparente decesso; ma questo sposterebbe i termini della questione, non la sostanza. In generale, si ritiene che le percezioni dell'individuo, clinicamente pressoché morto, siano elaborate dal cervello in modo da creare delle immagini artificiali, che possano anche riprodurre fedelmente l'ambiente. Inoltre, essendo forse l'udito l'ultima forma di percezione durante un processo degenerativo, si ipotizza che le descrizioni di esperienze di premorte siano semplicemente il frutto di associazioni ed elaborazioni di sensazioni uditive.

A complicare ulteriormente le cose, però, vi sono le esperienze di N.D.E. nei bambini, come quelle raccolte da Melvin Morse e da Raymond Moody. Tale argomento assume un significato del tutto singolare. I bambini, infatti, pur essendo privi delle costruzioni mentali degli adulti e non avendo quindi ben chiari i concetti di vita, morte e aldilà, stranamente riferiscono esperienze simili e analoghe a quelle degli adulti medesimi, e questo sin dalla più tenera età. E tutto ciò è alquanto strano, considerando che la percezione della morte nei bambini dovrebbe essere diversa. Ciò escluderebbe l'ipotesi dei meccanismi di difesa e delle proiezioni di fantasie.

Sia la condivisione di esperienze comuni nella casistica N.D.E., sia la consapevolezza della "esternalizzazione" del proprio io, sono aspetti importanti su cui riflettere. Ma ciò che maggiormente ci può indurre a supporre che la coscienza, e la stessa mente, non solo non siano localizzabili nei neuroni del cervello, ma siano addirittura di essenza extrafisica, è la ricca casistica sui riscontri oggettivi. Mi riferisco a tutti quei casi ben documentati, e sono molti, in cui persone colpite da forti traumi, apparentemente decedute, hanno visto e poi descritto tutto quello che accadeva nell'ambiente, osservando la scena "dall'esterno", spesso come "dall'alto". Non avevano nessuna possibilità di acquisire informazioni tramite i sensi, eppure questo è accaduto. E allora le varie teorie appaiono come supposizioni assolutamente insufficienti, perché è altamente improbabile che "riproduzioni virtuali" possano coincidere con la scena reale.

Dagli effetti dell'aumento dell'anidride carbonica nel sangue, all'analogia con allucinazioni originate da morfina e droghe varie; dall'ipotesi degli spasmi dei lobi cerebrali, alla produzione di ormoni endogeni; dal concetto di "depersonalizzazione" in pericolo di vita, alla "riattivazione" dell'esperienza della nascita... Ma nessuna teoria si rivela esauriente nello spiegare come una persona possa "vedere" senza l'ausilio dei propri sensi, e soprattutto da prospettive assolutamente non coincidenti con quella osservabile dalla posizione del proprio corpo.

Nella ricchissima letteratura una collocazione di privilegio spetta alle ricerche del già citato Raymond Moody e del cardiologo Michael Sabom. Nelle relazioni raccolte da questi, per esempio, compaiono accurate descrizioni di operazioni chirurgiche, osservate dai pazienti stessi in N.D.E., per le quali sarebbero state necessarie precise conoscenze mediche. Il cardiologo americano, proprio perché iniziò la sua ricerca convinto di semplici spiegazioni neurofisiologiche, fece molta attenzione ai "riscontri oggettivi":

Di certo una persona non addetta ai lavori non avrebbe potuto sapere con precisione, e quindi descrivere, tutto ciò che accade in una sala di rianimazione nei drammatici frangenti in cui si lotta disperatamente per salvare una vita umana. Ero convinto che i cosiddetti ricordi visivi dell'ambiente circostante altro non fossero che frutto di fertili immaginazioni da parte dell'ammalato

Vennero fatte indagini di confronto, su comuni pazienti che avevano osservato le medesime apparecchiature mediche durante le loro degenze, ma le loro descrizioni risultavano alquanto inesatte e approssimative. Al contrario, quindi, di chi riteneva di aver visualizzato direttamente la scena in N.D.E. Vi propongo dunque alcuni esempi di percezioni extrasomatiche con conferme oggettive, da cui traggo una sintesi significativa. E' da tenere soprattutto presente che tutti gli elementi dei racconti hanno avuto precisi riscontri: vale a dire che quello che i pazienti hanno avuto modo di osservare durante la condizione "extracorporea" era reale. I primi sono tratti dalla letteratura (Michael Sabom). L'ultima testimonianza è inedita, ed è stata raccolta direttamente da chi scrive.

Ospedale dell'Università della Florida, dicembre 1977, impiegato di 66 anni, cardiopatico. L'interessante della sua descrizione è il fatto di non aver mai visto un defibrillatore prima di allora:

Mi trovavo in disparte, nei panni di uno spettatore indifferente. Presero il mio corpo e lo adagiarono su di un tavolo. Fu allora che il dottor A. incominciò a percuotermi il petto. Dapprima mi infilarono nel naso dei tubicini di gomma, poi mi poggiarono sul volto una maschera d'ossigeno che mi copriva completamente bocca e naso. Era leggera, di plastica color verde, e veniva premuta sul mio viso. Avvicinarono il defibrillatore, quello strumento munito delle ventose per lo shock elettrico. L'apparecchiatura presentava una scala graduata, era quadrata e sul pannello principale portava due lancette indicatrici, una fissa e l'altra mobile che si muoveva con estrema lentezza. Durante il primo movimento la lancetta oscillò tra un terzo e metà della scala graduata. Poi al di sopra della metà, infine attorno a tre quarti. Quella fissa, invece, si discostava solamente ogni volta che gli operatori manovravano l'apparecchiatura. Da quello strano oggetto si dipartivano conduttori elettrici a spirale che terminavano in due manopole, portanti dei dischi metallici. I medici me li premettero sul petto con una forza indescrivibile. Vidi il corpo sussultare violentemente.

Pochi giorni dopo, nel gennaio 1978 e nel medesimo ospedale, una guardia notturna di 52 anni, operazione al cuore:

Quando venni condotto in sala operatoria mi trovavo in una condizione di avanzata incoscienza, nella quale non potevo assolutamente rendermi conto di dove stavano conducendomi e dell'ambiente circostante. All'improvviso acquistai coscienza. Mi trovavo, del tutto desto, in una posizione rialzata di una cinquantina di centimetri al di sopra della testa, proprio come fossi stato una persona in più all'interno della sala. Rammento due medici che si affaccendavano attorno al mio corpo. Vidi il dottor C., almeno reputo sia stato lui perché ne scorgevo le mani enormi, praticarmi un'iniezione direttamente nel cuore in almeno due occasioni. La prima da una parte, la seconda dall'altra. Vidi il marchingegno utilizzato per tenere discosti i lembi dell'incisione nel torace; una serie di registrazioni rilevate da strumentazioni elettroniche; e tanti altri particolari. Ma non riuscivo a scorgere tutto... Nell'apertura toracica osservavo un'infinità di attrezzi e strumenti. Le pinze emostatiche erano dappertutto. Rammento di essermi stupito nel non vedere sangue sparso ovunque, come immaginavo sarebbe accaduto. In definitiva ero in grado di guardare ciò che mi stava capitando da una posizione sopraelevata, leggermente dietro la mia testa. Vidi le operazioni di cucitura; alcuni punti vennero applicati internamente, prima di procedere alla sutura della ferita. Lavoravano in due contemporaneamente, uno da una parte e uno dall'altra. A un tratto ebbero qualche difficoltà; superatele, il resto dell'operazione si svolse bene e velocemente. Il cuore non è come l'avevo sempre immaginato. E' più grande. Anche la forma non è quella che pensavo; sembra il continente africano, sebbene un po' più tozzo. In superficie era giallo e rosa... I medici diedero anche un'occhiata a una rete di vene e arterie sulle quali discussero a lungo in merito alla possibilità di creare o meno un by-pass. Sembrava che il problema consistesse in una vena molto larga che si gonfiava, ripiena di sangue, in modo anomalo, e che destava nei chirurghi una certa apprensione. Potevo sentirli discutere animatamente. Non avvertivo alcun dolore e non pensai neanche per un attimo di trovarmi sul punto di morire. Nutrivo nei confronti del dottor C. una fiducia illimitata. Vedevo nitidamente l'attrezzo di metallo, di acciaio lucido e sterilizzato, che serviva a tenere discosti i lembi dell'incisione... A un tratto mi praticarono un'iniezione direttamente in qualche parte del cuore...

Infine una donna di 42 anni, operata di ernia lombare del disco, nel settembre 1972:

All'improvviso, mi parve di destarmi, e mi trovai come fluttuante all'altezza del soffitto. Mi sentivo benissimo, anche se un po' eccitata al pensiero di poter osservare ciò che i chirurghi si apprestavano a fare. La camera era dipinta di verde. Una cosa mi meravigliò subito: il tavolo operatorio non si trovava parallelo a tutte le strumentazioni, bensì era relegato in un angolo. A un certo momento mi domandai come mai non soffrissi o non provassi alcuna pena osservando l'intervento sul mio corpo. I chirurghi erano due. Uno, come venni a sapere dopo, era il primario del reparto di neurochirurgia. Mi feci più vicino per osservare meglio. Grande fu il mio stupore nel vedere fino a quale livello di profondità avevano inciso la mia schiena, e quante attrezzature, pinze e divaricatori contornavano la ferita. Vidi raggiungere la colonna vertebrale con i loro attrezzi chirurgici, ed estrarre lentamente il disco con lunghe pinzette curvate all'estremità. A un certo momento qualcuno si lasciò scappare un'esclamazione di stupore. Tutti si voltarono. Chi aveva parlato, ricorrendo a termini tecnici che non ricordo, gridò che stava succedendo qualcosa e che la mia respirazione si era paurosamente rallentata. Pronunciò parole come "arresto" o "blocco". Poi quasi urlò: - Chiudere! - A quella specie di ordine tutti affrettarono le operazioni, tolsero pinze e divaricatori e presero a cucire in fretta l'incisione. Notai che incominciarono a suturare partendo dal fondo. Eseguirono la cucitura in modo così rapido da lasciarmi ancora una parte di ferita leggermente aperta sulla schiena. A quel punto mi recai nella hall. Mi trovavo certamente a ridosso del soffitto, perché distinguevo con chiarezza le lampade fluorescenti. Da questo momento in poi non rammento nient'altro, salvo il fatto di essermi finalmente destata in un'altra stanza. Accanto a me scorsi uno dei due medici che mi avevano operata; non l'avevo mai veduto prima, ma lo riconobbi subito.

Quindi un sunto della testimonianza raccolta personalmente dal sottoscritto, che ne ha registrato l'intervista. Riguarda Giancarlo T'anfani, nato a Roma il 14 giugno 1947, impiegato:

Era l'anno 1956, stavo facendo il bagno di fronte al Lido di Recco. Avevo una di quelle maschere che coprono tutto il viso. Mi trovo sott'acqua. Devo emergere in superficie per respirare ma, incautamente, non mi avvedo che c'è qualcosa sopra di me e urto il capo contro una barca. Subito nessuno si accorge che ho perso i sensi. Per fortuna, poco dopo un bagnino scorge una parte del mio corpo che fuoriesce dall'acqua e si precipita in mio soccorso, ma dopo circa dieci minuti di forzata apnea - sembra dalle successive ricostruzioni che sia trascorso questo tempo - il cuore non batte più. Una suora della clinica Santa Caterina, che si trova proprio sopra la spiaggia, assistendo alla scena, corre subito giù con una bombola d'ossigeno. Nel frattempo vengo trasportato nei locali del Lido e a quel punto arrivano mia madre, la suora e un medico. Mi viene praticata la respirazione, e dopo aver applicato l'ossigeno e aver eseguito i soccorsi, il cuore riprende a battere. Sono salvo. Ma eccoci al "clou" dell'esperienza extracorporea. Nel momento in cui entra mia madre, io osservo tutta la scena. Mi trovo dalla parte opposta della stanza e vedo, come se mi trovassi esattamente alle sue spalle, mia madre svenire, la suora arrivare con la bombola di ossigeno e il mio corpo sdraiato, completamente nudo, molto scuro, sul lettino. La visione dura poco, forse circa venti secondi, e termina quando la suora con la bombola inizia a lavorare intorno al mio corpo.

Nell'àmbito della casistica N.D.E. sono descritte anche esperienze più difficili da accettare, pur da chi si professa osservatore di ampie vedute. Per esempio la visione di eventi futuri: ciò che in parapsicologia viene classificato come premonizione e precognizione. Il testimone George Dean, tra gli altri, ha precisato nei suoi scritti di aver osservato proiezioni anche di situazioni che poi in seguito gli sarebbero effettivamente capitate, che molti eventi da lui visualizzati erano già accaduti, ed era convinto che anche gli altri avrebbero dovuto realizzarsi. Della casistica abbiamo molte relazioni soprattutto di Kenneth Ring.

Altro, e ancor più sconcertante, potrei riportare: casi di ciechi che "vedono" perfettamente durante la N.D.E.; percezioni telepatiche dei pensieri dei presenti; condivisione tra due persone della loro esperienza di N.D.E.; eccetera.

Vi propongo, in conclusione, anche un caso inquietante. Si tratta di un'esperienza riferita a Raymond Moody, dopo una sua conferenza ai medici della base militare di Fort Dix (New Jersey):

Ero gravissimo, in punto di morte per dei problemi di cuore, e contemporaneamente, in un altro reparto dell'ospedale, mia sorella stava morendo di coma diabetico. Lasciai il mio corpo e mi spostai in un angolo della stanza, da dove vedevo tutto dall'alto. Improvvisamente, mi trovai a chiacchierare con mia sorella, che si trovava lassù insieme a me, e alla quale ero molto legato. Eravamo nel pieno di una bella conversazione su quel che accadeva laggiù, quando lei cominciò ad allontanarsi. Cercai di seguirla, ma lei continuava a dirmi di restare dov'ero. "Non è la tua ora - mi disse. - Non puoi venire con me, perché non è ancora il momento". E cominciò a retrocedere lungo un tunnel, lasciandomi solo. Quando mi svegliai, dissi al medico che mia sorella era morta. Dapprima negò, ma poiché insistevo, mandò un infermiere a controllare: come ben sapevo, mia sorella era morta.

L'approccio alla fenomenologia può essere limitato dal voler seguire metodi scientifici di stampo galileiano da una parte, e concetti metafisici e religiosi dall'altra. Le ferree dicotomie corpo/anima, mente/spirito, scienza/fede e simili, certamente non sono di aiuto agli studiosi che si impegnano ad affrontare con mente aperta, scevra di preconcetti e di condizionamenti ormai millenari, uno studio che può venir definito a pieno titolo "di frontiera". Una ricerca che sembra indicarci come alcune funzioni superiori della psiche possano apparire "esterne" rispetto alla struttura neurofisiologica. Funzioni che quindi non necessariamente debbano soccombere con il decesso del soma.

Non più il vecchio muro di Berlino è la linea di demarcazione tra la vita e la morte, ma frontiere più aperte. Come più libere dovrebbero essere le frontiere dei dogmi accademici.

 

Riferimenti bibliografici

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