La Rezza Via

Seguo la sua esortazione e vi segnalo anch'io che Antonio Rezza dal quattro di ottobre sarà all'Out Off di Milano con il suo spettacolo TRILOGICA (che di logico avrà ben poco). Lo faccio perchè adoro AR e credo che ogni suo spettacolo sia un'esperienza da non farsi sfuggire. Farà uno spettacolo diverso ogni settimana, da Pitecus a IO fino a Fotofinish.

Ditemi se sbaglio

Qualche giorno fa, sfogliando un settimanale culturale, ho letto queste parole:

Assegnare il titolo di disco dell’anno a settembre forse è prematuro, (…). In questo caso, però, vale la pena di sbilanciarsi “Life In Slow Motion” di David Gray è quanto di più riuscito mi sia capitato di ascoltare negli ultimi mesi. (Seguono inutili giustificazioni). Un cd perfetto, dalla melanconica “Alibi”, al coinvolgente singolo “The One I Love”, dall’ottima “Ain’t No Love” a “Now & Always” e “Disappearing World” in cui tutto il talento di Gray emerge in maniera prorompente.

Avete letto? Ecco, ora dimenticate tutto, forza. È un pezzo farneticante scritto per i fan dell’ultima ora. Non c’è una sola parola che corrisponda alla mia verità (come direbbe papa Ratzi). Non ce la faccio, non riesco ad essere d’accordo con la tesi strombazzata in questo articolo che per benevolenza non vi ho trascritto interamente (mi dovreste ringraziare). Al di là dei toni trionfalistici mi chiedo che cosa abbia ascoltato (o che cosa abbia bevuto) il giornalista, che peraltro nemmeno si firma. Il disco di David Gray è noioso e monocorde. Le canzoni non si segnalano per originalità nella struttura, per ricchezza negli arrangiamenti e nemmeno la voce di David mi sembra particolarmente valorizzata. Certo è un disco omogeneo, ma non ci vuole molto visto che le canzoni sono tutte uguali.

Le pupille a spillo

Parcheggio l’auto sotto casa. Sono le cinque del mattino e la luce della cucina è ancora accesa. Teresa mi sta aspettando e la cosa non mi tranquillizza affatto. Cerco di riprendermi un po’. Salgo le scale ed entro in casa con un sorriso posticcio. Teresa si avvicina, non mi chiede nemmeno più dove sono stato, mi guarda e dice che se voglio salvare la famiglia devo accettare le sue condizioni.
- Avanti sentiamo.
- Domani andiamo insieme dal medico e ti fai le analisi.
- Le analisi di cosa?
- Non fare il santo, hai due occhi che sembrano le fessure di un bancomat.
- Ho solo bevuto qualche bicchiere.
- Le pupille a spillo le so riconoscere. Matilde sta crescendo e io non voglio che veda suo padre in queste condizioni, perciò o ti dai una ripulita oppure io e la bambina andiamo da mia madre.

Gli studi medici sono tutti uguali, sale anonime, una pioggia di diplomi incorniciati, riviste inutile sul tavolino della sala d’aspetto e una selva di sguardi tristi.
Il dottor Garitta mi fissa come se fossi il peggiore dei criminali.
- Allora signor Carnevali le faremo le analisi delle urine. Lo screening droghe rileverà tracce di metadone, barbiturici, oppio, benzodiazepine, anfetamine, cocaina e cannabis. Nessuna sostanza stupefacente ci può sfuggire. È un quadro completo che, se non ha nulla da nascondere, sarà di sola cornice.
Non rispondo, non per maleducazione o altro, è che i medici quando parlano, e anche quando scrivono, fanno di tutto per non farsi capire. Guardo Teresa con un timido sorriso.
- Grazie dottore è davvero gentile, dice.
L’infermiera, che non deve avere di più di venticinque anni, mi accompagna in bagno. La porta del gabinetto rimane semiaperta e l’infermiera mi fissa la schiena. Ho campo libero. Non riesco a pisciare tanta è l’incredulità. Apro il rubinetto, immagino delle cascate e finalmente mi libero. Sfilo dal polsino della camicia una piccola pipetta Pasteur e aggiungo all’urina una goccia di detersivo per i piatti. La dritta viene da un amico farmacista che ogni tanto si spara qualche spada in compagnia.
- Una goccia di detersivo per i piatti nelle urine denatura gli anticorpi delle droghe e non è più possibile rintracciarne la presenza, disse una sera mentre mi metteva in mano una pipetta.
Non aveva torto, le analisi hanno dato esito negativo. La famiglia è salva e la mia vita resta in pericolo.

One Nation One Station

Prendo una breve pausa da una mattina d’intense traduzioni dal tedesco. Vado in cucina a bere un bicchiere di succo d’arancia. Ritorno in camera e compio un gesto automatico: accendo la radio. Per una balorda disgrazia la frequenza non è come al solito su RP, ma è su radio deejay. Non cambio subito perché sento la voce di Enrico Ruggieri, che è in radio per promuovere il nuovo disco “Amore e Guerra”. Non mi piace Ruggieri, soprattutto quando canta, ma è pur sempre meglio della solita camicia nera che ha davvero rotto le palle. Parla dell’Inter, della Milano che conta (la sua) e della sua famiglia. Una noia mortale. Mandano alcune delle sue canzoni che mi astengo dal commentare per ovvie ragioni di decenza. Tra una cazzata e l’altra parte alle 11.45 “Hoppipolla” dei Sigur Ros. Rimango impietrito. Miracolo, su ‘one nation one station’ passano i Sigur Ros. Che cosa succede alla programmazione musicale del calderone di via Massena? Non è la fascia oraria adatta ad una proposta di qualità! Purtroppo c’è poco da sorridere, non siamo di fronte ad una svolta editoriale e nemmeno ad un drastico cambiamento dei gusti musicali degli ascoltatori di quella radio cresciuti a pane e Pausini. Finisce la canzone e quello scienziato di Linus se ne esce con la classica lamentazione da tardo quarantenne frustrato: “Ma perché i giornalisti musicali – quelli delle riviste di un certo tipo – si ostinano a recensire dischi di gruppi sconosciuti? Vogliono farci sentire a tutti i costi degli scemi?”. Secondo me, Linus non deve fare nessuno sforzo particolare per sentirsi scemo, gli riesce bene anche senza leggere le recensioni musicali. E poi che senso avrebbe perdere del tempo a recensire dischi di merda che in fin dei conti sono gran parte del mercato discografico ad alto rendimento?

Con questi mezzi d’informazione siamo in una botte di ferro. La sinistra vincerà le elezioni. Poi al governo avrà sempre i soliti problemi da risolvere. Il primo sarà come fare a distinguersi dalla destra.

Pacs a tutti voi


Un brindisi alle coppie omosessuali. PROST!!!

Kant(a) che ti passa



La maggioranza di voi continua a far finta di nulla, malgrado ciò, il ventuno di settembre rimane un giorno molto particolare. Quasi come se fosse Natale. Per questo ho voglia di parlarvi di un argomento di capitale importanza. Vi allieterò la giornata con una dotta dissertazione in merito all'esposizione del concetto di tempo in Kant, paragrafo cinque dell'estetica trascendentale: ecco, oggi sono trentuno. Come passa il tempo. Cazzo.

Sesso Sesso Sesso!!!


The Sky's Gone Out


Rendo omaggio a lei, a lui e un po' anche a loro.

La tartaruga e la pallina

C’era una volta una bellissima tartaruga che camminava lenta lenta sul suo sentiero, tirando fuori la testolina dal guscio molto, ma molto, raramente. Per questo nessuno, nemmeno lei, si rendeva conto della bellissima testolina che aveva.
Un giorno, una pallina annoiata, girovagando per terreni a lei sconosciuti, inciampò contro la tartaruga. La pallina incuriosita, dopo essersi scusata, cercò di attaccare bottone per scoprire chi si celava dietro quel guscio.
Per tutta risposta, ricevette solo un grugnito. La pallina offesa, rotolò via cercando qualcosa d'altro che potesse accendere il suo interesse.
Passarono anni, senza che la vita per loro cambiasse. Fino a quando….
Un mattino caldo d’estate, la pallina scorse in lontananza la tartaruga. Eh sì! Non c’erano dubbi, era la stessa che aveva incrociato qualche anno prima. Chissà dove stava andando. Non fece a tempo ad interrogarsi a lungo, perché un attimo dopo la tartaruga si fermò allo stesso incrocio della pallina. La pallina pensò che la tartaruga avrebbe proseguito il cammino su un altro sentiero, e mai avrebbe immaginato che la tartaruga avrebbe intrapreso lo stesso percorso della pallina, ma fu proprio così.
La cosa che sorprese di più la pallina, fu che proprio la tartaruga iniziò a parlare con lei, e come se non bastasse la pallina si rese conto che si trattava di un bellissimo rugo e in più anche simpatico!
Si incamminarono così, tra una risata e l’altra, sullo stesso sentiero.
In men che non si dica erano irrimediabilmente innamorati l’uno dell’altra. Purtroppo però la pallina non osò farsi delle falsi illusioni, visto che le rotondità come lei non erano l’ideale di bellezza e inoltre il bellissimo rugo non gli aveva mai fatto capire nessun interesse da parte sua.
D’altro canto il rugo pensò che la pallina avesse altri interessi e quindi non fece niente per conquistare il cuore della pallina, anche se questo ormai già gli apparteneva senza che lui lo sapesse. Così si ritrovarono alla fine del sentiero comune. Si dovevano dividere e proseguire ognuno per la propria strada. Non fu facile visto il legame invisibile che li univa. Misero quindi in atto delle strategie per rivedersi. Queste funzionarono talmente bene, che dopo qualche settimana il rugo decise di baciare la pallina.
A quel punto tutte le formichine che seguivano la loro storia dalle stelle si misero a ballare felici. Ed ancora oggi ricordano ogni anno quella sera, organizzando un’enorme festa trasferendosi tutte sulla luna.
Ma la storia non finisce qui. Infatti, la pallina ed il rugo erano talmente speciali che non si accontentarono di vivere per sempre felici dopo quella sera. Nonostante quella dichiarazione, erano entrambi talmente presi dalle loro insicurezze, che non riuscirono a lasciarsi andare all’amore.
Passarono così delle settimane prima che i due riuscissero a vivere insieme serenamente. Ci fu bisogno dell’intervento delle formiche. Scesero tutte insieme sulla terra e fecero la danza dell’amore. Quando finalmente la pallina e il rugo iniziarono a sentire quella strana cantilena, si lasciarono dubbi ed insicurezze alle spalle e iniziarono a vivere la loro bellissima storia d’amore. E così vissero felici e contenti (fino all’arrivo di tantissimi rughi-pallini/e).

La sconfitta dei sobri

L’estate era iniziata da oramai due mesi ma il sole tardava ad arrivare. Pioveva incessantemente dall’inizio di giugno e la speranza di trascorrere un’estate degna di questo nome si faceva sempre più sbiadita. Tutte le previsioni parlavano di un miglioramento, e noi cominciavamo a non crederci più.
Abitavamo tutti in via degli Esposti, a quasi mezz'ora di bicicletta dal centro. Ho sempre pensato che il nome della via non fosse solo frutto del caso, ma una sorta di anticipazione del nostro destino. Non conoscevamo il significato della parola timidezza. Io, Mazzotta e Francesco facevamo gruppo da sempre. Mazzotta era un soprannome dall'origine dubbia, lui sosteneva che fu suo nonno il primo a chiamarlo in quel modo, mentre se lo portava dietro a tagliar legna nei boschi fuori città. A noi quel nome piaceva, dava l'idea di un ragazzo deciso, abile con le mani. Nacque a Pretoria da padre piemontese e madre inglese. Per uno strano scherzo del destino, Mazzotta non ereditò alcuna somiglianza fisica dai suoi genitori; l'impollinazione genetica nelle primavere sudafricane lo rese un autentico moresco, con incolmabile dispiacere per l’intera famiglia. I capelli di un nero corvino si arrotolavano perfettamente uno sull'altro, una carnagione olivastra faceva da sfondo a due occhi gravidi d'inquietudine. In compenso Mazzotta possedeva un autocontrollo degno del più zelante gerarca nazista in sede di tortura:Sono l'unico in grado di fissare negli occhi una ragazza in topless!!”, ripeteva spesso nel tentativo di stabilire un ordine gerarchico. Aveva ragione, Francesco ed io non avremmo mai resistito al richiamo della carne, ne subivamo il fascino, anche se in maniera differente.

Francesco era il quarto figlio di una famiglia veneta, pelle chiara, lunghi capelli fulvi, ai piedi sempre i soliti stivali neri a punta, e una curiosità irritante incollata a quel suo modo di gesticolare. Ciò che ai miei occhi lo rendeva simpatico era più che altro una collezione di film porno incredibile: Spingi Gonzales, Banana Meccanica, Una porcona per due, Sbatman, Biancaneve e i sette negri, I soliti colpetti e Il profumo del maschio selvatico. Alla nostra età, un'alternativa rassicurante.

Io ho trascorso gran parte della mia infanzia nella macelleria di mio zio Massimo, lo aiutavo, o forse lui faceva di tutto per farmi sentire indispensabile. Quel periodo lasciò tracce indelebili sul mio corpo. Mangiavo carne quasi tutti i giorni, riuscivo a farlo anche a colazione.

Nel quartiere non eravamo ben visti. Avevamo combinato qualche casino. Niente di particolarmente delittuoso: occupazioni di stabili dismessi e piccoli furti. Ci costò tutto in termini di reputazione, esposti ad ogni tipo di diceria perfida e infondata. Le signore della zona tuttoilfangominutoperminuto sole e senza fantasia, trovavano tutto ciò molto gratificante. Indossavano, tronfie, vestiti larghi a fiori dai colori cangianti, i visi solcati da rughe talmente profonde che richiamavano la venatura di un vecchio vinile di Leon Country. Al centro dei loro volti sorrisi scomposti con radi denti di catrame.
“Questi ragazzi li ho visti crescere, mai avrei pensato che finissero sulla strada a spacciare droga”.
“Chissà che pene faranno passare ai loro genitori, poveretti, e pensare che non mancano una domenica in chiesa”.

Non posso negarlo, la nostra esposizione è stata assolutamente voluta, pianificata. Facevamo tutto quello che ci passava per la testa senza troppi timori. La velocità delle nostre azioni era l'unica regola. Le mosse erano studiate in dettaglio. Mazzotta era la mente del gruppo: “Basta con le chiacchiere è arrivato il momento di agire”, gridava quando non vedeva abbastanza convinzione nei nostri sguardi.
Se qualcosa andava storto, la corsa s’impadroniva delle nostre gambe e dei nostri polmoni. Mentre scappavamo a volte, mi veniva voglia di fermarmi, di stare fermo per un po', come in attesa della mia anima ormai rimasta troppo indietro.
“Che cazzo fai Sandro vuoi finire dritto in bocca a questi pazzi scatenati, assetati di vendetta”, mi avrebbe gridato Mazzotta, sputando sudore. A volte più che una fuga dai bempensanti mi sembrava un'evasione da noi stessi. Probabilmente era quello meno convinto dei tre, Mazzotta e Francesco si sentivano vivi solo in queste situazioni. Io no. Non era un fatto assoluto.

L'asfalto fumava e l'afa ci stringeva la gola. Il tempo aveva finalmente cambiato direzione. Per la nostra sopravvivenza psicologica s’imponeva un rinfresco. Fu un attimo, con le nostre biciclette - naturalmente rubate - arrivammo nella zona dei colli intorno alla città. Al numero diciotto di via dei Pellegrini abitava, in una villa fantastica, uno degli avvocati più in vista di tutta la provincia. Un vero ladro, invisibile alle autorità, sempre sorridente e ben vestito. L’ammiraglia non c’era. L'intesa fu massima, raggiunta con un solo sguardo. Scavalcammo il cancello e ci tuffammo in piscina con tutti i vestiti. Mazzotta questa volta non curò come al solito i dettagli. Non tenemmo conto dei cani, due indiavolati pastori bergamaschi. Riuscimmo a scavalcare, ma con i vestiti tutti pieni d'acqua fu un'impresa pedalare come d'abitudine. Il panico fece il resto. Ci eliminò il fiato. Oltre ai cani arrivarono i vicini - allarmati dal casino generale - armati con mazze da baseball. Ci sbarrarono la strada alla fine della via. Erano in due ma gridavano come un esercito pronto a riscattare la perdita dei compagni. Non so per quale strana ragione si concentrarono solo su Mazzotta - forse per essere sicuri di prenderne almeno uno. Io e Francesco riuscimmo a fuggire. Quei figli di puttana lo presero a calci e pugni, ripetutamente, con le mazze sfasciarono - fortunatamente - solo la bicicletta.
“La prossima volta ti bruciamo insieme alla tua bicicletta del cazzo!!”, gridarono quei bastardi, mentre Mazzotta si toccava il volto per controllare che tutto fosse ancora apposto. Era una maschera irriconoscibile: perse molto sangue, l'uso della mano destra e per molto tempo anche la voglia di farsi vedere in giro. Scomparve soprattutto quel senso di appartenenza, che fino a quel momento era stata la nostra religione inconsapevole.
Ad essere sincero né io né Francesco ci sentimmo in colpa per quel suo fare caparbiamente forastico. Si rifiutava di rispondere al telefono, obbligava la madre ad inventare scuse improbabili, si faceva negare in tutti i modi. Tutto faceva sembrare ad un colpo di spugna netto, niente più bravate.

Io e Francesco passavamo i pomeriggi al bar del quartiere, un crocevia di apolidi sempre in movimento, malati inguaribili di dromomania. Potevi non vedere qualcuno per anni e salutarlo al suo ritorno come se nulla fosse successo, questo ci faceva sentire a casa. Conversare con quegli uomini, di ritorno da altri luoghi e da altri tempi, era quasi come partire, senza doversi preoccupare di nulla.
Franco chiamò il suo buco Bar Bituriko in onore di sua zia distrutta da una depressione endogena, gonfiata da una quantità spropositata di barbiturici. Con lei aveva sempre avuto un rapporto controverso, lui non doveva nutrire particolare orgoglio per quel legame di parentela. Da qualche anno viveva sola. Aveva perso il marito, deceduto in un incidente stradale insieme all'unico figlio, dopo una vita passata insieme. Da quel momento in poi l'onda depressiva si fece, per lei, sempre più oppressiva. La vedevamo spesso in giro con il suo barboncino per le strade del centro: le braccia immobili sempre attaccate al tronco, un'andatura tanto decisa quanto innaturale e una mimica facciale scomparsa nelle tenebre della malattia.
Al Bitu si beveva qualsiasi cosa e in quantità variabili, tutto dipendeva dal credito che il banco poteva sopportare: Porto Cobbler, Singapore Sling, Rob Boy, Acapulco Gold Colada e soprattutto un cocktail da brivido: il Buddha Punch, un'autentica miscela esplosiva. L'alcol per noi non era una bevanda ma un'esperienza, ci permetteva di cambiare orizzonte e in quel quartiere non aspettavamo altro. La vecchia guardia del bar ci guardava con malcelata compiacenza e con un pizzico di compassione. Portavano sulle spalle i colori dei loro viaggi ed ora si gustavano in pace calici interminabili di vino rosso. Spesso Franco si univa al loro tavolo e metteva a disposizione un'altra bottiglia, in sottofondo la voce nostalgica di Piero Ciampi. La vita al Bitu scorreva da qualche mese senza particolari novità.
Le notizie su Mazzotta si fecero sempre più rare, nessuno si esponeva con sicurezza sul suo destino. Questa sensazione di calma apparente scomparve di colpo agli inizi di maggio.

La sua apparizione destò subito qualche sorriso, soprattutto per il suo aspetto fisico. La circonferenza del suo ventre sembrava interminabile. Niente a che fare con quel ragazzo dal fisico atletico e scattante che pedalava con tanto vigore da fare invidia perfino ad un professionista. Nell’era dell’economia globale la sua pancia rubiconda sembrava racchiudere - in uno spazio relativo - tutti i valori professati dai moderni guru liberal-catodici.
“Cazzo Mazzotta di nuovo da queste parti. Non ci posso credere mi sembra quasi una visione. E’ quasi una gravidanza che non ti fai sentire e gli effetti sono incredibili. Chi è il padre?” dissi, fissandolo senza timori.

“Che bella accoglienza Sandro, io sarò ingrassato ma la tua ironia non è cambiata per nulla. Il solito caterpillar che ti trapassa le palle sempre con un sorriso e senza mai chiederti scusa. Cosa ti danno da bere in questo buco, candeggina? Sei capace di farmi rimpiangere la terra d’Albione in soli trenta secondi”.

“Vecchio maiale te ne sei stato in panciolle in Inghilterra senza degnarti di informare la tua vecchia famiglia lasciata marcire al Pilastro”.

Con il primo buddha appoggiato alle labbra Mazzotta rispose: “Che cosa cerchi delle scuse? Sai che non sono il tipo. Ho preso solo i miei quattro stracci e me ne sono andato da questa città per incrociare occhi meno disperati dei vostri. È solo sete di esperienza. Viaggiando ti rendi conto che le differenze culturali e di costume non sono altro che una cornice preziosa, che ti permette di vedere e di conoscere ciò che accomuna tutti gli esseri umani.

“Sarebbe” gli domandai.

“Ti potrà sembrare banale ma è proprio la vita che ci unisce, le esperienze quotidiane, i fatti. Avevo voglia di vedere la mia vita e quella degli altri a Londra. In fondo conosci da sempre la mia predilezione per quella città. È lei la nostra bàlia, anche se ci ha allevato a distanza. L’ardore politico, la musica, la voglia di evasione, la sperimentazione anarchica. Per noi, nasce tutto in quelle strade”, disse Mazzotta con tratti di tranquillità sempre più visibili sul viso.
“Senti ma a parte questa tua voglia di diventare il nuovo Ian Curtis della via Emilia che cosa hai combinato a Londra”.

“So che farai molta fatica a crederci, ma mi sono ingegnato in piccoli lavori: aiuto cuoco in un ristorante cinese, galoppino in una lavanderia decrepita di un ospizio nella zona nord della città; ma la vera sorpresa è stata una folle convivenza con una ragazza marocchina”, l’emozione di Mazzotta si leggeva ancora chiara negli occhi.
Guardandolo sempre più incredulo gli dissi:
“Ma che le hai dato per convincerla uno dei tuoi mitici cake infarcito di thc?”.
“Vedo che ne conservi ancora un buon ricordo”, mi disse sogghignando.
“Hai presente, Sandro, quelle classiche bancarelle piene di monili, collane d’ambra, anelli scolpiti in argento, incensi, insomma il classico paradiso per un freak nostalgico, nei pressi di Covent Garden? Ecco, lei stava dietro una di queste bancarelle, bellissima con una cascata di capelli castani e due occhi celesti da far uscire il cuore dalla gabbia toracica. Oltre al suo viso splendido mi colpì anche una di quelle collane d’argento. Da buon italiano con i miei occhiali da sole fissati sulla fronte e la mia felpa verde avvolta alla vita, cominciai a contrattare il prezzo. Non potevo permettermi di spendere venticinque sterline per una collana, ne avevo poco più di cinquecento e dovevo camparci il più possibile. Così le chiesi di farmi un prezzo rispettoso per entrambi. Si rese subito conto che non ero il solito turista pronto a farsi spellare. Alla fine me la portai via per poche sterline. Da quel momento fu un susseguirsi di incontri e nel giro di un mese mi ritrovai a vivere in casa sua. Oltre alla collana mi portai via anche il cuore di Jasmine”.
“Sei sempre il solito sciacallo, sei riuscito subito a farti mantenere anche all’estero. Visto che avevi realizzato il tuo sogno da vecchio maudit come mai hai ripreso la strada di casa”.
I brindisi si susseguirono ad un ritmo compulsivo. Puntuali come sempre, l’ulcera e il suo arrogante fastidio, rovinarono l’atmosfera.

Perso in un fiume di alcol Mazzotta riprese il suo racconto: “Sono tornato per evitare di finire il resto dei miei giorni in carcere. Jasmine è arrivata in Europa da
Chechaouen, grazie all’aiuto di un ceffo marocchino che organizzava viaggi clandestini fra la costa marocchina e quella spagnola. Scopersi quasi subito che aspettava un figlio. Sull’identità del padre mai una parola, un segreto invalicabile. Una volta avuto il bambino iniziò a soffrire di strane nevrosi. In poco tempo divenne completamente intrattabile. Al bambino ci dovevo pensare io, era una difesa ad oltranza, lei appena lo vedeva lo metteva nella vasca e iniziava a pulirlo fino a rovinargli tutta la pelle. Naturalmente non riusciva più a stare tranquilla nemmeno dietro la sua bancarella. La sua ossessione per i germi divenne giorno dopo giorno sempre più insopportabile. Quando tornavo dal lavoro mi obbligava a spogliarmi in garage, mi faceva fare la doccia sul posto e come se non bastasse mi copriva di odiosi e puzzolenti disinfettanti dalla testa ai piedi. La spesa per quei cazzo di antisettici salì di mese in mese, fino ad arrivare a cifre da capogiro: duecento sterline al mese. Dopo mesi di torture cominciai a sognare di soffocarla dentro in una vasca ricolma di sterilizzanti. La scelta fu obbligata: decisi di prendere di nuovo i miei quattro stracci – questa volta lindi e profumati – e di fare ritorno in Italia”.
“Niente male come soggiorno”, dissi.

“Franco dammi ancora un buddha”, disse Mazzotta.
“Se vai avanti di questo passo un bel
ground zero nel cervello non te lo leva nessuno”, rispose Franco.
“Franco ti pago, non farmi la filippica proprio ora, non ne ho bisogno”. Mazzotta fece un sorso e mi disse: “Ma che fine a fatto quel delinquente di Francesco?”, appoggiò il suo bicchiere ancora pieno, fece un respiro profondo, la sua testa crollò di netto sul bancone. Chissà forse Franco aveva ragione. Per una volta, poteva ascoltarlo. Io mi affrettai a finirgli il buddha. Queste sono occasioni.

Il cielo è pieno di stelle, la terra è piena di donne

Arrivo pieno di buone intenzioni. Ho parecchio da fare e il tempo stringe. Oggi non smonto finché non finisco tutto. Parole sante. Non ho rispettato alcun proposito.
Per tutto il pomeriggio sono stato turbato da pensieri strani. A volte incomprensibili più spesso intensi. Come travolto da squarci di vita. Ad ogni ricordo una vampata di calore. La discussione è nata grazie a Simo e, quando lei è partita, è andata avanti da sola nella mia testa.

Ad un certo punto il computer smette di funzionare. La rete dell’Università sembra in panne. Mi alzo per chiedere se anche agli altri non funziona più niente. Mi giro. Guardo la ragazza che sta dietro di me. Il busto è proteso in avanti. Immersa nelle sue letture non si accorge nemmeno del mio sguardo. Io le guardo i seni. Rimango di sasso di fronte a tanta grazia. Non mi aspettavo una visione del genere. Si vedono benissimo. Sono bellissimi, turgidi, giovani e di dimensione ideale. Mi colpiscono molto e in qualche modo mi vergogno per quel mio sguardo fisso. Sento una stretta allo stomaco.

Adesso mi rendo conto che quello che mi è rimasto impresso non sono tanto i seni quanto le piccole macchie rosse sparse sulla pelle diafana. Quelle tracce di emozione incontrollata mi fanno impazzire. Amo la pelle bianca. Amo le macchie rosse. Amo quando le cose sfuggono al nostro controllo.

I am a winner now

Lo dicevo qualche qualche giorno fa che a me questo disco piace da matti, ma non pensavo facesse tanta strada.
Spero che questo premio non faccia del male all'anima tormentata di Antony (detto Lorenzo ma deché aooohh). Io che ho un certo stile nel pensar male, lo confesso, l'ho pensato. Si è insinuato nella mia testolina il dubbio che ora si possa adagiare sui risultati raggiunti. Che non riesca a reggere la pressione del pubblico e della casa discografica. Che faccia un terzo disco come questo. Oddio nooo!! In tempi di disgrazie facili un grido d'allarme ci vuole: Scappa dai premi Antony, scappa finché sei in tempo!!

Quando la realtà si presenta come l'unica verità, mente

Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunciare a quelli che ha.

La rinunzia sarà graduale, iniziando coi meccanismi, che saranno aboliti tutti, dai più complicati ai più semplici, dal calcolatore elettronico allo schiaccianoci.
Tutto ciò che ruota, articola, scivola, incastra, ingrana e sollecita sarà abbandonato.
Poi eviteremo tutte le materie sintetiche, iniziando dalla cosiddetta plastica.
Quindi sarà la volta dei metalli, dalle leghe pesanti e leggere giù giù fino al semplice ferro.
Né scamperà la carta. Eliminata carta e metallo non sarà più possibile la moneta, e con essa l’economia di mercato, per fare posto a un’economia di tipo nuovo, non del baratto, ma del donativo. Ciascuno sarà ben lieto di donare al suo prossimo tutto quello che ha e cioè – considerando le cose dal punto di vista degli economisti d’oggi – quasi niente. Ma ricchissimo sarà il dono quotidiano di tutti a tutti nella valutazione nostra, nuova.
Saranno scomparse le attività quartarie, e anzitutto i grafici, i PRM, e i demodossologi.
Spariranno quindi le attività terziarie, e poi anche le secondarie. Le attività di tipo primario – coltivazione della terra – andranno man mano restringendosi, perché camperemo principalmente di frutti spontanei.
È ovvio che a questo si arriverà per gradi, e non senza arresti o inciampi.
Agli inizi formeremo appena piccole comunità, isolette sparute in mezzo allo sciaguattare dell’attivismo, e gli attivisti ci guarderanno con sufficienza e dispregio. Per parte nostra, metteremo alla porta con ferma dolcezza i rappresentanti di commercio, gli assicuratori e i preti. Avremo eletto per nostra dimora le zone meno abitate, cioè quelle che hanno clima migliore.
A poco a poco vedremo le nostra isola crescere, collegarsi con altre isole fino a formare una fascia di territorio ininterrotto. E un giorno saranno gli altri, gli attivisti, a ridursi in isola; poche decine di longobardi febbrili aggrappati a rotelle e volani, con gli occhi iniettati di sangue. Forse non riusciremo mai a vincerli alla nostra causa, e resteranno lì a correre in circolo, a firmarsi l’uno con l’altro cambiali, a esigerne il pagamento. Ridotti così in pochi, man mano che i meno saldi muoiono d’infarto, formeranno un cerchio sempre più angusto e rapido, fino a scomparire da sé. E noi li staremo a guardare dall’esterno, sorridendo. Il lavoro si sarà poi ridotto quasi a zero, vivendo dei frutti spontanei della terra e di pochissima coltivazione. Saremo vegetariani, e ciascuno avrà gli arredi essenziali al vivere comodo, e cioè un letto.
Il problema del tempo libero non si porrà più, essendo la vita intera una continua distesa di tempo libero.

Scomparsi i metalli, gli uomini avranno barbe fluenti. Scomparse le diete dimagranti e i pregiudizi pseudoestetici, le donne saranno finalmente grasse. Scomparsa la carta, non avremo né moneta né giornali né libri. Perciò, trasmettendosi le notizie di bocca in bocca, noi non ne sentiremo né di false né di superflue. Senza libri, la letteratura dovrà tramandarsi per tradizione orale, e la tradizione orale non potrà non scegliere i soli capolavori.
Vedremo automobili ferme per via, senza più carburante, e le abbandoneremo ai giochi dei bambini, ai quali però nessuno dovrà dire che cosa erano, a che cosa servivano quelle cose un tempo.
Ovunque cresceranno vigorose erbe e piante, in breve l’asfalto si tingerà tutto di verde, con immediato miglioramento del clima. Anche le zone umide e nebbiose diventeranno abitabili. Gli animali domestici passeggeranno liberi e robusti in mezzo a noi, galline, dromedari, pipistrelli, pecore eccetera.
Cessato ogni rumore metalmeccanico, suonerà dovunque la voce dell’uomo e della bestia. Liberi da ogni altra cura, noi ci dedicheremo al bel canto, ai lunghi e pacati conversari, alle rappresentazioni mimiche e comiche improvvisate. Ciascuno diventerà maestro in queste arti.
Non essendovi mezzi meccanici di locomozione, ci sposteremo a dorso d’asino o a piedi, e questo favorirà l’irrobustimento dei corpi, con immediati vantaggi fisici ed estetici. Grandi, barbuti, eloquenti, gli uomini coltiveranno nobili passioni, quali l’amicizia e l’amore.
Non esistendo la famiglia, i rapporti sessuali saranno liberi, indiscriminati, ininterrotti e frequenti, anzi continui.
Le donne spesso fecondate ingrasseranno ancora, e i bambini da loro nati saranno figli di tutti e profumeranno la terra.
Noi li vedremo venire su forti e chiari, e li educheremo alle arti canore e vocali, alla conversazione, all’amicizia, all’amore e all’intercorso sessuale, non appena siano in età a ciò idonea. Andateci piano, ragazzi, che tanto ce n’è per tutti.
Nell’attesa che ciò avvenga, e mentre vado elaborando le idee teoriche di questo neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio, io debbo difendermi e sopravvivere.

Leggete questa perla è quanto di più memorabile abbia mai prodotto la letteratura italiana.

E tu saresti una persona sensibile?

Sì sono una persona sensibile. Ma in modo diverso rispetto a come si intende normalmente la cosa. Che quando si dice È una persona sensibile, lo si dice generalmente con due significati, uno positivo, uno negativo. Quello positivo, significa una persona dotata di una certa acutezza di spirito, uno che capisce le sfumature degli avvenimenti e dei comportamenti senza bisogno di parole o atti inequivocabili. Quello negativo indica una persona debole, incapace di affrontare i problemi che nascono dai rapporti interpersonali. E tu, invece? Io, un’altra cosa. Si dice, di uno che ha molto studiato o molto viaggiato, che ha la mente aperta. Ecco, una persona sensibile secondo me, è una persona che ha il sentimento aperto, che ha una forte reazione sentimentale a quello che gli succede intorno. Questa persona, se vuole vivere in una società, deve imparare prima di tutto a essere flessibile. Perché quando il sentimento è aperto poi entra di tutto. Allora, tenere tutto dentro, non si può. Che come ci sono dei pensieri talmente ossessivi che se restano nella tua testa ti possono far impazzire, così, ci sono dei sentimenti talmente strazianti che se li tieni dentro ti si apre la pancia.

Queste parole illuminate appartengono a Paolo Nori, se la memoria non mi inganna le ho prese da Bassotuba non c'è.

Voi che siete delle persone sensibili da che parte state?

D'ora in poi


il 13 ottobre sarà un giorno speciale. Molto speciale.

Non ci sono più i ladri di una volta




Ho letto la notizia qui.
Non so cosa pensare se non: "Cazzo, se proprio dovete rubare andate nel parco dei divertimenti di quel pirla di Jackson". Facciamo tutti qualcosa.

Effetto speciale

Il respiro è affannoso, i contorni delle persone sfumati. Chi con gli occhiali, chi con un sogno appeso alla risposta di un terminale. Molti i libri familiari, ancor più quelli da leggere, tutta felicità a credito. Prendo Misto Maschio di Will Self. Tocco ma non trovo nulla.
- Mi spiace ma ho dimenticato il portafoglio, nessuno ha lasciato qualcosa in sospeso?
- Ma certo, come lo vuole, macchiato? Prenda Effe e esca alla svelta che non ho tempo da perdere.
Uscii dalla libreria con un bel mazzo di giornali, senza aver scucito una lira. Oggi le cose sono cambiate. Non solo per l’avvento dell’euro.

All inclusive (anche le lacrime)

Decidiamo di partire dopo lunghe ed estenuanti discussioni. La scelta è sostanzialmente fra un luogo incantevole e poco frequentato, oppure un altro, magari meno paradisiaco, ma con qualche anticorpo contro la noia da spiaggia post settimo giorno.
Alla fine decidiamo per Djerba (ovviamente l’uso del plurale è puramente illusorio).
Divido la vacanza con una splendida fanciulla. È stata lei a trovare l’offerta su Internet. Quando ho visto le foto dell'albergo mi sono subito esaltato: “Ok vada per Djerba, sarà una vacanza indimenticabile” (mai auspicio fu più profetico).
Partenza prevista da Malpensa il 19 luglio alle 22.30. Ritorno il primo di agosto. La tasca si è alleggerita di una somma vicina ai duemila franchi a testa, tutto compreso.

Arriviamo in aeroporto un’ora prima per fare il check-in e dopo qualche minuto ci comunicano che il nostro viaggio inizierà con un leggero ritardo. Alla fine il carrello abbandona la pista alle 24.30. Sono cose che capitano, ma le palle cominciano a girare ad elica.
Facciamo scalo a Monastir e arriviamo in albergo – dopo un volo allucinante, dove le turbolenze erano benedette perché assestavano l’aereo – alle 5 del mattino. Questo vuol dire che per un viaggio di massimo due ore siamo stati in ballo per più di quattro.

La camera e l'albergo sono oggettivamente lussuosi, cinque stelle meritate, perlomeno in Tunisia.
La sorpresa è un po’ più distante e non tarda a farsi apprezzare. In spiaggia ci attende uno scenario agghiacciante. Non ci crediamo. Le foto in agenzia erano molto diverse e ora ci troviamo in questa spiaggia colma di alghe color sterco di vacca, con un olezzo che definire ributtante è davvero poco. Arrivare in una spiaggia così dopo una notte da delirio e una colazione ancora peggiore, non mi lascia alcuna alternativa: mi tengo la fronte e comincio a vomitare l’impossibile, stile idrante impazzito. Nascondo fra le alghe e la sabbia il primo prodotto del mio corpo in terra straniera.
Dopo pochi secondi ci accorgiamo di essere in dolce compagnia. Veniamo assaliti da una colonia di formiche giganti con le ali, dall’aria piuttosto incazzata.
Andiamo a vedere il mare e nemmeno qui troviamo dei motivi per rallegrarci. L’acqua non sembra acqua, assomiglia di più alla merda sciolta. A questo punto, presi dal più fantozziano degli sconforti, ci guardiamo con due piccole lacrime che spuntano dal bordo degli occhi, e con voce spezzata le dico: “Ci siamo fatti fregare come dei chierichetti al casinò. A pensarci bene stamattina mi sono alzato con un leggero dolore fra le chiappe”.
Ci precipitiamo in albergo a reclamare. All’ufficio del tour operator, l’impiegata incaricata di gestire i reclami ci rimanda al mittente (cioè all’agenzia di viaggi). Dice che loro non sono responsabili.
Constato – senza alcun entusiasmo per questa colonizzazione riuscita – che pure in Tunisia lo sport più praticato è il “Noi non c’entriamo, non possiamo farci nulla. Se vuole parlare con il direttore deve percorrere tutto il corridoio, alla fine troverà davanti a lei una porta con scritto ‘Ufficio complicazioni affari semplici’. Suoni con fiducia e aspetti, prima o poi qualcuno le concederà udienza”.
L’unica cosa positiva è che nella concitazione del momento abbiamo conosciuto un gruppo di ragazzi italiani anche loro alla prese con bestemmie e santi di ogni sorta. Uno di loro era talmente fuori dalle grazie di Dio, che aveva giurato in faccia all’impiegata, che la sera stessa l’avrebbe seguita fino a casa e le avrebbe rapito il figlio. Dopo un pino di sola maria cambiò strategia: “La seguo fino a casa con il camioncino pieno di alghe e gliele scarico davanti all’entrata”. Per fortuna se ne dimenticò dopo qualche ora.

Alle otto del mattino dovevamo già essere su un taxi per raggiungere un’altra spiaggia. Se volevamo il mare dovevamo prendere il taxi e fare un viaggio di mezz’ora. Con un po’ di sbattimento siamo riusciti comunque a trovare un mare splendido senza nemmeno l’ombra di un’alga. Che due palle però! Uno aspetta tutto l’anno le vacanza per dormire qualche ora in più, e invece si deve alzare presto, perché la spiaggia oltre ad essere lontana si riempie subito, e allora che fai?

Il cibo non era malvagio, ma sapete come sono difficili le donne: “Non posso mangiare sempre riso e pollo, per giunta crudo, mi vuoi tutta ciccia e occhi a mandorla?”. Di primo acchito non mi sembrava una cattiva idea, le asiatiche sanno trattare il birillo con maestria (parlo per sentito dire) e poi a me le novità piacciono sempre.
Dopo un po’ il cibo è andato a noia anche a me, ma non sono stato lì a farne una tragedia, in situazioni del genere è sempre buona cosa venirsi incontro.

Devo dire che quasi nessuno ci ha stracciato i maroni con i soliti inviti a partecipare al torneo di tennis (che poi gli altri animatori si fanno la tua donna, mentre tu ti rigiri le palline in mano), alla seduta di aerobica, al torneo di minigolf e menate del genere. C’era solo un efebo (si evolve anche il mercato del sesso da turismo di massa) che invitava i villeggianti a fare acqua-gym, ma veniva ignorato dalla maggioranza (molto poco silenziosa).
Verso la fine della vacanza abbiamo anche fatto una gita. Siamo andati a porgere i nostri saluti ad un branco di docili anfibi africani. Insomma, tra una litigata e l’altra abbiamo cercato di portare a casa una vacanza dignitosa.
Il volo di ritorno è stata una seconda odissea. Siamo arrivati a Milano con una decina di ore di ritardo, che a guardar bene ora ci sembra una magnificenza.

Adesso si pone la questione se piantare un casino con l’agenzia o meno. Lei è decisa a dar battaglia, io sono più titubante. A volte mi dico: “Dai lo sai che in fondo le nozze non si fanno con i funghi”. Altre volte, prende il sopravvento l’anima sindacalista che c’è in me, e mi ripeto: “Però porca puttana duemila franchi non sono mica pizza e fichi!!”.
Ieri ad ogni buon conto ho fugato ogni dubbio. Mi sono accorto, riguardando le foto, di aver completamente dimenticato questo e allora come si fa a stare con le mani in mano?

Musica in piazza

È un avvenimento classico. In quattro piazze di Lugano suonano alcuni fra i maggiori artisti del blues più tradizionale. Io non impazzisco per questo genere musicale, ma blues to bop è l'ultima manifestazione dell'estate ticinese.
Si prevede un buon afflusso di pubblico, sia di appassionati sia di semplici curiosi. Tutti gli spettacoli sono gratuiti.