Una traccia per il percorso e l’interpretazione dell’arte

di

BENEDETTO TOZZI

 

Benedetto Tozzi intrattiene i suoi primi contatti artistici con esponenti della Scuola Romana che conosce e frequenta a Roma tra la fine degli anni ‘20 e per gran parte degli anni ‘30: Mafai, Ziveri, Scipione, Barbieri e soprattutto Fazzini, con il quale dividerà lo studio di Via Margutta 51 sino al 1937.

Dopo aver frequentato il Liceo Artistico di Via Ripetta e la Scuola Libera del Nudo su consiglio del pittore Pietro Gaudenzi e dello scultore Attilio Selva (entrambi legati ad Anticoli Corrado), si stabilisce a Roma dove, per vivere, lavora in qualità di disegnatore del Governatorato, al fianco di Sironi, anche se ciò non avrà molto peso nella formazione del suo stile pittorico infatti, reagisce sin dall’inizio alla pittura arcaico-monumentale inneggiante al Regime.
Gli anni ‘30 sono di particolare importanza per la formazione di Benedetto Tozzi, che guarda con occhio attento sia al tonalismo che agli accesi accostamenti cromatici caratterizzanti i vari orientamenti riscontrabili all’interno della Scuola Romana. In questi anni la pittura di Tozzi propende comunque per il tonalismo, denotando grande equilibrio nella composizione e per certe atmosfere e per le scelte iconografiche innegabilmente influenzata dallo spirito del realismo magico, a metà tra incanto e naturalezza.

Il desiderio di arricchimento culturale lo induce ad intraprendere viaggi. dapprima a Parigi, dove rimane affascinato dalle opere impressioniste; poi al seguito di altri gruppi di artisti è a Tripoli, a Trieste, ove frequenta lo studio di Attilio Selva, per approdare infine con l’Accademico d’Italia Pietro Gaudenzi, con suo figlio Enrico e con Mario Toppi a Rodi, ove collabora alla realizzazione di un ciclo di affreschi nel castello, divenuto sede del Governatorato e nella chiesa di san Francesco, ove eseguono anche restauri pittorici.   In quell’occasione conosce  l’architetto Florestano Di Fausto, suo conterraneo, con il quale instaura un rapporto d’amicizia che si rivelerà tra i più durevoli della sua vita. Nella circostanza conosce Mirko, Afro e Monteleone anch’essi impegnati a Rodi.

Tornato in Italia,   con i Gaudenzi,   frequenta lo stimolante cenacolo di artisti facente capo ad Anticoli Corrado. Fra i tanti: Picasso, Giulio Aristide Sartorio, Mestrovich, Carena, nell’ambito della cui scuola di pittura figurano Capogrossi, Cavalli, Pirandello; Maurice Sterne ed Arturo Martini; Bertoletti (sposato con la modella e pittrice anticolana Pasquarosa); C. E. Oppo, Virgilio Guzzi, Kokoschka. Negli anni ‘30 Anticoli è punto d’incontro per molti pittori della scuola romana e per tutti quegli artisti che vollero praticare il ritorno ad una dimensione pittorica ispirata al realismo.   Nelle  opere di tipo  estemporaneo  il colore assume un ruolo determinante nella definizione del soggetto narrato: i paesaggi del 1935 denotano la predilezione di Tozzi per uno stile pittorico veloce ed istintivo, carico di emozioni, immediato.

            L’attività di Tozzi viene brutalmente stravolta dalla seconda guerra mondiale che lo vide combattere su diversi fronti. Dopo la sconfitta tornò a Subiaco dalla Francia, con mezzi di fortuna, e trovò la città distrutta per l’ottanta per cento, lo studio di Via del Palazzo Romano saccheggiato, le proprietà familiari devastate.

Una tensione lentamente gli pervade l’anima fino a portarlo alla disperazione, il linguaggio s’accende ma il contenuto resta umano: riesce a mantenersi in equilibrio a non cadere in facili deformazioni grazie ad un misticismo che si fa contemplazione per risalire a Dio. La violenza cromatica è sensualità  dolorosa, necessità di esternare la macerazione interiore.

“... la serie delle rovine della sua Subiaco provata dai bombardamenti; queste opere stillano tristezza da ogni accento di colore”. Qualcuna è tremula, elegiaca, malgrado la tragicità del soggetto e il conturbamento cromatico le cui contrazioni e lacerazioni aumentano sempre, fino a farci temere un linguaggio convenzionale. E’ vero che tale pericolo viene temperato dalla immediatezza delle sensazioni e dalla conseguente rapida traduzione espressiva le quali conferiscono freschezza e spontaneità”.1

Così parla Benedetto Tozzi di un quadro del ciclo delle Macerie: “...se ne è andata un’opera dove è il calore sensuale della casa - la distruzione - una stasi tonale ed infine verso il cielo una fiducia di tornare a vivere anche se il cielo è ancora nero e tragico”.

            La realizzazione di un ciclo pittorico basato sullo stesso tema, le Macerie, oltre ad essere rappresentazione di una situazione tragica vuole anche essere la testimonianza di un evento spettacolare nella sua eccezionalità. L’artista sente il dovere di fissare quegli attimi fuggenti che costituiscono una pagina di storia.

A tutt’oggi il ciclo delle Macerie di Benedetto Tozzi, costituisce la testimonianza “storica” più viva ed impressionante di quegli eventi, ben al di la della pur raccapricciante testimonianza fornita dai vari reportage fotografici.

Mano mano che si procede allo sgombero delle macerie, si prospetta al pittore un paesaggio urbano per alcuni versi sorprendente ed affascinante: è uno scenario scarnificato, ridotto a quantità minime e che produce lo stesso effetto grandioso e monumentale delle rovine della classicità greca e romana. Benedetto Tozzi aggirandosi tra le rovine di Subiaco in compagnia dell’amico Ivo Pannaggi si sorprende ad ammirare il prisma solido, elementare, intatto della torre borgiana sovrastante la catasta delle macerie, arrivando ad assimilarlo al Partenone, nel suo ruolo di suggello e conclusione di un paesaggio di rovine affascinante nella sua drammaticità.

Oltre allo stordimento provocato dalla guerra, nel 1949 Benedetto è sconvolto da un profondo dispiacere: la morte del padre e poi del fratello Antonio, che lo porterà ad un forte esaurimento. Colori tetri e luci livide sono testimonianza del suo dolore, egli sembra soffocare nei colori bituminosi della tavolozza, gli appaiono ostili anche le sue valli e le amate montagne. I paesaggi sono fermi, non vibrano, la natura dei Monti Simbruini vitale, rigogliosa, selvaggia è letta con cupezza d’animo (LA VALLE SANTA, 1949 ca.).

  La morte del padre episodio molto doloroso per qualsiasi essere umano, ispira Benedetto ad affrontare un tema non ancora intrapreso: la pittura d’arte sacra.  La notte stessa del decesso, egli dipinge con tutta l’anima un’opera espressivamente molto efficace, trasponendo sulla tela la sua esperienza personale: DEPOSIZIONE del 1949.

L’impostazione è solenne, il colore vigoroso, il luminismo acceso, tintorettesco, le figure che animano la scena si stringono attorno al Cristo velato, bianco fulcro della composizione nella piazza investita lateralmente dalla luce in cui la figura in primo piano con le braccia levate verso il cielo sembra affidarsi nel dolore al Cristo.

Da questo momento compaiono anche i soggetti sacri, Tozzi intraprende la trattazione di temi religiosi più che per esigenza di rifugio e conforto, direi per una raggiunta maturità che gli consente di esprimere la sua religiosità profonda e sentita, arricchita dalla fraterna amicizia del teologo Don Gaetano Sibilia .

Le scene si animano, le atmosfere si accendono di improvvisi bagliori, la trattazione degli sfondi è realizzata con colori vibranti e sfumati che danno luogo ad una serie infinita di tonalità.

Nelle opere: DEPOSIZIONE del 1949, DEPOSIZIONE (bozzetto) del 1950, DEPOSIZIONE del 1954 è interessante notare il valore semantico dei colori: nelle prime due il bianco del Cristo morto oltre ad essere il centro luminoso è il colore che esprime non solo il lutto ma anche la freddezza ed il pallore tipici della morte. Nell’altra opera, quella del 1954, il Cristo è reso con una tinta ocra: nell’arte medievale, cara a Tozzi, colore del grano maturo arrivato al tempo della mietitura e perciò simbolicamente legato al concetto di morte. Ed ancora il verde, usato negli sfondi delle opere e maggiormente in quella del ‘54 ove diventa più intenso e rende al meglio l’intento del pittore nel trasmettere disfacimento, è quindi usato come il colore della marcescenza. Nelle tre opere il Cristo cadavere è sorretto da una figura in abito o mantello rosso; è la figura in rosso che si stringe al Cristo, è la più vicina. Questo colore, tra i prediletti da Tozzi che riesce ad impastarlo in tonalità infinite, è per lui il colore delle passioni umane, di quelle legate alla carnalità del sentire, rossa è quindi la figura che sostiene il Cristo, coinvolta anche fisicamente dal peso della tragedia.

Il dolore di Benedetto pian piano si stempera e nella pittura torna una benefica anche se momentanea distensione, le opere dei primi anni ‘50 ne sono testimoni, il colore è diluito, meno aggressivo e meno cupo. Dove la pasta pittorica si fa più densa intervengono con effetti mitigatori reminiscenze del tonalismo della scuola romana: FIORI CHE APPASSISCONO, 1953; GIOCATTOLI, BARCHE  E MACERIE tutti del 1954 ne sono un chiaro esempio, invece nel quadro intitolato PIAZZA DI SPAGNA serpeggia una suggestione di metafisica solitudine.

La distensione dura ben poco, torna ad emergere la propensione di Tozzi per un acceso cromatismo che ha il potere di determinare volumi, ombre e luci determinati da una pennellata vigorosa, frenetica, concitata.

Il 1953 è per il sublacense una data importante, quella della mostra personale a “La Fontanella” di Roma, diretta da Aedo Galvani, mostra che ebbe successo di pubblico e critica, visitata ed apprezzata dai maggiori artisti, critici e storici d’arte dell’epoca. 

Il pittore già lontano dalle gallerie e da tutti quei luoghi legati al “commercio” dell’arte è un idealista puro, un artista cioè che fa l’arte per l’arte, che vive questa sua condizione intimamente e non certo agisce e lavora con la prospettiva di vendere o peggio, di guadagnare. Con tutti i galleristi che esposero ed anche apprezzarono i suoi quadri: Galvani, Russo, Ghiringhelli, per citarne alcuni tra i più conosciuti, egli ebbe lo stesso atteggiamento contraddittorio nell’inviare le opere ma nella prospettiva di non venderle.  

 Dall’esperienza personale menzionata che lo mise in contatto più diretto con il mercato d’arte dal quale,  rifuggiva, uscì turbato e non accettò mai  il binomio arte-guadagno.

Si chiuse ancor di più in un isolamento forzato nello “studio-eremo” di Subiaco, dedicandosi pienamente ed a tratti spasmodicamente alla ricerca pittorica.

 Nel 1953 termina il restauro degli affreschi del monastero di S. Scolastica iniziato nel 1948. Nel ‘55 comincia il restauro agli affreschi del complesso monasteriale di S. Benedetto a Subiaco che andrà avanti fino al 1958/59. Gli anni che trascorre a contatto ravvicinato con gli artisti medievali dei monasteri tra i quali è presente il Magister Conxolus, sono per lui di nuova ispirazione. Si nota un certo influsso medievale nella geometrizzazione e nello schiacciamento prospettico del paesaggio soprattutto in alcuni scorci di SUBIACO del 1957, 1962, 1964 ed influssi bizantineggianti in: AUTORITRATTO, 1960; ANGELO (ritratto Donatella) 1960 ca..

            Nel 1957 è di nuovo in Francia per una collettiva organizzata dalla galleria “La Fontanella”, riaffiora il suo vecchio amore per l’impressionismo e per la tendenza di quegli artisti che avevano sviluppato nuove ricerche tese alla sintesi delle forme, all’abbandono del naturalismo e basate cromaticamente sui toni di un unico colore (PICCOLO NUDO, 1957 ca.).

            La caratteristica connotativa della pittura di Tozzi è determinata da una linea evolutiva fatta anche di ripensamenti e di sguardi al passato a volte piene di compiacente nostalgia per esperienze già concluse. La vera costante è da individuarsi nell’atteggiamento espressionista di intendere la pittura, nella misura in cui l’espressionismo è un movimento che muove dall’interno all’esterno: dal sentire all’oggetto rappresentato. Il carattere “espressionista” in Tozzi passa per l’uso del colore che si fa interprete pressoché esclusivo del pathos dell’artista, testimone di un’inquietudine perenne che solamente l’immediata e diretta azione pittorica può esprimere. In tal senso la ricerca del disegno e della delineazione grafica è davvero ridotta al minimo ciò nonostante resta possibile apprezzare raffinatezze calligrafiche generosamente profuse in ogni opera.  Vi è la generale tendenza nel sopravvalutare come momento più importante dell’arte di Tozzi il periodo della scuola romana.  Valutazione dovuta anche alla scarsa conoscenza della produzione artistica successiva agli anni ‘50 che a mio parere si rivela come periodo da indicare come il più ricco ed originale: momento conclusivo di una spasmodica ricerca espressiva.

La vastissima produzione di questo ultimo decennio, facondo per qualità e quantità come mai prima resta a testimonianza di un periodo felicissimo nell’arte di Benedetto Tozzi., Egli riesce a liberarsi da qualsivoglia condizionamento ed influenza culturale e stilistica esterna, la pittura è ora davvero un distillato della sua anima, decantato e depurato.   Probabilmente ritirarsi e concludere nell’eremo sublacense, lontano dall’agone metropolitano, dalle ansie spasmodiche di competizioni concorrenziali con artisti a lui decisamente inferiori eppure più fortunati gli giova: gli elementi spuri che intorpidivano sempre parzialmente i suoi precedenti itinerari, quel “pericolo” riscontrato da qualche critico avveduto nell’attitudine del Tozzi a recepire troppi stimoli da altri è definitivamente allontanato.   Quella pittura fatta di straordinari colorismi che tutti apprezziamo, uscì dal pennello di Tozzi con facilità inaudita .

La produzione   di una enorme quantità di quadri a soggetto floreale ne è la riprova. Ma attenzione a non sottovalutare o sminuire l’importanza di questa pittura fatta spesso  quasi solo di fiori: essi costituiscono per Tozzi il soggetto più immediato per attingere dal profondo dell’animo, colori a volte sconvolgenti che mai nessuno prima di lui aveva saputo cavare fuori. In questa estrema “riduzione” della pittura è da riconoscere la completa maturità dell’artista: egli riesce finalmente a dire tutto facendo a meno del disegno reiettato in quanto convenzione ed il cui limite di essere costruzione intellettiva non riscontrabile nell’essenza reale delle cose lo rende incompatibile con lo spirito di questo pittore che definisce tutto con la forma-colore.

Eppure l’artista non si ferma: le lusinghe di uno stile ormai rivelatesi inutili pronto e sollecito ad esprimere il moto creativo non sono sufficienti a far ritenere esaurita una ricerca che ormai si rivela sempre più chiaramente quella di una Verità assoluta. Pretendere di esprimere questa ricerca in termini pittorici è quanto di più arduo possa attendere all’opera di un artista: Tozzi appartiene alla ristretta cerchia di coloro che hanno osato.   Mettere in discussione se stesso, avere il coraggio e la forza di saper rinunciare alle stesse proprie acquisizioni e conquiste tecniche ed espressive  per gettare nuove sonde in fondali sempre più ignoti e profondi: è quello che accade in un nucleo circoscritto di opere prodotte in questo periodo e che si affianca in qualità di filone di indagine a se stante, al resto della produzione. Sono queste opere in cui si fa strada un atteggiamento che potremmo definire astratto o informale che si affaccia se pur ancora timidamente negli sfondi di talune nature morte, e che anzi spesso costituiscono la dominante compositiva dell’opera. Sono fondali in cui avvengono apparizioni fantasmatiche, in cui bagliori di luce da molteplici direzioni incidono su una materia finalmente libera di non dover assomigliare ad alcunché di fatto, ed in cui al di là dell’apparenza e potremmo dire paradossalmente, il vero accidente occasionale è proprio la presenza degli oggetti reali in primo piano. Una volta posseduta la chiave di accesso a questa dimensione psichica nell’opera di Tozzi ci è concesso di intraprendere viaggi all’interno di strutture spaziali di cui si è riuscito a dare miracolosamente una definizione pur rinunciando ai convenzionali dispositivi spaziali necessari ad altri, cioè disegno e prospettiva. Ma è qui probabilmente in ballo ben altro che la restituzione delle ordinarie dimensioni spaziali: quella che qui è scandagliata è senz'altro la dimensione psichica.  

Il più grande rammarico resta quello di aver perso a soli cinquantotto anni un artista straordinario che si apprestava a divenire senz’altro un riferimento nel panorama dell’arte italiana del secondo dopoguerra. 

                                                                                                                                                                       Dalla tesi di laurea della dott. Tiziana Tozzi

Università degli Studi Roma TRE

Relatore                            Correlatore

prof. G. Falcidia             prof. B. Toscano

A.A. 1993/94

1-Guido Colonna “Un pittore trascurato Benedetto Tozzi”, in

  Belfagor rassegna di varia umanità. Firenze anno X n°5, 30

  Settembre 1955.

2-Gianna Manzini “Autoritratto involontario”. L’opera

   completa di El Greco, Classici dell’Arte Rizzoli 1969.