- I mille colori del Chiapas -

 



Dalle grida di stupore capiamo che siamo giunti alla nostra meta. Qualcuno, per sua fortuna, è riuscito a scorgere il Canyon dall’alto e, dalle sue inequivocabili esclamazioni, intuiamo che abbia goduto per qualche istante di una visuale davvero spettacolare. In breve atterriamo sulla pista di Tuxla Gutierrez, capitale dello stato del Chiapas, dove abbiamo però deciso di non fermarci per la notte, optando invece di proseguire alla volta di San Cristobal de Las Casas, situata a circa ottantacinque chilometri di distanza, ma ubicata abbastanza più in alto rispetto ai 542 metri di altitudine di Tuxla. Poco prima dell’uscita dal piccolo aeroporto, troviamo un banco turistico, dove una graziosa ragazza elargisce con un sorriso ammaliante, informazioni, ed opuscoli illustrati sulle tante bellezze di questo stato messicano. Davanti al banco facciamo la conoscenza di una coppia, lei italiana, lui spagnolo, ma che, come scopriremo in seguito, vivono in Belgio. Sono diretti anch’essi a San Cristobal, ma ci chiedono se vogliamo unirci a loro per effettuare prima un giro sul Canyon, e la proposta ci alletta decisamente, poiché in questo modo avremo la possibilità di dividere le spese. Prendiamo quindi assieme un taxi, impiegando una buona mezz’ora per coprire i pochi chilometri che ci dividono dal paesino di Chiapa de Corzo, complice anche un posto di blocco dell’esercito, a cui sembriamo ormai esserci abituati nel corso di questo viaggio, ma che di fatto è il primo che incontriamo qui in Chiapas. Veniamo lasciati sulla piazza principale del paese, dalla quale, facendo pochi passi, raggiungiamo in breve un albergo, l’unico di Chiapa de Corzo a quanto ci risulta, dove proviamo a chiedere se possono custodire i nostri bagagli per tre, quattro ore, giusto il tempo di effettuare l’escursione lungo il fiume Grijlva. Accettano, ma non gratuitamente, siamo turisti… e ci alleggeriamo quindi di una manciata di pesos, comunque una cifra sostanzialmente irrilevante per i nostri standard. Senza la zavorra dei pesanti zaini, passeggiamo quindi tranquillamente per le stradine polverose di questo paesino, approfittando tra l’altro della presenza di una banca e del suo sportello bancomat, per prelevare del denaro contante. Certo, Chiapa de Corzo non presenta i canoni estetici di altri paesini e cittadine visitate finora in Messico, ma le sue basse costruzioni, per la maggior parte dipinte di rosa, le sue stradine desolate e la sua gente, soprattutto indios, le conferiscono un certo fascino, intriso d’autenticità. Ammiriamo dall’esterno la semplice architettura che contraddistingue la cattedrale di Santo Domingo, e facciamo un giretto attorno ai negozietti che la circondano, provando incuriositi una tazza di pozole, densa bevanda scurissima composta da cannella, cioccolato e granturco, che non riscontra decisamente i nostri gusti, a differenza dei molti altri avventori, che invece sembrano indubbiamente gradirla. In breve raggiungiamo l’imbarcadero, dove salpiamo assieme ad altri viaggiatori su una lancia a motore, navigando velocemente lungo le verdognole e torbide acque del fiume Grijlva. Le visuali di piccole e spoglie capanne ubicate sulle anse, si alternano a scene di altri tempi, in cui le donne fanno il bucato lungo il fiume, ed i bambini giocano con semplicità sulle sponde di queste limacciose acque.

Ci addentriamo rapidamente in quello che alcuni fortunati passeggeri hanno visto poche ora prima dall’alto, ovvero il Canyon del Sumidero, il quale si snoda per una quindicina di chilometri attorno a delle gigantesche pareti quasi verticali, che discendono oltre i mille metri di profondità. Un’autentica meraviglia della natura, è il caso di dirlo.

Il cielo intanto si è coperto di nuvole e la temperatura è scesa notevolmente, tanto da indurci ad indossare i nostri giubbotti e speriamo proprio che non piova, altrimenti faremo una doccia gratuita a bordo di questa lancia scoperta. In alcuni punti il fiume è completamente ricoperto di vegetazione, ed il pensiero corre subito agli alligatori,

che secondo le stime ancora dovrebbero popolare le sue acque, ma che per nostra sfortuna non vedremo, a differenza invece di numerose colonie di scimmie, che sembrano divertirsi a richiamare la nostra attenzione, tanto da indurre il barcaiolo ad arrestare la propria marcia, permettendoci di ammirarle nelle loro divertenti esibizioni. Il panorama è mutevole, grazie alla diversa altezza e conformazione delle pareti rocciose dalle quali siamo circondati, ed all’alternarsi dei diversi tipi di vegetazione, dove di tanto in tanto scendono con fragore alcune piccole cascate. Tutt’intorno regna un silenzio irreale, udibile ancor meglio quando ci fermiamo alcuni minuti in delle immense grotte presenti lungo i bordi, spegnendo il motore. Solo le urla in lontananza di qualche scimmia, o l’eco di alcuni rapaci, sembrano rompere la magia di questi momenti fatati, in cui la natura assume il ruolo di protagonista assoluta. La nostra corsa d’andata, durata circa un paio di ore, termina poco prima della diga di Chicoasen, completata nel 1981, la quale produce immense quantità di elettricità, ed è una delle più grandi del Messico. Nonostante questo, moltissimi indigeni del Chiapas (stato messicano la cui popolazione è composta per un buon 80% da indios discendenti dai Maya) non dispongono della luce nelle proprie abitazioni, così come l’acqua potabile o i servizi igienici. Purtroppo, dopo l’avvento degli spagnoli, il Chiapas ha sempre vissuto ai margini dello sviluppo messicano, tanto che, ancor oggi, nonostante le ingenti ricchezze di cui dispone, tra cui, vale la pena di ricordare alcuni giacimenti petroliferi, è uno degli stati più poveri del paese, dove analfabetismo, mortalità infantili, violenze, malattie dovute alle scarse condizioni igieniche, alcolismo, sono piaghe assai diffuse tra la popolazione, nella quale l’1% detiene quasi la metà della proprietà del territorio, percentuale purtroppo destinata ad aumentare, a causa del confiscamento sistematico delle terre da parte dei grandi latifondisti, ai danni delle sempre più povere comunità locali, costitute come dicevo da discendenti Maya, i quali parlano tra l’altro diversi dialetti locali, a seconda del proprio ceppo di appartenenza. Da questo contesto, dopo secoli di ingiustizie sociali e sfruttamenti vari, due anni fa, nel 1994 ha avuto origine la guerriglia zapatista, la quale balzò agli onori delle cronache proprio per l’occupazione di San Cristobal de Las Casas da parte dell’Ezln (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) guidato dal subcomandate Marcos, il condottiero mascherato da un passamontagna, il quale incarna per molti un nuovo Che Guevara. Gli zapatisti, i quali hanno trovato un rifugio sicuro nell’inaccessibile selva lacandona, portano avanti la loro battaglia scegliendo oltre alla lotta armata, anche la via della propaganda, provando a far conoscere al mondo intero il dramma degli indios del Chiapas e tentando un dialogo con il governo messicano, al fine di indurre il paese a riconoscere agli emarginati di questa parte di mondo un minimo di dignità umana, grazie alla ridistribuzione delle terre tra la popolazione, alla costruzione di strutture sanitarie, ad una campagna d’alfabetizzazione, in sostanza tutte cose fattibili per un paese civile, che si affaccia alle soglie del terzo millennio. In verità non so quanto possa essere utopica la guerriglia zapatista, ma viaggiando in queste settimane attraverso il Messico, mi sono reso conto che quella dell’ Ezln non è l’unica rivolta presente all’interno del paese, malgrado sia la sola che faccia notizia da noi, segno che probabilmente, la strada propagandistica intrapresa dagli zapatisti sortisce un certo effetto. In circa un’ora di navigazione copriamo a ritroso il nostro itinerario sul Grijlva, approdando nuovamente all’imbarcadero di Chiapa de Corzo. Si uniscono a noi due simpatici tedeschi, i quali hanno depositato loro volta i bagagli nell’albergo, occupandone però una camera per la notte. Vorrebbero venire con noi a San Cristobal, tanto che io ed il ragazzo spagnolo ci mettiamo alla ricerca di un mezzo che possa ospitarci tutti e sei, spargendo la voce tra alcuni abitanti del posto, ma la proprietaria dell’hotel non si lascia sfuggire l’occasione di prendere con il minimo sforzo il deposito da loro lasciato, dicendogli che non poteva assolutamente restituirglielo, probabilmente perchè l’albergo è completamente privo di ospiti e difficilmente a quest’ora busseranno alle sue porte altri clienti. Così, i due ragazzi ci salutano rammaricandosi di non aver avuto la nostra stessa idea, e trascorreranno la notte a Chiapa de Corzo. Nel frattempo la voce che abbiamo sparso ha evidentemente avuto buon esito, e si presenta a noi un giovane con il suo minivan, pronto ad accompagnarci fino a San Cristobal. Malgrado non sia un regolare taxista, ci sembra un bravo ragazzo, del quale istintivamente ci fidiamo. Contrattiamo quindi il costo della corsa, già relativamente basso, e mentre sta imbrunendo, ci dirigiamo alla volta di questa cittadina distante una settantina di chilometri, procedendo in salita lungo tortuosi e ripetuti tornanti. Copriamo in circa un paio d’ore l’intero percorso, da molti descritto come spettacolare, ma il buio non ci fa scorgere altro che il bagliore isolato di qualche fuoco acceso nell’oscurità delle campagne circostanti. Nei dintorni della piazza principale di San Cristobal salutiamo i nostri amici, simpatici ed ottimi compagni di viaggio di questa giornata e malgrado anche loro sosteranno nella cittadina qualche giorno, non li rivedremo mai più. Loro hanno l’hotel prenotato e proseguono quindi con il ragazzo di Chiapa fino allo stesso, mentre noi ci mettiamo alla ricerca di un posto dove trascorrere la notte. Fa freddo, decisamente freddo, e la pioggerellina fine che sui nostri key-way rimbalza docilmente, sembra invece pungere maliziosamente i nostri volti. Stentiamo non poco a trovare una camera, trascinando il peso dei nostri zaini sotto la pioggia per le stradine deserte, ed i vicoli bui di San Cristobal.

Il giorno seguente, di buon mattino siamo già in piedi. Usciamo subito dal comodo ed economico hotel trovato a fatica la sera precedente, immettendoci nelle stradine lastricate di San Cristobal. L’aria frizzante ci ricorda che siamo ad oltre 2260 metri d’altitudine, mentre le stupende e basse costruzioni color pastello, le inferriate in ferro battuto finemente lavorate, ed i mille tetti coperti da tegole rosse, riportano alla nostra mente Antigua, cittadina guatemalteca che tanto ci era piaciuta qualche mese fa. Ci infiliamo dentro una di queste case, la cui insegna esterna indica la presenza di un ristorante. Già, perché la maggior parte di queste costruzioni presentano al loro interno dei veri e propri gioielli nascosti, costituiti da degli spettacolari patii in stile coloniale, ornati da magnifiche piante, ed arricchiti da splendide fontane d’epoca. Ed è appunto in uno di questi straordinari cortili, che consumiamo la nostra prima colazione chiapateca. Malgrado nel Chiapas sia in atto una guerriglia, notiamo da subito la forte concentrazione turistica, ed il proliferare di negozietti creati ad arte. Ma la città resta comunque un incanto, come quasi tutte le città coloniali spagnole del resto, con il classico zòcalo centrale, in questo caso denominato Plaza de 31 de Marzo, e l’onnipresente cattedrale, qui eretta nel 1528, successivamente distrutta e ricostruita negli ultimi anni del 1600, dove entriamo per un istante, ammirando lo splendido dipinto raffigurante la Madonna dei Dolori, la pala d’altare e relativo pulpito in stile barocco, entrambi finemente incrostati d’oro. Sul lato est della medesima piazza, fa bella mostra di se la casa in stile coloniale di Diego de Mazariegos, condottiero spagnolo che nel 1524 sconfisse gli indios Chiapas e che fondò nel 1528 la città, chiamandola in origine Villareal de Chiapas de los Espanoles, nome che in seguito fu cambiato in omaggio agli sforzi compiuti dal frate domenicano (successivamente eletto vescovo) Bartolomè de Las Casas, a favore degli indios locali, torturati e massacrati ripetutamente dai conquistadores. Della serie la spada e la croce…

Continuando a passeggiare sotto un cielo quest’oggi incredibilmente azzurro, ed ammaliati da queste meraviglie architettoniche, giungiamo sino a quella che è secondo me un vero e proprio capolavoro qui a San Cristobal, ovvero la chiesa di Santo Domingo, con la sua splendida facciata barocca dipinta in un rosa tenue, che presenta un sublime intreccio di bassorilievi, statue raffiguranti santi ed angeli, colonne scanalate, mentre all’interno restiamo estasiati dal bel pulpito elegantemente scolpito. Ma la cosa che più ci colpisce gironzolando tra le strade della cittadina, è senza dubbio la gente. Anche all’esterno della stessa chiesa di Santo Domingo ci sono diverse donne vestite nei loro caratteristici costumi, intente a vendere la propria mercanzia, i loro colorati tessuti. San Cristobal è tutto un brulicare di queste indie, appartenenti ai diversi ceppi come i Chamulan, i Tzotziles, i Tojolabal, i Tzeltales ed altri ancora, provenienti dai vari villaggi circostanti. Assieme a loro ci sono ovviamente una marea di bambini, che ci seguono dappertutto con l’intento di vederci dei braccialetti di cotone colorati. La mercanzia esposta è varia, e destinata soprattutto ai turisti, inoltre ci risulta anche che molti dei tessuti in vendita provengano in realtà dal vicino Guatemala, dove il costo della vita è ancor più basso. Ma il colpo d’occhio è magnifico, un’autentica esplosione di colori, tra l’altro ancor più marcata nel vicino mercato municipale, che in breve raggiungiamo. Qui il posto è più autentico, come si evince facilmente dalla merce venduta, che va dalla coloratissima frutta alla carne, dagli utensili casalinghi a vari ortaggi, dagli animali alle erbe medicinali, fino alle varie bancarelle che cucinano direttamente il cibo, diffondendo nell’aria forti odori, più o meno piacevoli per le nostre narici.

Girovaghiamo per un po’ in questo tripudio di colori, odori pungenti, suoni, urla, conversazioni più o meno comprensibili, fino a quando non torniamo in strada, dove fermiamo un taxi, contrattando un giro nei due vicini villaggi di San Juan Chamula e Zinacantan. Troviamo rapidamente un accordo, ed usciamo dalla città, dirigendoci alla volta del primo dei due, distante grosso modo una decina di chilometri, che percorriamo in breve. Improvvisamente sembriamo letteralmente proiettati fuori dal tempo, ed in un altro mondo, ma l’impatto non è dei migliori.

La piccola piazza pullula di ragazzini scalzi e mal vestiti che ci chiedono dei pesos mettendosi in posa per delle foto, o che cercano con insistenza di vendere alcuni oggetti, diventando a tratti anche aggressivi. Inoltre lo spettacolo di molti uomini palesemente ubriachi, non è dei migliori. Giacciono rassegnati, con lo sguardo sottomesso perso nel vuoto e con l’immancabile bottiglia tra le mani. Qui ci si rende conto ancor più del dramma degli indios, della loro emarginazione sociale, dei mille problemi che ha questa splendida terra. Questi uomini vivono con triste rassegnazione i loro drammi, annegando e finendo le loro misere vite nell’alcol. Nei loro caratteristici vestiti bianchi, e con i cappelloni e stivali in stile cow-boy, stazionano senza tempo sulla piccola piazzetta di San Juan Chamula, nella quale sono invece assenti del tutto o quasi le donne, molte delle quali sono probabilmente le stesse che abbiamo incontrato nelle strade di San Cristobal. Ci rechiamo al municipio, al fine di ottenere il permesso di visitare la chiesa locale, acquistandolo per pochi pesos. Tra le tante bambine che ci chiedono l’elemosina, ci accingiamo quindi ad entrare in questa chiesa dalla facciata in stucco bianco, in cui sono presenti un piccolo balcone sul lato superiore, ed un portone ad arco, entrambi decorati di verde e blu, ed arricchiti da altri colori. La chiesa non è più da anni un luogo di culto cattolico, ma vi vengono praticati dei riti cattolici con una chiara reinterpretazione indigena. Entrando nella stessa si resta subito colpiti da un particolare e pungente mix di odori, composto da incenso, aghi di pino, cera delle candele, aromi floreali, e probabilmente altro. Il pavimento è cosparso da migliaia di aghi di pino, mentre le varie statue raffiguranti i santi cattolici sono vestite con colori sgargianti e presentano dei volti molto lucidi. Restiamo ammutoliti, mentre qualcuno recita qualche incomprensibile omelia, offrendo bottiglie di coca cola e tequila.

Uno spettacolo surreale e sicuramente deprimente, quello dell’osservare questa gente a cui sono state tolte con la forza le proprie credenze ed i propri riti, tanto da doverli praticare camuffati così a lungo nel tempo, fino a perdere definitivamente la propria identità culturale. Con un groppo in gola riprendiamo la nostra marcia, oltrepassando delle belle colline coltivate a frutteti e mais, fino a giungere nel vicino villaggio di Zinacantan. Qui la chiesa è chiusa, ed in verità non so nemmeno se avrei ripetuto l’esperienza provata a San Juan Chamula, ma ci destano comunque curiosità i caratteristici vestiti degli uomini, costituiti da dei ponchos rossi,

che ammiriamo passeggiando nella polverosa e spoglia via che di fatto attraversa il villaggio, attorno alla quale stanno sorgendo dei negozietti per turisti, segno che si è capito che possono rappresentare una sicura fonte di reddito per questi poveri diseredati, anche se questo significherà con molta probabilità la loro omologazione e quindi la perdita

definitiva di quel poco che resta della loro cultura, un po’ come accade nella pur piacevole San Cristobal, che raggiungiamo nella metà pomeriggio. Infatti, debbo dire che fa una certa impressione vedere alcuni di questi splendidi edifici coloniali trasformati in dei moderni locali ad uso turistico, e soprattutto questi indios elemosinare e vendere paccottiglia ad ogni angolo delle strade. Persino il subcomandante Marcos, colui che dovrebbe risollevare le loro sorti, è diventato un pupazzo di pezza da vendere ai turisti.

Ma la cosa che più in assoluto mi dispiace, è vedere queste popolazioni trattate come fenomeni da baraccone, come delle persone diverse, il dover constatare dai commenti di qualche turista idiota, che sono addirittura in stridente contrasto con le bellezze di San Cristobal e mi chiedo se dopo che sono riusciti a sopravvivere in malo modo al colonialismo spagnolo, ed ai mille successivi soprusi perpetuati loro nel tempo, riusciranno mai invece a sopravvivere culturalmente al colonialismo turistico. Il mattino seguente usciamo presto da San Cristobal, dirigendoci verso sudest. La nostra meta odierna è il parco nazionale di Lagunas de Montebello, ubicato in prossimità della selva lacandona, a ridosso del confine guatemalteco. Allontanandoci da San Cristobal lungo la statale 190, il paesaggio cambia radicalmente, e le belle colline ricoperte da pinete o coltivate a frutteti che circondano la cittadina, lasciano il posto progressivamente ad una serie di pianure intervallate da alcuni desolati rilievi, in cui si evince facilmente il taglio indiscriminato degli alberi perpetuato negli anni. Anche la stessa selva lacandona, una delle foreste pluviali più incontaminate del pianeta, nella quale si annoverano moltissime specie vegetali, ed habitat naturale di qualcosa come 23 specie di anfibi, 54 di rettili, 82 varietà di mammiferi, oltre 340 specie di uccelli e molto altro ancora, ha rischiato, e rischia la sua estirpazione, essendo da anni nelle mire di latifondisti ed imprenditori senza scrupoli, a dimostrazione che il dio denaro non fa sconti a nessuno, né ad un paradiso naturalistico unico in Messico, e né tantomeno ai suoi antichi abitanti, i Lacandoni, tribù primitiva che si pensa discendere direttamente dagli antichi Maya, i quali debbono molto della loro sopravvivenza come gruppo etnico ai coniugi Blom. I Lacandoni sono sempre vissuti isolati nella foresta, restando di fatto estranei a tutto quello che era successo nel paese centroamericano, fino a quando vennero in contatto con l’esterno grazie all’inizio dello sfruttamento del legname nella selva lacandona, ovvero in quello che era il loro mondo. Con il tempo iniziarono a lavorare per le compagnie che praticavano il deforestamento, ed a conoscere e quindi usare il denaro. In breve questo gruppo etnico fu decimato dall’alcol, da malattie fino a poco tempo prima sconosciute, nonché dal disboscamento indebito e selvaggio del proprio ambiente naturale. I coniugi Blom, appassionati da sempre di antropologia e sensibili ai problemi delle locali etnie chiapateche, si preoccuparono di preservare e documentare le tradizioni dei Lacandoni, la cui sopravvivenza della loro secolare cultura era seriamente in pericolo. Gli sforzi dei Blom ottennero dei risultati soddisfacenti, considerato che il numero stimato dei Lacandoni attorno al 1960 ammontava a circa 200 individui, mentre recentemente ne sono stati censiti oltre quattrocento, e, sebbene abbiano comunque subito un inevitabile processo di occidentalizzazione, sono in ogni caso sopravvissuti come etnia. La casa dei Blom è stata trasformata nel centro istituzionale Na-Bolom (casa del giaguaro in lingua Tzotzil), che abbiamo visitato ieri a San Cristobal, il quale presenta alcuni reperti archeologici, oltre 50.000 foto che testimoniano la distruzione parziale della selva lacandona e riti ancestrali non più praticati dalle comunità locali, svariati oggetti di artigianato, una ricca biblioteca e molto altro ancora riguardo le numerose minoranze etniche presenti in Chiapas. Inoltre, fra gli scopi principali del centro figura il rimboschimento della zona, con l’impegno preciso di piantare oltre trentamila alberi l’anno, ed entrando di conseguenza spesso in conflitto con i latifondisti locali e con le industrie di legname. Franz Blom è morto nel 1963 e la sua attività è stata continuata con successo da sua moglie Gertrude, deceduta tre anni fa, la quale fu insignita nel 1991 del ruolo d’onore mondiale dalle nazioni unite, in virtù della sua continua opera durata oltre cinquant’anni in difesa dell’ambiente. Se la selva lacandona è riuscita a preservare in qualche modo il suo prezioso ecosistema e se gli stessi lacandoni ancora esistono, lo si deve anche agli sforzi compiuti dai coniugi Blom e fa riflettere il fatto che secondo le ricerche effettuate dagli scienziati messicani, la selva tropicale occupava in origine il 12% dell’intero territorio del paese latinoamericano, mentre attualmente ricopre meno dell’1% dello stesso. Alcuni chilometri dopo aver superato il paese di Comitàn, seguiamo il segnale che indica l’ingresso alle Lagunas di Montebello, imboccando una stradina in salita circondata da conifere, che in breve ci conduce alle lagunas coloradas. Il parco nazionale è stato il primo ad essere istituito in Chiapas nel 1959, ed annovera una sessantina di laghetti in totale. La zona in cui ci troviamo ora, quella dei laghi colorati, è davvero suggestiva.

Cinque di questi laghi sono facilmente raggiungibili tramite la medesima strada asfaltata e nessuna fotografia credo potrà rendere giustizia alla reale bellezza di questi posti. Siamo circondati da uno spettacolo di rara bellezza, in cui la tipica vegetazione tropicale è frammista a boschetti di conifere, ed assieme circondano e contemporaneamente si specchiano in questi laghetti, i cui colori spaziano dal verde smeraldo al turchese, creando sulla superficie dell’acqua dei magici giochi cromatici. Tutt’intorno regna un silenzio assoluto, interrotto unicamente dalle nostre voci meravigliate da questi paesaggi immacolati e dai mille canti degli uccelli.

Poco più in là, al di fuori delle rare piste battute, la selva diventa il regno incontrastato di numerosi animali selvatici, tra cui il giaguaro, o il raro uccello sacro dei maya, il quetzal. L’ultimo lago che visitiamo è quello denominato Tziscao, il più grande, che segna di fatto il confine con il Guatemala, dopodiché diciamo addio a questa terra fatata, percorrendo a ritroso la medesima strada dell’andata e fermandoci per il pranzo nella poco attraente Comitàn, prima di tornare nel tardo pomeriggio a San Cristobal. Sembra che vicino a Comitàn esistano tutt’ora dei campi profughi di rifugiati guatemaltechi, che in più di quarantacinquemila superarono il confine nei primi anni ottanta, a causa della dura repressione politica adottata dall’esercito e delle atroci scorribande effettuate dai famigerati squadroni della morte, quasi a testimoniare il fatto che per la gente di queste parti, parole come pace o serenità sono dei termini puramente astratti. Ultima sera a San Cristobal de Las Casas. Lo zòcalo è come al solito animato da stranieri di varie nazionalità, venditori di stoffe, finta ambra e quant’altro possa far contento qualche desideroso turista in vena di acquisti. La temperatura è scesa di molto, tanto da indurci ad indossare i nostri giubbetti. Passeggiamo senza una meta precisa tra le stradine lastricate di un passato coloniale più o meno recente, semplicemente osservando tutto quello che ci circonda, e facendoci trasportare dalla magia di questo affascinante paese, dalla sua atmosfera, dalla sua gente, fino ad infilarci in uno dei tanti locali dove concederci un’ultima squisita cena a base di tostadas, guacamole e bistecca alla parrilla.. A differenza degli altri ristoranti in cui eravamo stati le altre sere, il locale è molto animato e caratterizzato da un andirivieni di venditori ambulanti. Ci colpisce in particolar modo un bambino, che infreddolito e con il muco al naso, si aggira cencioso tra i tavoli, tentando di vendere i suoi braccialetti. Avrà a malapena otto anni, ma è determinato nel suo business, tanto che dopo un po’ abbiamo due bei braccialetti colorati ancorati ai nostri polsi, non certo preventivati, ma acquistati per la bellezza dei suoi grandi occhioni bruni. Miguel si sofferma un po’ a parlare con noi, incuriosito più che altro dalla nostra penna e dal taccuino sul quale la sera annotiamo qualche impressione inerente la giornata trascorsa. Disegna qualcosa, ma lo fa con una maestria tale che ci sorprende entrambi, riproducendo quasi fedelmente un dipinto appeso alla parete, cosa non certo comune, specie a quella tenera età. Confesso che restiamo interdetti, e tentando probabilmente senza riuscirci di non cadere nella comune retorica, ci domandiamo tra noi perché un bimbo così piccolo debba essere privato della gioia di crescere giocando, come fanno molti altri suoi coetanei, che a questa tarda ora staranno probabilmente vedendo la tv o divertendosi con qualche videogame, e soprattutto ci chiediamo se riuscirà mai ad esprimere il suo straordinario talento in questa terra di dimenticata da Dio e dagli uomini. All’improvviso viene chiamato da altre ragazzine all’entrata del ristorante e corre come un fulmine facendo rimbombare i passi dei suoi piedini nudi sul pavimento di legno del locale, scomparendo nei vicoli bui della fredda notte di San Cristobal. Conservo ancora i suoi disegni tra i miei appunti di viaggio. L’indomani lasciamo definitivamente San Cristobal de Las Casas, cittadina che, malgrado i suoi evidenti contrasti a cui accennavo, ci è comunque piaciuta molto, ed in cinque ore di autobus di linea raggiungiamo nel primo pomeriggio il desolato paesino di Palenque. Con facilità reperiamo un alloggio a buon mercato dove stazioneremo nei prossimi giorni, e dopo una doverosa doccia, prendiamo al volo un colectivo, che in breve tempo coprirà gli otto chilometri che separano il paese dalle rovine maya, vero motivo che ci ha indotti a percorrere tanta strada, per giungere fin qui. Nell’ultimo anno, ad eccezione di Copàn in Honduras, abbiamo visitato quasi tutti i più celebri siti maya, eppure, dopo aver varcato l’ingresso delle rovine archeologiche di Palenque, ed aver percorso poche decine di metri, restiamo attoniti ed ammutoliti dinnanzi alla maestosità del “Tempio delle Iscrizioni”, che troviamo sulla nostra destra,

e del “Palazzo”, il quale si erge imponente di fronte a noi. L’ubicazione di Palenque è a dir poco sensazionale. L’intero complesso si sviluppa su una superficie enorme, tuttavia, grazie al disboscamento praticato unicamente attorno alle principali rovine, sono accessibili facilmente solo le aeree centrali dove ci troviamo ora, le quali occupano una minima parte dell’intera zona in cui si estende il sito, mentre tutto il resto è coperto da una fittissima ed impenetrabile vegetazione tropicale, in attesa che in futuro, i fondi economici saranno  sufficienti per permettere agli archeologi chissà quante altre sensazionali scoperte. Poco dopo le quindici, ci accingiamo a salire il primo dei 69 gradini che compongono la scalinata centrale del Tempio delle Iscrizioni, il quale si eleva di circa 23 metri dal suolo. La fatica dovuta all’ascesa, complice senza dubbio il notevole tasso di umidità presente, è ripagata dalla sublime visuale che godiamo dalla sommità di questa piramide, la quale ci offre tra l’altro una spettacolare vista sul sottostante “Palazzo”, complesso monumentale di notevole bellezza e frutto di almeno un paio di secoli di complesse attività architettoniche. Il tempio su cui ci troviamo, deve il proprio nome al ritrovamento sulla sua sommità di tre serie di iscrizioni, ognuna delle quali è costituita da lastre finemente incise da glifi.

Ma la più grande scoperta effettuata a Palenque, fu senza dubbio quella della cripta sotterranea presente nello stesso tempio e, mentre scendiamo lentamente i 67 ripidi scalini che conducono alla stessa, soffocando letteralmente dal caldo e grondando di sudore, proviamo ad immaginare cosa possa aver provato nel 1959 l’archeologo messicano Alberto Ruz Lhuillier, quando scoprì la scala che stiamo discendendo, allora sepolta da pietrisco, ed ai piedi della quale c’era un passaggio sbarrato. Gli archeologi lavorarono ben tre anni in quello stesso passaggio, fino a quando poterono entrare nella camera sepolcrale di Pakal, re che governò per una settantina d’anni, portando la città di Palenque ai suoi massimi fasti. Il corpo del sovrano era coperto da un lastrone finemente scolpito pesante ben cinque tonnellate, che richiese una settimana di duro lavoro per riuscire a sollevarlo, prima di trovare le spoglie del leggendario re, assieme al suo prezioso corredo funerario, costituito da un pregevole diadema e da una sublime maschera di giada a mosaico, che abbiamo potuto ammirare qualche settimana fa nel museo di antropologia di Città del Messico. La scoperta di Lhuillier fu sensazionale a livello archeologico, perché permise di sfatare la credenza secondo cui le piramidi maya servissero unicamente a scopi cerimoniali, mentre la cripta di Pakal ha permesso di conoscerle anche in veste di camere sepolcrali. Visitata la cripta, chiusa da un cancello di ferro, ed illuminata appositamente da un faro, facciamo un piccolo giro orientativo tra le rovine, perché si sta avvicinando l’orario di chiusura del sito, a cui dedicheremo l’intera giornata di domani, come del resto merita. Il giorno seguente infatti, alle otto in punto, entriamo nuovamente in questa antica città maya, visitando con la dovuta calma le sue tante costruzioni. Prima tra tutte il “Palazzo”, labirinto di stanze e corridoi, elevato su una piattaforma di dieci metri di altezza, e di quasi cento di lunghezza, nel quale sono presenti pregevoli figure in stucco e varie iscrizioni,

e dove spicca la sua torre a quattro piani, la quale si pensa servisse come osservatorio ai sapienti astronomi maya.

Veduta del "Palazzo" dalla sommità del "Tempio delle Iscrizioni"

Poi è la volta dei templi del cosiddetto “gruppo della croce”

Tempio del Sole nel "gruppo della Croce"

e di altre costruzioni minori che si snodano nell’area del sito, tutte altrettanto suggestive, degne di nota, ed attorno alle quali non c’è però anima viva, ma forse il bello della visita che stiamo compiendo è proprio questo, ovvero poter contemplare in perfetta solitudine queste autentiche meraviglie architettoniche, edificate secoli fa da uno dei più affascinanti popoli di tutti tempi.

Così, ci spostiamo tra le rovine più isolate, vivendo un’esperienza da novelli indiana jones, ed addentrandoci quindi anche nella circostante foresta che lambisce l’area principale del complesso archeologico, dove dietro ogni albero si nasconde una fatiscente costruzione, senza dubbio meritevole di restauro, dove la vegetazione diventa a tratti così fitta da impedire ai raggi del sole di filtrare, dove le scimmie urlatrici, autentiche protagoniste di questa selva tropicale, sembrano divertirsi a dettare la colonna sonora in questa suggestiva parte di mondo, che stiamo intensamente assaporando. Proviamo a risalire il corso del Rio Otolum, poco più che un torrente in piena, il quale forma però spesso all’interno della foresta delle affascinanti cascatelle, che sembrano non stonare affatto in questo attraente contesto in cui ci troviamo, costituito da una fittissima vegetazione tropicale che ricopre quasi inghiottendo alcune piccole misteriose rovine, scale in pietra che emergono come per incanto dal suolo fangoso, mille versi misteriosi, appartenenti ad animali più o meno conosciuti. Anche questo è Palenque, senza dubbio una delle città maya tra le più affascinanti, tra quelle visitate. Dopo aver trascorso l’intera giornata tra le rovine, poco dopo le diciassette torniamo in paese, fermandoci presso un’agenzia locale, al fine di acquistare i biglietti per il trasporto alle cascate di Misol-ha ed Agua Azul, che vorremmo visitare domani. All’interno però, ci si profila l’opportunità di visitare un altro sito maya, Bonampak, ubicato in piena selva lacandona. Due anziani turisti tedeschi vorrebbero recarvisi domani mattina, ma la spesa è alta, ed il proprietario dell’agenzia ci propone di dividerla con loro: 80 dollari usa a testa, per volare su un aereo a quattro posti alla volta di questa città isolata nella giungla e tornare in giornata a Palenque. Ci consultiamo rapidamente, abbiamo ancora diversi giorni di viaggio davanti a noi e come sempre abbiamo già sforato il budget, ma l’opportunità è allettante, ed in fondo, anche se costosa, non ci ridurrà certo sul lastrico. Accettiamo, domani effettueremo questa visita non preventivata, ma di sicuro fascino, allungando quindi di un giorno in più il nostro soggiorno nel Chiapas. Il giorno seguente, nel primo pomeriggio, eccoci quindi a bordo di questo piccolo velivolo in compagnia dei due tedeschi. I due anziani coniugi sono simpatici e ci raccontano della propria passione per le civiltà mesoamericane. In poco più di mezz’ora copriamo i quasi 180 chilometri che separano Bonampak da Palenque, ammirando dall’alto un monotono panorama costituito da una fittissima selva. Il piccolo giocattolo alato vira sopra alcune rovine, Yaxchilan a quanto ci dicono, peccato davvero non poterle annoverare nella visita odierna, ma l’accoppiata costava veramente troppo, malgrado la notevole vicinanza tra i due siti. In breve atterriamo nella foresta, quasi radendo le cime degli alberi. Durante il lungo tragitto che si snoda dall’ingresso fino alle rovine, dobbiamo ricorrere immediatamente a massicce spruzzate di Autan, per impedire alle fameliche zanzare che sembrano proliferare da queste parti, di ridurci la pelle a qualcosa che somigli ad un colabrodo. Il sito di Bonampak non colpisce certo per la maestosità dei suoi monumenti. Si sviluppa attorno ad una circoscritta area disboscata dalla forma rettangolare, chiamata “Grande Piazza”, i cui lati, contornati da nove spogli edifici, misureranno nemmeno un centinaio di metri. Sulla parte nord della Grande Piazza spicca una collinetta (acropoli) terrazzata, sulla quale ci sono alcuni piccoli templi, tra l’altro abbastanza fatiscenti. Andando verso l’acropoli, s’incontrano tre stele, nella prima delle quali, alta quasi sei metri, è raffigurato Chan Muan II, il sovrano di Bonampak, mentre nelle altre due sono incise scene più cruente, con lo stesso sovrano che esibisce una testa tagliata e dei prigionieri di guerra.

Ad esser sinceri, a parte l’affascinante contesto in cui sorge, il sito non è architettonicamente un granché, niente quindi a che vedere con gli altri che abbiamo visitato tra Messico e Guatemala, ma riveste un ruolo di primaria importanza nell’archeologia maya, a causa delle pitture contenute in un piccolo tempio sulla destra dell’acropoli, che ci accingiamo a visitare. Sembra che Bonampak debba la sua scoperta ad un obiettore di conoscenza statunitense, il quale si rifugiò nel 1946 in un piccolo villaggio del Chiapas e strinse amicizia con un giovane lacandone, divenendo in breve un membro della comunità stessa, composta da poco più di duecento individui. Frey, questo è il nome del giovane yankee, venne quindi in seguito a conoscenza di questo antichissimo centro cerimoniale sepolto nella giungla, dove fu condotto dagli stessi lacandoni. Il giovane avvertì le autorità messicane dell’importante ritrovamento, ma non ottenne grandi consensi, probabilmente a causa dell’inaccessibilità del luogo, tanto da organizzare personalmente nel 1949 una spedizione sponsorizzata dall’Istituto Nazionale Messicano delle Belle Arti. Charles Frey stesso, perse però la vita nella medesima spedizione, annegando nelle impetuose acque del rio Lacanha, ma la città di Bonampak aprì le proprie porte al mondo dell’archeologia. Sulla prima terrazza dell’acropoli, visitiamo quindi il piccolo “Tempio delle pitture”, a cui il sito deve la propria fama. Nelle tre stanze interne, non comunicanti tra loro, ci sono una serie infinita di affreschi policromi, che raffigurano i momenti salienti della vita del regno, come l’incoronazione del sovrano, scene di una violenta battaglia e la celebrazione della vittoria, con dipinti cruenti di sacrifici dei prigionieri, a cui viene strappato il cuore per offrirlo alle divinità, e di autosacrifici, in cui il re e la sua corte, si fanno passare una cordicella attraverso la lingua. Bonampak segnò una svolta determinante nello studio dei maya, poiché le pitture presenti nelle tre stanze, hanno fatto definitivamente cadere l’ipotesi che gli stessi fossero un popolo pacifico. Purtroppo i colori sono assai sbiaditi, considerato che fu fatto dagli archeologi l’errore imperdonabile di lavare le pareti con il kerosene, dopo aver grattato il calcare depositatosi sugli affreschi nel corso degli anni. Il kerosene sbiadì notevolmente gli affreschi, ed accelerò il deterioramento delle mura del tempio. Trascorriamo diverso tempo contemplando queste pitture, ed in un paio d’ore complessive visitiamo l’intero sito, concordando comunque sul fatto che è valsa la pena visitarlo. Atterriamo a Palenque nel tardo pomeriggio, soddisfatti di quest’altra giornata trascorsa nelle magie di questo bellissimo stato messicano. Il giorno dopo partiamo alla volta delle cascate di Misol-ha ed Agua Azul, come da nostri programmi iniziali. Effettuiamo la visita a bordo di un colectivo, che ci consente di effettuare l’escursione in piena autonomia, pagando solo il trasporto. Visitiamo dapprima le cascate di Misol-ha, dove ci fermiamo però brevemente, meno di un’ora, ammirando il bel salto d’acqua di oltre 30 metri, ed il laghetto sottostante, ubicati in un contesto naturalistico di rara bellezza. Ci spostiamo successivamente ad Agua Azul, dove in pratica stiamo gran parte della giornata. Il posto è altamente spettacolare e comprende oltre 500 impetuose cascate di varie dimensioni, che si susseguono lungo la discesa del rio Yax Ha, il quale scorre interamente circondato da una lussureggiante vegetazione tropicale.

Decidiamo di risalire il corso del fiume, effettuando una piacevole passeggiata sulla sua sponda sinistra, ed osservando con meraviglia un paesaggio che alterna delle zone erbose a dei piccoli campi coltivati, intervallati da tratti in cui la foresta pluviale prende il sopravvento, con i mille rumori di sottofondo che la contraddistinguono, mischiati al fragore delle impetuose acque. Man mano che ci allontaniamo, i turisti si dilatano, fino a rimanere praticamente soli in questo piccolo trionfo della natura. Lungo il percorso, incontriamo saltuariamente delle spoglie capanne, e qualche bambino che scende a vendere frutta o piccoli oggetti di artigianato. Un piccolo gruppetto ci chiede con fare aggressivo dei “cicle”, e non ricevendo risposta positiva da parte nostra, inizia a tirarci delle pietre, ed a gridarci delle parole davvero incomprensibili. Hanno ragione anche loro. Dopo aver camminato per almeno un paio d’ore, ci accampiamo in una piccola radura, dove il fiume scorre placidamente e nel quale il silenzio è rotto unicamente dal cinguettio di mille invisibili uccelli. Momenti magici. Vorrei rimanere qui in eterno, lontano da tutto e tutti. Peccato solo che, a causa delle abbondanti piogge che cadono in questa stagione, le acque, anziché essere azzurrognole, come dal nome stesso delle cascate, siano di un colore simile ad un caffellatte. Già, le piogge di stagione, decidono di ricordarsi anche di noi e della nostra fortuna, che ci assistito finora. Giù quindi una sorta di diluvio universale, che non ci lascia scampo. Via con una folle corsa in discesa, fermandoci ogni tanto sotto qualche albero, o in prossimità di un capanno, sperando che possa cessare. Il cielo però è di un cupo che non lascia dubbi e via dunque, di nuovo a correre, bagnandoci come pulcini, malgrado la protezione dei keyway. Piede del sottoscritto in fuorigioco e scivolone di almeno tre metri lungo la fanghiglia, con relative risate di entrambi, sotto dei gettiti d’acqua degni delle cascate in cui ci troviamo. Torniamo nel tardo pomeriggio al paesino di Palenque. Ultima mediocre cena, qui abbiamo sempre mangiato male, cosa strana per noi in Messico. Domani, in un paio d’ore di autobus raggiungeremo Villahermosa, da cui poi ci sposteremo nello Yucatan e Quintana Roo per qualche giorno di mare, a degna conclusione di questo lungo viaggio. Questa settimana dedicata al Chiapas è trascorsa velocemente, troppo, tanto che lasciamo questo stato sentendo che qualcosa ci manca e provando uno spiacevole senso d’incompletezza, misto al normale rammarico. Spero davvero che la sua gente possa avere miglior sorte in futuro, che possa alzare la testa dopo secoli di soprusi ed oppressioni, anche se in cuor mio so che è una speranza vana, purtroppo utopica. Ce ne andiamo davvero a malincuore. Questa terra ci rimarrà dentro lo so, spero un giorno di tornarci, di poter passeggiare ancora tra le lastricate stradine coloniali dei suoi paesi, di visitare i villaggi della sua gente, di perdermi nella sua inebriante natura, di ammirare, ancora una volta, i mille colori del Chiapas.

 

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