1. PEDAGOGIA INTERCULTURALE: RACCONTARSI E RACCONTARE TRA MEMORIA E PROGETTO

intercultura

di Duccio Demetrio

E’ impossibile affrontare i temi della pedagogia – o dell’educazione – interculturale se non si assume un punto di vista narrativo. La relazione, la comunicazione, tutto ciò che ha che fare con quello che si desidererebbe conseguire nell’incontro interculturale si riconduce ai motivi del narrare, del raccontare storie.

La narrazione è di per sé un’operazione interculturale, perché ogni storia che noi costruiamo o inventiamo è, in primo luogo, un intreccio di altre storie, di altri racconti: non esistono storie pure, monoculturali; le storie sono sempre risultato di commistione, di contaminazione, di ibridazione. Dunque, ogni narratore – antico, un griot, come viene chiamato nelle culture maghrebine, o moderno – che ha grande famigliarità con il piacere di raccontare e di raccogliere storie, è già di per sé interculturalista. Ancora, un buon insegnante – o un buon pedagogista o un buon educatore – che si muove all’interno della prospettiva interculturale è, necessariamente, un buon narratore e, anche, un buon ascoltatore.

La prospettiva interculturale, in altre parole, è riconducibile al cosiddetto “paradigma narrativo”, che è il modello teorico che permette di studiare, di capire, di attuare e di promuovere percorsi interculturali. Si arriva così alla definizione di pedagogia interculturale come convivenza, rimescolamento e invenzione di storie.

Convivenza come possibilità che tutte le storie possano tra loro convivere, essere ascoltate, accettate, rispettate.

Rimescolamento perché, altrimenti, non ci si muove in una prospettiva interculturale, ma multiculturale, o multistorica, di semplice compresenza, giustapposizione di storie diverse, senza che esse interagiscano tra loro. La pedagogia interculturale, invece, è un approccio che intende promuovere interazioni e confronti tra storie e cultura e diverse, che intende promuovere la messa in comune e l’ibridazione delle storie. Ciò è possibile perché – e lo aveva già spiegato molto tempo fa Propp – anche storie lontane fra loro, che ci lasciano significati e messaggi diversi, hanno una struttura simile sulla cui base si può operare il rimescolamento.

Infine, la pedagogia interculturale è invenzione di nuove storie, cioè è un’operazione creativa per la quale da più storie nasce una nuova storia.

La pedagogia interculturale, in quanto incontro di storie e di racconti, ha a che fare con una sorta di istinto, è un atteggiamento mentale per certi aspetti istintivo perché l’attività narrativa appartiene alla specie umana.

Noi siamo naturalmente attratti dalle storie. Si pensi, per esempio, al fatto che la sera, dopo una noiosa giornata di lavoro, la maggior parte delle persone si abbandona sulla poltrona, davanti alla televisione, per sentire, per vedere storie altrui. Un digiuno di storie, un impoverimento della esperienza narrativa e di ascolto, del resto, corrispondono – lo sostengono soprattutto gli psicobiologi – ad entrare in una situazione a rischio di patologia e disagio. Non poter raccontare ed ascoltare storie produce una situazione di malessere.

L’attrazione “istintiva” per la narrazione, implica che non si possa non essere colpiti dalle storie altrui, dalle storie che vengono da lontano: si possono avere idee politiche contro la società interculturale, ma le storie altrui, le storie lontane ci affascinano.

In questa prospettiva, i non interculturalisti, coloro che non amano rimescolare le storie, sono più stupidi. Sono più stupidi perché non hanno una attività di carattere cognitivo efficace dal punto di vista dell’ascolto e della produzione narrativa, in quanto queste capacità, per crescere, hanno bisogno di contaminarsi. Infatti, se il bambino ha bisogno di sentire sempre le stesse storie, in età adulta, la tendenza naturale dovrebbe essere quella che si volge all’arricchimento delle conoscenze, all’ascolto di storie sempre nuove.

Perché le storie sono tornate di moda? Perché oggi, sempre più, e non solo in rapporto ai bambini stranieri, si parla di storie, di autobiografie?

L’anno scorso, per aderire a questa sempre più forte domanda cognitiva, è stata persino presentata la Libera Università dell’Autobiografia, oggi molto frequentata. Anche nella scuola c’è una “fame” di lavoro didattico basato sul racconto di storie; persino alcune circolari ministeriali fanno riferimento a questo. Se, per alcuni aspetti, un movimento in questa direzione era già presente in alcuni movimenti storici, come la cooperazione educativa, che ha sempre prestato attenzione alla dimensione del racconto, ora esso sta dilagando. Perché tutto ciò?

I motivi sono essenzialmente due. Il primo di essi riconduce a una controtendenza di natura culturale. Quanto più noi viviamo in una società nella quale le relazioni umane si muovono all’insegna della solitudine; quanto più è difficile incontrarsi, conversare, condividere quella che, per millenni, è stata una tradizione (la tradizione orale, il raccontare dei nonni, la narrazione attraverso la quale noi tutti abbiamo imparato a parlare a capire); tanto più aumenta la diffidenza nei confronti dell’altro – la situazione paradigmatica di questa condizione è la difficoltà, l’imbarazzo a guardarsi in faccia quando ci si incontra, per strada, in autobus, in treno – tanto più c’è nostalgia per l’incontro con le modalità arcaiche della narrazione. In altre parole, di fronte alla spersonalizzazione, all’anonimato di questo tempo, la prospettiva narrativa o autobiografica rappresenta il desiderio di restaurare rapporti umani. Il rapporto umano, infatti, si basa sulla narrazione e il raccontare la propria storie di vita costituisce un desiderio di affermazione della propria unicità, del proprio volto, della propria storia.

Il secondo motivo è di ordine teorico, ed è legato alla crisi del paradigma positivistico-osservativo, basato sulla osservazione del bambino. Da circa quindici anni, infatti, questo approccio è entrato in crisi, a causa dei ripensamenti teorici sviluppatesi nell’ambito di tre discipline – antropologia psicologia e filosofia – alle quali si è associata la pedagogia.

L’antropologia è la scienza degli uomini e delle donne in contesti culturali particolari. In quest’ambito, Gregory Bateson – uno studioso molto attento, oltre che ai contenuti delle culture, ai processi mentali che sottostanno ad esse, dunque alle modalità attraverso le quali una mente elabora una cultura – ha portato l’attenzione sulle storie, sostenendo che noi pensiamo e apprendiamo attraverso storie.

In ambito psicologico, è importante il contributo Jerome Bruner. Egli denuncia il tradimento della psicologia, e ammette di averla lui stesso tradita. L’errore, per Bruner, è stato credere che gli uomini pensino per classificare, per ordinare e per organizzare ciò che vedono e ascoltano, mentre la natura di esseri umani si esprime nel pensiero orientato alla ricerca e all’attribuzione di significato. Per Gazzaniga, uno psicologo italo- americano di scuola bruneriana, il nostro cervello si prefigge, innanzitutto, lo scopo di interpretare, cioè di mettere in connessione diversi elementi.

Si pensi al primo incontro con un’altra persona: noi siamo propensi a collocare questo individuo in schemi di significato; lo etichettiamo, lo interpretiamo, mettiamo in relazione degli elementi. Ciò avviene anche quando pensiamo di sospendere il giudizio. Questa etichetta, le “mappe” che noi usiamo per etichettare, sono frutto della nostra storia di vita, di varie etichette che noi abbiamo affibbiato e che ci sono state affibbiate.

L’ultimo elemento viene dal pensiero filosofico. Il filosofo francese Paul Ricoeur ci dice che l’identità di ognuno, la storia di ognuno non è mai il prodotto di un atto individuale, egocentrico, ma è sempre il risultato di tutti gli incontri vissuti nel corso dell’esistenza. In altre parole, il Sé di ciascuno è il risultato di tante combinazioni, di tante interazioni, di tutte le esperienze acquisite in famiglia, nei vari ambiti di vita. Dunque noi dobbiamo ascoltare e rispettare le storie degli altri perché esse sono parte della nostra identità. Inoltre, Ricoeur ci dice che il Sé si costruisce anche attraverso storie, le storie che ci hanno raccontato da bambini e, in questo senso, converge con Beizon e Brumer nell’attribuire grande importanza alla narrazione: egli sostiene che il nostro Io più vero consiste nell’io narrativo e si esprime solo attraverso il racconto: noi siamo i nostri racconti e, del resto, quando noi pensiamo ad un amico, non pensiamo forse alle sue storie, a quello che ci ha, o non ci ha, raccontato?

Finora abbiamo usato indifferentemente i termini storia, racconto e narrazione. In realtà ci sono delle differenze. Si può parlare di storia quando ci si imbatte in avvenimenti: le storie sono degli eventi, dei fatti – reali o fittizi – che divengono oggetto di discorso. Il racconto è, invece, l’insieme degli avvenimenti, la concatenazione di fatti. Infine, la narrazione è definibile come la relazione fra il soggetto che narra e il suo pubblico: è l’atto del narrare e presuppone l’esistenza di un interlocutore.

Ma cosa implica la svolta narrativa?

Significa passare dalla classificazione, dall’osservazione del bambino all’ascolto di narrazioni. Ciò implicherà anche un cambiamento di metodo e strumenti: non ci si servirà più di test e questionari, ma ci si avvarrà del colloquio. Colloquio non solo verbale: per esempio, si può chiedere ai ragazzi di raccontarsi attraverso il racconto, le immagini, o anche attraverso il movimento del corpo. L’ascolto delle storie di vita ci consente di decifrare, di scoprire varie dimensioni.

Innanzitutto, ci permette di capire chi siamo, chi siamo stati e chi probabilmente saremo. Quando ci facciamo raccontare una storia noi non ci occupiamo soltanto di conoscere quale è stato il passato, felice o infelice, di qualcuno, ma, in questa narrazione, possiamo tentare di scoprire quali potenzialità e possibilità ci sono in quella storia.

In secondo luogo, la narrazione di se è una rappresentazione del mondo interno ed esterno. E’ una finestra sulla nostra interiorità, ma è anche una co-costruzione di narrazione, derivata dal rispecchiamento che ciascuno di noi traduce rispetto all’ambiente di provenienza.

Se la narrazione è importante per tutti lo è particolarmente per il bambino straniero che spesso si trova a vivere delle crisi interpretative. La crisi interpretativa si verifica quando non si riescono più ad interpretare gli eventi e le persone; accade nei momenti difficili della vita, ma accade anche, in un modo meno invasivo, quando qualcuno ci chiede un parere e noi non abbiamo un’opinione. Gli stranieri, proprio in relazione al loro essere stranieri, sono soggetti a rischio di crisi interpretativa, in particolar modo i bambini, che non hanno ancora costruito uno schema interpretativo forte, in grado di reggere a sollecitazioni di questo tipo. Il bambino finisce per non riconoscersi più nella sua storia – da qui la resistenza a raccontare di sé o a “rubare” le storie altrui – non si sente più soggetto, laddove essere soggetto significa dare senso, interpretare. In questa situazione, il compito dell’educatore non è dare un’identità al bambino ma aiutarlo, attraverso la narrazione ad interpretare, a tornare ad interpretare.


Bibliografia

– G. Bateson, Ecologia della mente (trad. It.), Feltrinelli, Milano 1982

– J. Bruner, La ricerca del significato (trad. It.), Bollati Boringhieri, Torino 1991

– D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina, Milano 1996

– D. Demetrio, Pedagogia della memoria, Meltemi, Roma 1998

– D. Demetrio, Agenda interculturale. Idee per chi inizia, Meltemi, Roma 1998

– D. Demetrio, Il gioco della vita. Trenta proposte per il piacere di raccontarsi, Guerini, Milano 1997

– M. S. Cazzaniga, La mente inventata. Le basi biologiche dell’identità della coscienza (trad. it), Guerini, Milano 1999

– D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, La Nuova Italia, Firenze 1992

– D. Demetrio, G. Favaro, Bambini stranieri a scuola, La Nuova Italia, Firenze 1997

fonte: “Per “fare” educazione interculturale” Centro COME

~ di bambinidelmondo su gennaio 26, 2009.

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