Il letto di Maddalena

Gemma Croxatto

  • Introduzione
  • Maddalena
  • Il letto, il fuoco, la cucina
  • La scuola
  • Domenico e i suoi racconti
  • L'America
  • La chiesa, zia Matilde
  • I racconti di Angioletto
  • La missione, le rogazioni
  • La primavera
  • La minestra di cavolo e il castagnaccio
  • Il bucato
  • Il merciaio, l'ombrellaio, il magnano
  • La legna
  • Il cucito e il ricamo
  • San Rocco
  • Il carnevale, i ravioli
  • La settimana santa
  • Le galline
  • La torta di riso
  • La Pasqua
  • Gli acquisti a Borghetto
  • Una morte
  • La benedizione delle case. le Quarantore
  • Mamma Angela
  • La puerpera
  • Lettere
  • Il burro, il formaggio, la ricotta
  • Pomeriggi domenicali. Le scarpe
  • I "maggi". Ragazzi e ragazze. Il matrimonio
  • Viaggio a Levanto
  • Nell'orto
  • Lo strame
  • I vigneti
  • La torta di erbe
  • Vecchi amici e ricordi
  • La "levà". La caccia
  • La fienagione
  • I giochi dei bambini
  • Lisetta e Maddalena
  • Le erbe aromatiche e medicinali
  • Le ciliegie. Sciroppi e liquori
  • Sant'Antonio
  • La mietitura
  • Le patate. Le cipolle. Frittelle di fiori di zucca
  • Il bagno nel torrente. La pesca
  • Sere estive
  • La Madonna del Carmine
  • La legna. Irrigazione dei piani
  • La festa di San Rocco
  • I frutti dell'estate
  • I funghi
  • Settembre
  • Roverano e Soviore
  • La vendemmia
  • La festa di San Michele
  • La raccolta delle castagne
  • Maìn
  • Filastrocche e ninne nanne
  • La raccolta delle olive
  • Ripresa del ciclo agricolo
  • Le campane
  • Natale
  • L'uccisione del maiale
  • Solitudine
  • Introduzione

    Ci sono due cose durature che possiamo lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali.

    Hodding Carter

    Carissimi Pierluigi, Laura, Sabina, Andrea, Silvia, Lucia, Giulia, Cecilia,

    ho visitato recentemente a Brugnato "Il baule della nonna", una piccola mostra di cose antiche, i cui promotori si sono evidentemente ispirati alla frase di Hodding Carter, perchè figurava in bella evidenza, scritta a mano sulla pagina di un quaderno, in mezzo alle suppellettili esposte.

    Mi è sembrata molto significativa e trovo che interpreti proprio l’idea che avevo quando ho cominciato per voi questa rievocazione della Cassana dei vecchi tempi: lasciarvi radici, farvi sentire più fortemente il legame con la terra che è stata dei nostri antenati e dove molti di noi riposeranno un giorno.

    Tutti avete trascorso lunghi periodi della vostra infanzia (le estati dorate, qualche festa natalizia), dai nonni, in questo paesaggio essenziale caratterizzato da poche cose e molto verde.

    Erano giorni spensierati, di totale libertà, in cui il contatto con la natura vi ha regalato molte esperienze: la nascita degli agnellini e dei gattini dei quali avevate cura, il dolore per la loro morte, la conoscenza immediata dei cicli stagionali, il canto dei grilli e delle cicale che accentua il silenzio della campagna, i giochi alla "Cappella" o sull’albero di mimosa, qualche amicizia durata nel tempo, qualche emozionante simpatia, le serate in cui per la prima volta era permesso rincasare tardi, momenti di solitudine pensosa e raccolta in compagnia di un libro nella piazzetta i San Rocco, il bagno nel canale o nel Vara, la raccolta delle more, la ricerca dei funghi, la vendemmia, il profumo delle erbe selvatiche.

    Per voi, soprattutto i più grandi, già entrati nel tempo dei ricordi, Cassana non ha solo una connotazione fisica facile da richiamare alla memoria (basta chiudere gli occhi per vedere il profilo inconfondibile delle colline), ma è il luogo dove si desidera tornare, anche per pochi giorni o per poche ore, per una recherche la cui madeleine può essere il fumo di un camino, il gusto della minestra di cavolo, il profumo del castagnaccio cotto tra le foglie, l’odore pungente della "canùa" che eapora nelle sere estive.

    Ma la Cassana più autentica è quella di prima della guerra, quando parole ed usi nuovi non ne avevano ancora contaminato il linguaggio e lo stile di vita.

    E’ la Cassana che non avete conosciuto e che ho voluto ripensare per per voi attingendo ai ricordi dei nonni e frugando nella mia memoria.

    Questo libretto non è però un saggio sulle tradizioni della nostra cara campagna, corredato da studi storici e frutto di ricerche negli archivi, ma un racconto che, pur restando strettamente fedele ad usanze, oggetti e modi di vita, si sviluppa attorno ad una figura immaginaria di donna, Maddalena, ed abbraccia il tempo di un anno agricolo.

    Mi è stato detto che Maddalena fu l’ultima abitante di Castello, una frazione di Cassana da tempo abbandonata e ormai ridotta ad un mucchio di rovine, dove talvolta ci hanno condotto le nostre passeggiate.

    Un giorno, fotografando i vecchi muri coperti di edera, abbiamo trovato in un angolo la testata di un letto di ferro, con i suoi riccioli in buono stato-ad uno soltanto mancava la voluta finale - e il tondo, ancora intatto, che un tempo doveva essere dipinto.

    Ce lo siamo portato via, sottraendolo al degrado, tra matte risate e il rischio di una pericolosa avventura,' da quel momento per noi‚ il letto di "Maddalena".

    Sono trascorsi alcuni anni e Maddalena è diventata un personaggio della mia immaginazione, che l'associa a vecchie foto di donne del primo ‘900, a vicende contadine e storie di emigrazione in America,' eccola quindi filo conduttore di queste pagine.

    E' una contadina dalla vita umile, simile a quella di tante donne che vissero a Cassana nel passato, ma, diversamente da loro, oppresse dalla fatica quotidiana al punto di non avere la possibilità di riflettere su se Stesse e sulla propria vita, ha la fortuna di poterlo fare e interpreta così l’animo delle sue coetanee, forti e coraggiose, sensibili e capaci di grandi sacrifici.

    Il sentimento religioso che accompagna ogni momento della sua giornata richiama la pietà e la devozione delle donne della nostra famiglia, nonne e bisnonne, che vissero di fede in Dio e di amore al prossimo.

    Naturalmente l'interesse maggiore è rivolto alla vita del paese, ai Suoi ritmi lenti e per tanto tempo immutati, alla sua operosità alla sua semplicità‚

    La Cassana qui rievocata è quella dei primi decenni del nostro secolo, quando in paese non c'era l’acqua corrente e neppure la strada, ma la sera in ogni casa si diceva il rosario ed erano vive le

    tradizioni che purtroppo vanno perdendosi, come le parole del dialetto e il loro Suono aspro, ormai addomesticato e quasi confuso con gli altri della zona, dove, prima, costituiva invece un'isola.' a Cassana in fatti si‚ Sempre pronunciata la doppia zeta nelle sillabe in Cui i paesi vicini hanno la esse.

    Le azioni di Maddalena, quelle delle altre donne, degli uomini, dei bambini, gli oggetti, l'abbigliamento, i cibi, rispecchiano le abitudini di una volta e nel racconto vengono fuori un po' in sordina, e perciò‚ vanno Scrutate con attenzione e curiosità.

    Le filastrocche e le ninne nanne di quell'epoca hanno cullato anche i vostri sonni, cantate dalla nonna Virginia che ce le ha trasmesse; mi auguro che possano fare addormentare anche i vostri figli.

    I sapori delle antiche ricette di cucina sono gli stessi che vi deliziano ancora e che sarebbe bello continuare a riprodurre.

    Il legame con il passato si allargherà così al futuro.

    Cassana vi sollecita sempre a tornare, rispondete al suo richiamo quando ne avete la possibilità.

    Ritornateci per sentir rinascere in voi lo stupore di fronte al miracolo della primavera, quando la prima erbetta spunta nei campi, i poggi ritrovano i loro umili e splendidi fiori e le tenere gemme del fico si alzano sulle punte dei Suoi rami Storti come in un'offerta,' per assaporare la pace e il silenzio antico dei boschi per immergervi nel buio dello campagna, la notte di San Lorenzo, e Scrutare il cielo in cerca di stelle cadenti, come da bambini; per cullare il sogno di un orticello da coltivare e di una vita semplice,' per riassaporare i cibi che la nonna vi ha tante volte preparato e accendere il fuoco nel camino,' per vedere se Sono cresciuti i noci piantati dal nonno e se il ponte dell'Oro ‚ ancora in piedi per essere di nuovo tutti insieme, magari a disporre i fagioli sulle cartelle della tombola, la sera di capodanno,' per trovare conferma che attraverso lo scorrere degli anni i semplici appagamenti di un tempo Sono ancora ottenibili e godibili.

    Anche la chiesa vi aspetta, dove hanno pregato generazioni dei nostri vecchi, e il cimitero, al quale si può salire su da San Rocco attraverso i campi, giusto per arrivarci con in mano un mazzetto di margherite.

    Non è solo un luogo ad invitarvi, ma tutto un mondo di affetti che potrà rivivere, insieme con la vostra infanzia (privilegiata, rispetto a quello, solo cittadina, di tanti vostri amici).

    Ricordo che, quando, da bambini si veniva in campagna ogni estate, dal finestrino della corriera guardavamo i paesi, aspettando con ansia di arrivare a Borghetto; a mano a mano che ci si allontanava dalla città le case apparivano sempre più rustiche e, ad un certo punto, non avevano più persiane.

    Quello era il segno che il viaggio era quasi finito e il cuore ci balzava in petto per l’emozione.

    So che anche a voi accade qualcosa di simile uscendo dall'autostrada al casello di Brugnato.' E’ la gioia di riappropriarvi delle vostre radici

    Le vostre ali, già saldamente strutturate o in via di formazione, a seconda delle varie età; sono basate (o lo saranno) sui valori che abbiamo cercato di farvi apprezzare ~ la fede in Dio, la dedizione al prossimo e al dovere, la difesa della pace, la solidarietà tŠ, il rispetto delle idee e delle culture altrui l’amore per la natura e per l'arte, il gusto dello studio e della conoscenza, l'impegno civile, la volontà di sottrarsi al consumismo superficiale ed invadente, il sapersi mettere in discussione, la ricerca Sincera della verità,

    Con affetto vi abbraccio e vi auguro BUON NATALE

     

    Cassana, 1998

    Foto A - La Via. Casa dei nonni Dario e Virginia


    Maddalena

    Il tempo era cambiato.

    Maddalena lo aveva avvertito subito, appena alzata, ancor prima di spalancare gli scuri che ogni sera puntualmente accostava per lasciar fuori, nel buio, la consapevolezza della solitudine.

    La porta sul ballatoio rimaneva invece aperta la notte, e dalla finestra della scala le giungeva il richiamo dell'alba, ovattato d'inverno, luminoso ed eccitante in primavera e in estate.

    La Sera precedente le stelle fitte e limpide avevano promesso un'altra bella giornata; da una settimana infatti il cielo era chiaro e un sole pallido avvolgeva il piccolo villaggio, senza riuscire però a scaldare le pietre grigie delle vecchie case e a sciogliere il ghiaccio della fontana.

    Ora, invece, grosse nuvole dalle forme bizzarre e mutevoli correvano, spinte dal vento, verso la collina di Roverano.

    Aprì la finestra lentamente, restia all'impatto col gelo dell'inverno, ma non sentì freddo: l'aria era quasi tiepida e odorosa di terra e d'erba nuova.

    Respirò con gli occhi chiusi quel sentore di primavera, immaginando le viole fra i ciuffi delle loro foglie a cuore, a ridosso dei muri a secco, le primule gialle sulla sponda del torrente, giù a valle, e il filo d'acqua della fontanella tornato a scorrere, finalmente libero dalla morsa del ghiaccio.

    Si sciacquò le mani e il viso con un brivido, versando l'acqua nella catinella smaltata, decorata a grandi fiori azzurri; poi, nell'atto di prendere il pettine, incontrò con lo sguardo lo specchio della toeletta.

    Le venne incontro un viso sfiorito dagli occhi ancora giovani, grandi ed intensi.

    Quel viso a chi apparteneva? Quanti anni ci erano voluti perché fosse tessuta quella sottile trama di rughe e devastata la purezza delle linee?

    E i capelli, una volta morbidi e luminosi ed ora così rigidi e scoloriti.

    Si chiese se quello tosse il Suo vero volto, oppure una maschera costruita dal passare del tempo perché‚ si persuadesse a ritmi più lenti e pacati, si orientasse verso mete di rassegnazione, mentre il cuore non aveva Smesso di cercare, dentro di sé tracce della giovinezza.

    Fissava con sguardo perplesso quell'immagine estranea che improvvisamente prese ad oscillare, come riflessa in un'acqua mossa; i lineamenti si distesero, la massa dei capelli si fece più folta e scura.

    Maddalena si voltò lentamente verso il cassettone e ritrovò quello stesso giovane viso, incorniciato da una sottile striscia di metallo dorato che, nella parte superiore, s’intrecciava in un fiocco: la sua foto, un po' sbiadita, di quando aveva sedici anni.

    La fotografia la rappresentava seduta su una poltroncina di legno a braccioli, dallo schienale scolpito, le mani appoggiate in grembo, sui lo sfondo indefinito di un giardino, certamente una parete affrescata dello studio fotografico.

    Se lo ricordava quel viaggio in città.

    Era scesa fino a Borghetto, prima che facesse giorno, attraverso la costa della Cavà, sul sentiero di cui le erano noti ogni sasso, ogni radice d'albero dove il piede potesse poggiare con sicurezza.

    Il vetturino avrebbe dovuto trovarsi sull'Aurelio, alle "Due Acque", punto di confluenza del torrente Pogliaschina con il canale di Cassana; infatti la stava aspettando, in compagnia di due giovani che, in prossimità delle nozze, andavano a La Spezia per "comprare gli ori".

    Naturalmente lei non era sola, ma affidata alla zia Matilde, "l'uomo" della famiglia e sorella della mamma, con la quale vivevano da quando papà Davide era partito per l'America assieme allo zio Giovanni.

    Angela e Matilde erano tornate ad abitare sotto lo stesso tetto, temporaneamente, dicevano, ma come se non si fossero mai separate e non dovessero farlo in futuro.

    Più che la mamma , la proteggeva e la sorvegliava la zia che non si stancava di ammonirla a non comportarsi come le altre ragazze del paese, "lisciàndre", "scurlùzzue", "sciarbèlle", "carlisciùne", che avrebbero pagato care le conseguenze della loro condotta leggera e troppo disinvolta.

    Maddalena aveva desiderato e chiesto ripetutamente di avere una fotografia; la sua amica Virginia già ne possedeva più d’una, in diverse pose.

    Ma lei, obiettava la mamma, è ricca e può permetterselo.

    Tuttavia aveva acconsentito, approfittando del fatto che occorreva andare in città a provvedersi di stoffe perché‚ era tempo di pensare al corredo.

    E poi, chissà, una fotografia di Maddalena, spedita al marito, avrebbe forse potuto compiere il miracolo di farlo tornare, dopo quindici anni di assenza.

    Continuò a fissare il ritratto: si vide pensosa, con lo sguardo diritto e volitivo; indossava un vestito Scuro guarnito di pizzo, aperto sul collo per mostrare la catenina d'oro del battesimo.

    Maddalena sentì che anche quell'immagine di ragazza le era estranea non meno di quanto Io fosse la figura apparsa nello specchio; non vecchia, dunque, non giovane.

    Si sentiva senza età, o piuttosto in un’età capace di abbracciare, senza porli i in contraddizione, l'incanto della giovinezza, gli stupori, le curiosità, la voglia di scoperte dell'adolescenza con la quiete degli affetti, un vago senso di inutilità e precarietà di ogni

    Cosa, la pace interiore e un equilibrio ormai abbastanza stabile che aveva conferito persino ai Suoi movimenti la pacatezza - non proprio lentezza - che ora la distingueva.

    Quanto tempo separava la fanciulla del ritratto e la donna matura dello specchio; anni sgranati in un rosario di avvenimenti senza rilievo, di quotidianità apparentemente insignificanti, ma che tuttavia l'avevano costruita e modellata.

    Si chiedeva quali circostanze avessero determinato la decisione di vivere sola, quella voglia di indipendenza e contemporaneamente il desiderio di essere utile agli altri che la rendeva così diversa dalle donne della sua età, appagate per i molti figli e rassegnate ai tanti dolori.

    C'erano in lei - ne era ben consapevole - una tensione che, pur senza toglierle la pace, la teneva interiormente all'erta, e un interrogativo che non aveva ancora trovato risposta: che Senso aveva la sua vita Sottratta alla condizione comune del matrimonio e di una numerosa famiglia?

    La domanda era sempre sospesa nella sua anima, insieme alla persuasione di un impegno da compiere.


    Il letto, il fuoco, la cucina

    Rassettò il letto dalla testata di ferro battuto dove il tondo centrale conservava le tracce di un dipinto ormai rovinato, ma che lei aveva bene impresso nella mente perché‚ si era abituata a

    contemplarlo fin da bambina, quando, la sera, aspettava che la mamma la raggiungesse per dormirle accanto.

    Ora, alla fioca luce dell'alba, poteva scorgerne soltanto le linee principali, mentre il resto della raffigurazione era affidato alla memoria: una giovane donna seduta nella veranda, con accanto un cestino di margherite, leggeva una lettera con aria assorta - o forse il foglio le era caduto in grembo?

    Un nastro candido le ornava i capelli e il vestito di un rosa cangiante cadeva in dolci pieghe fino alla punta delle scarpette.

    Smosse il saccone pieno di foglie di granoturco che emanò la sua fragranza un po’ acre ed un leggero fruscio; bisognava rimescolarlo ogni giorno per evitare di dormire a contatto con le dure assi di legno.

    Ancora pochi mesi e il contenuto del sacco sarebbe stato rinnovato con altre brattee, dono della sua amica Lisetta che seminava il granoturco nel piano, lungo il corso del canale, dove le

    pianticelle potevano essere irrigate facilmente e venivano su alte e robuste, con i ciuffi biondi e rossi sulle pannocchie vigorose.

    Raccolse il testo, avvolto in un pezzo di stoffa, con cui aveva scaldato il letto; sganciò dal muro il lumino ad olio che aveva rischiarato la stanza la Sera precedente e che lei aveva spento con un soffio prima di dormire.

    Nella sua casa la luce elettrica non era stata installata perché‚ la mamma e la zia si erano mostrate restie alla novità per anni ancora, da quando in paese ormai quasi tutte le famiglie ne usufruivano.

    Avevano continuato a servirsi del lume ad olio, facendosi gli stoppini con i fili tolti alle vecchi pezze di stoffa, per aver luce sufficiente a cucinare, rammendare e filare, nelle sere d'inverno.

    Possedevano anche una lumiera a tre beccucci e una lanterna in cui si poneva la candela accesa, per proteggerla dalla pioggia e dal vento; soltanto negli ultimi anni avevano acquistato una lampada a petrolio.

    Lei allora era lontana e al suo ritorno dall'America trovare ogni cosa come l'aveva lasciata era stato rassicurante, anche se l’abitudine a maggiori comodità le faceva pesare il doversi rifornire d'acqua alla fontana e cucire per lunghe ore, la sera, alla tremolante fiammella del lume o della candela.

    Però, aveva accettato, sebbene a malincuore, la loro ostinazione, dovuta al timore di non riuscire a far fronte a nuove spese e, in parte - Maddalena ne era convinta - all'orgoglio di un'autosufficienza puntigliosa e tutta femminile.

    Sebbene la spesa per la luce incidesse in piccola parte sul bilancio delle famiglie di Cassana, perché‚ la corrente elettrica alimentava soltanto alcune piccole lampadine in ogni casa, era ugualmente temuta la ricorrente visita di Maxinettu, delegato a leggere il contatore.

    Tra qualche settimana però, avrebbe goduto anche lei di questa comodità; la mamma e la zia Se n'erano andate, a poca distanza l'una dall'altra, e nella casa vuota il lumino non bastava più a tenerle compagnia.

    Scese in cucina a tentoni, con in mano il lume da accendere; bisognava aggiungere olio, allungare lo stoppino e sfregare il fiammifero sui mattoni irregolari dell'impiantito.

    Non fu facile ottenere la fiamma perch‚ l'aria della notte, penetrata attraverso la gattaiola, aveva inumidito il pavimento.

    La luce venne su dapprima incerta, poi si rischiarò con un guizzo, riportando al loro aspetto quotidiano gli oggetti vicini: la secchia di rame si avvivò di riflessi cangianti; attraverso il vetro della brocca Si poté‚ scorgere il livello dell'acqua; i ferri del lavoro a maglia, sul tavolo, brillarono nella semioscurità; le mele nel piatto presero colore.

    Fu subito ridestato anche il fuoco nel caminetto, sul grande zoccolo di mattoni dove poggiavano gli alari, il treppiede, le molle, la paletta di ferro, il soffietto, e sul quale pendeva la catena annerita dal fumo; le braci della sera, infatti, erano ancora rosse sotto la cenere e bastò ravvivarle con alcuni rametti di erica.

    Per accendere il fuoco nel forno e nel camino Maddalena prediligeva l'erica; le piccole foglie aghiformi avvampavano subito, scoppiettando, Senza fumo, e i rami più grossi mantenevano a lungo fiamma e calore.

    Le piacevano anche le radici dell'erica, dai ceppi grandi e dalle forme strane; c'era in paese chi scavava profondamente nel bosco per estrarle dal terreno e venderle a prezzo vantaggioso: servivano per scolpirvi le pipe.

    balia piccola finestra sul vicolo il giorno stentava ad entrare e la luce più viva era quella del fuoco: una luce calda e confortante, che animava le cose e riempiva la cucina di ombre, fonde negli angoli, leggere ed oscillanti al centro della stanza.

    Sulla parete di fronte al camino si disegnava riflesso il merletto di carta traforata, eseguito con le forbici, che pendeva dalla mensola della cappa, tutto occhielli e punte, leggero e fantasioso come una trina vera.

    Nella piattaia appesa al muro sopra la panca, il vasellame dal fondo chiaro, a disegni riproducenti alberi, uccelli e giardini, ben appoggiato al listello di legno, luccicava al riverbero del fuoco.

    I bicchieri e le tazzine stavano invece nell’ombra della piccola credenza Scavata nello spessore del muro e chiusa da sportelli di vetro; sul ripiano Superiore del camino poggiavano il macinacaffè e i barattoli del sale e dello zucchero.

    Le piaceva la sua cucina, a cui il gioco mobilissimo delle ombre e il guizzo della fiamma davano ora un aspetto fantastico. Volle prolungare quel momento incantato gettando sopra le braci alcuni rametti di alloro dalle grandi foglie lucide e odorose; subito fu una festa di luce e un gradevole aroma di bosco si diffuse nella stanza.

    Quel profumo le ricordò la festa del "fuoco nuovo".

    Che gioia provava da bambina, quando, nell’ultima notte dell'anno, sulla piazzetta del paese si accatastava l'alloro, raccolto in piccoli fasci, insieme con la "canùa" e il ginepro, e si bruciavano crepitanti, avvolti da mille scintille.

    Lei si divertiva allora a smuovere i legnetti accesi, con un lungo bastone, allontanandosi poi rapidamente per non essere investita dall'ondata delle fiamme; i bambini facevano a gara a chi facesse sollevare le scintille più in alto, fin sopra i tetti.

    Durante l'inverno Maddalena ripeteva il rito nel suo focolare, ma le dispiaceva sacrificare i ginepri e cogliere gli steli dell'elicriso privi di fiori e rinsecchiti per il freddo; così per creare il suo piccolo miracolo domestico, si accontentava di una manciata di foglie d'alloro.

    Le davano ugualmente fragranza e scintille, la magia del fuoco; fu contenta che l'incanto si fosse rinnovato ancora una volta.

    Si volse verso la madia; era un mobile grande e robusto, con un ripiano, coperto, per impastare il pane e le tagliatelle; e un cassetto profondo, contenente i sacchetti di farina di grano, di mais, e di castagne.

    Maddalena vi conservava il pane, avvolto accuratamente in un panno di tela ruvida perché‚ non si asciugasse troppo; e le focaccette di granoturco, già pronte per essere cotte, che preparava ogni giorno.

    Ne prese una liscia e perfettamente rotonda, che pose fra due testi di terracotta, dopo averli fatti arroventare sui ceppi accesi, poi mise sul treppiede il bricco con l'acqua.

    Tra poco l'aroma del caffè sarebbe venuto a confortarla: i chicchi, abbrustoliti precedentemente e conservati in un vaso di vetro, saltellavano frantumandosi negli ingranaggi del macinino.

    Poi la polvere fragrante, raccolta nel piccolo cassetto, fu versata nella cuccuma dove l'acqua già bolliva, e, dopo un breve tempo di sedimentazione, la bevanda tonificante fu pronta.

    Era sabato e bisognava fare il pane per la settimana.

    Nella madia era pronta una piccola quantità… di pasta dall'odore acidulo, che Si conservava otto giorni e serviva per la lievitazione dell'impasto successivo.

    Maddalena estrasse dal sacchetto la farina, la passò al setaccio per eliminare la crusca più grossa e la impastò con acqua tiepida leggermente salata, unendovi il lievito.

    La lavorò a lungo, schiacciandola col palmo delle due mani e con i polsi, spingendo verso il tondo della madia e tirando a s‚ con forza la massa elastica e soda sul ripiano dove la nonna, la mamma e zia Matilde avevano preparato per anni il loro pane.

    Ora l'impasto doveva lievitare e, perché‚ stesse al caldo, Maddalena lo copri con una tovaglia: poi andò nell'orto, dove i cavoli cappuccio erano grossi e invitanti, ma intestati dai bruchi che ne danneggiavano le foglie.

    Maddalena pensò che era l'ora di sottrarli agli insetti che li bucherellavano e ne portò a casa uno, il più bello, per cucinarlo ripieno.

    Quella pietanza, lo ricordava bene, era stata la favorita della mamma e piaceva anche a lei.

    Preparò il ripieno con un po' di salsiccia, tre uova, aglio, prezzemolo e maggiorana tritati, mollica di pane bagnata e strizzata, olio, sale, pepe, formaggio grattugiato.

    Poi immerse il cavolo nell'acqua bollente del paiolo e ve lo lasciò per qualche minuto, in modo che le foglie grinzose diventassero morbide e si potessero aprire ad una ad una senza spezzarsi.

    Quindi, cominciando dal cuore, dispose un po' di ripieno tra una foglia e l'altra.

    Fermò, legandole con il filo, le toglie più esterne e grandi, che coprivano il ripieno, e depose il cavolo, così imbottito, in una casseruola per cuocerlo in umido, nel soffritto di cipolla a cui aggiunse acqua e salsa di pomodoro.


    La scuola

    Passarono vociando davanti alla sua casa, dei ragazzetti che andavano a scuola; litigavano accusandosi a vicenda di aver rubato la legna per la stufa che doveva riscaldare la classe.

    La maestra voleva che ognuno portasse un ceppo, ogni giorno, ma il più delle volte i bambini dimenticavano di prenderlo nella legnaia di casa e si rifornivano per strada, entrando furtivamente nelle capanne dalle porte sgangherate o saltando nelle fasce lungo il sentiero, per sottrarre un tronco dalle cataste bene impilate o sfilare un palo della vigna.

    Maddalena sorrise.

    La confusione delle voci e delle parole degli scolari le mettevano allegria.

    Anche ai suoi tempi ci si comportava così, raccattando qua e là per la maestra la legna che non era mai ben asciutta e stagionata, e perciò affumicava la stanza, n‚ abbastanza abbondante; ed erano rimbrotti, e divieti di avvicinare alla stufa le mani rosse e gonfie per i geloni.

    La maestra era severa e non perdeva occasione per colpire con la Sua inesorabile bacchetta soprattutto i maschi, che facevano chiasso, non portavano a scuola libri e quaderni, avevano le mani sporche e marinavano le lezioni andando per nidi.

    Ma più lei li rimproverava, più quegli scatenati la ingiuriavano: "Baf-fo-na, baf-fo-na".

    L'anziana donna aveva infatti l'aspetto e il viso poco curati.

    Lei, Maddalena, non era stata un'alunna diligente, anche se le piaceva studiare, ma, dotata di vivace immaginazione, riusciva a cavarsela sempre bene.

    Le pesavano soprattutto i compiti scritti, lunghi e noiosi: pagine intere da copiare in bella scrittura, operazioni di aritmetica che non finivano più; ma doveva eseguirli, perché‚ la mamma era irremovibile e la chiudeva in una stanza dove in inverno era freddo e d’estate le mosche cadevano nel calamaio mescolandosi all'inchiostro in una disgustosa poltiglia.

    Come invidiava i suoi compagni che potevano evitare quella tortura perchè‚ costretti a condurre le pecore al pascolo o ad aiutare i genitori nei lavori dei campi; a lei, invece, toccava restare lì inchiodata al tavolo, davanti ai due quaderni, a righe e a quadretti, da riempire di parole e numeri.

    Le parole: le amava quando poteva comporle in disegni di frasi sue, quando la sollecitavano a fantasticare, con il loro suono evocativo, e, ancora, se dipanavano storie affascinanti o paurose.

    La storia di Genoveffa, ad esempio, e del perfido Golo.

    L'aveva letta, ai tempi della scuola, su un libretto stampato a grossi caratteri, insieme con l'amica Laurina; o la storia del Cavalier Grifù "Che una volta c’era e ora non c'è più".

    Per Laurina quelle letture erano state una vera risorsa negli anni avvenire, e le avevano fornito inesauribili argomenti per intrattenere schiere di figli e nipoti.

    La vicenda di Genoveffa, innocente e calunniata, faceva presa sui piccoli che soffrivano con lei l'orrore della prigione, l'abbandono nel bosco, il freddo e la fame, la trepidazione per il piccolo figlio, e infine gioivano della giustizia finale che premiava e puniva.

    I bambini chiedevano ripetutamente quella storia, raccontata con partecipazione dalla nonna, anima gentile e sensibile.

    Maddalena non aveva avuto nessuno da affascinare con le sue fiabe, ma le era sempre piaciuto sentirne raccontare.


    Domenico e i suoi racconti

    Rivedeva se stessa bambina, tra il giovane pubblico di Domenico, "u Burdigùn", il narratore e l’attrazione indiscussa del paese.

    Nelle lunghe giornate estive da giugno a settembre, sulla sua terrazza dalla forma irregolare, chiusa tra le case, in mezzo a due stradette anguste, Domenico trascorreva il pomeriggio su una sedia impagliata.

    Poiché‚ riusciva a camminare soltanto reggendosi su due stampelle, la terrazza, di sua proprietà e vicina all'abitazione, era il luogo dove più facilmente potesse arrivare, ormai da qualche anno.

    Se ne stava seduto con accanto i bastoni, e, a seconda della stagione, era circondato da ceste di agli da intrecciare, fagioli da sgusciare, sacchi di mele vizze o bacate da tagliare a pezzi per il pasto della mucca e del maiale; dopo la raccolta del granoturco passava le giornate a sfogliarlo ed emergeva appena dai mucchi fruscianti che arrivavano alti, fino al muretto sovrastante il vicolo "u caruggiu".

    L'età gli aveva schiarito il viso ed i capelli e la sua figura si assimilava al colore delle foglie del granoturco, fondendosi con gli elementi di quel paesaggio essenziale: la pietra chiara di sole, l'oro pallido delle pannocchie, il cielo estivo sovrastante.

    Lavorava in silenzio; solo si udiva ogni tanto, passando sotto la terrazza, il picchiettio del bastone, segno di un moto di stizza quasi inconscia, di non compiuta rassegnazione alla paralisi delle gambe, o di un nuovo corso dei suoi pensieri.

    Più frequentemente l'agitarsi delle stampelle sottolineava il momento più vivo dei suoi racconti, o significava risentita disapprovazione per chi osasse manifestare una meraviglia troppo accentuata, o, peggio, l'ombra di un dubbio.

    Accanto a lui si accalcavano i bambini, avidi di favole e storie che scaturivano dal Suo silenzio e incantavano i piccoli uditori, insaziabili nel chiedere e nell'ascoltare, ma gi… presaghi della paura che li avrebbe assaliti la sera, al momento di andare a letto.

    Infatti Domenico preferibilmente raccontava storie di morti, apparizioni di anime del purgatorio che chiedevano suffragi, reclamavano il dovuto ricordo con Segni tangibili della loro presenza e testimoniavano una vita ultraterrena ancora legata alle vicende umane.

    Quegli spiriti inquieti tornavano sulla terra per espiare i peccati proprio nei luoghi dove erano vissuti, e per chiedere preghiere.

    Non si limitavano ad errare frusciando nelle stanze, a battere ritmici colpi alle porte, a Spegnere i lumi con soffi di vento improvvisi, a svegliare i dormienti con bisbigli e voci soffocate; l'espiazione delle colpe richiedeva Spesso l'aiuto materiale dei loro figli o nipoti.

    Talvolta si trattava di riportare al suo posto un "termine", la grossa pietra che, nei boschi segnava il confine delle proprietà: durante la vita lo avevano spinto verso la terra del vicino per allargare la propria ed includervi qualche metro di bosco, l'equivalente di un Sacco di castagne, se il pendio della collina e la disposizione dei rami di un albero favorivano la caduta dei frutti in quell'avvallamento del terreno.

    Quando il peccato commesso consisteva nell'aver deviato a danno del prossimo la direzione di una sorgente, i parenti - spesso gli eredi - dovevano seguire nella notte l'ombra che aveva turbato il loro sonno e li guidava silenziosamente nel luogo della colpa, per ristabilire il giusto corso dell'acqua.

    Le apparizioni più spaventose, però, erano quelle delle anime dannate: da loro bisognava guardarsi.

    C’era un modo sicuro per riconoscerle: sparivano immediatamente, in una scia di zolfo e di fumo, non appena si faceva il segno della croce.

    Per i bambini i racconti di fantasmi erano argomenti irresistibili.

    Maddalena rivedeva se stessa e i suoi coetanei sulla terrazza di Domenico, a bocca aperta, assaporando il brivido di paura - piacevole perché‚ condiviso dai compagni alla luce del sole - che sottolineava quel viaggio fantastico, insieme con le anime dei morti, nei luoghi ben noti della vita quotidiana, che Domenico non mancava di precisare.

    La voce del narratore si udiva appena, nella quiete assolata della terrazza, accompagnata soltanto dal ronzio degli insetti e dal frinire delle cicale.

    Durante le pause della narrazione, il silenzio era accentuato dai sospiri che allentavano appena la tensione emotiva dell’uditorio: occhi sgranati di stupore credulo, mani tese alla ricerca del contatto rassicurante.

    Lo scenario abituale delle storie era il paese, con i suoi luoghi più suggestivi: la chiesa, il cimitero, i vicoli stretti dalle volte a botte, nella cui penombra si aprivano le porte delle case; le case stesse, dalle cantine oscure e i solai scricchiolanti, ingombri di casse e bauli, di patate e legumi, di noci, fichi secchi, mele verdi.

    I fatti si svolgevano solitamente di notte o alle prime luci dell'alba; ne erano protagonisti personaggi scomparsi da non molti anni, ancora vivi nella memoria di tutti, e, contemporaneamente già parte della leggenda paesana, rievocati nelle veglie, noti anche ai bambini.

    Così Giuseppe, Antonio, Rosetta, popolavano le fantasie pomeridiane dei piccoli ascoltatori, e soprattutto i loro incubi notturni.

    Maddalena aveva ancora in mente un episodio che per settimane le aveva impedito di andare a letto da sola.

    Ricordandolo, le pareva di risentire la voce del narratore che parlava pianissimo, costringendo i bambini a strisciare e sgomitare per guadagnarsi il posto più vicino alla Sua sedia.

    "Si era nell’ottavario dei morti, quando le notti sono lunghe e all'ora della messa è ancora buio.

    Caterina, come ogni giorno, si avviò alla chiesa; una vaga inquietudine l'accompagnava sul sentiero in salita, dove, stranamente, quella mattina non aveva incontrato nessuno.

    Le stelle ancora vive di luce sembravano rabbrividire con lei, attenta a cogliere il rumore di altri passi, a scorgere altre persone che si recassero all'appuntamento della preghiera: però non si vedeva anima vivo.

    Ma quando giunse al piazzale si tranquillizzò; una donna vestita di nero, che evidentemente l'aveva preceduta, se ne stava lì sul gradino più alto della scalinata, appoggiata al campanile, e sembrava aspettare che Pasquina, la madre del parroco, aprisse la porta della chiesa.

    Caterina le si sedette accanto, contenta di avere compagnia, ma, appena si voltò verso la donna per vedere chi fosse e augurarle il buon giorno, quella le porse in silenzio una mano che lasciò stampata sulla sua un'impronta scura e bruciante; poi sparì dissolvendosi nel buio.

    Poco dopo l'orologio del campanile batté‚ dodici colpi e Caterina ricordò di non essere stata svegliata, come ogni mattina, dal suono delle campane, ma da una voce udita come in sogno, che la sollecitava ad alzarsi subito dal letto per non arrivare in ritardo alla messa.

    Rannicchiata sui gradini, tremante di freddo e incapace di muoversi per il terrore, aspettò da mezzanotte alle cinque che la chiesa si popolasse di fedeli.

    Non riuscì mai a dimenticare quella notte e quell'incontro, di cui le restava, indelebile memoria, il segno di fuoco nella mano."

    L'ultima parte dei Suoi racconti, che di solito coincideva con il momento più drammatico, Domenico lo pronunciava in tono ancora più basso, quasi un sussurro, e i bambini, attorno a lui, attraversati da brividi di terrore, sembravano sollevarsi pian piano per non perdere neppure una sillaba della storia affascinante e paurosa.

    Poi un colpo di stampella battuto sul pavimento riportava il piccolo pubblico a dimensioni quotidiane e reali.

    Non era notte, per fortuna, le galline lì accanto razzolavano al sole e ogni cosa apparteneva al mondo consueto, ben noto e rassicurante.


    L’America

    Altre storie le venivano in mente, sentite raccontare la sera nelle aie e sulle terrazze, mentre si sfogliava il granoturco o lo si sgranava, una volta seccato al sole.

    Alcune erano allegre, altre maliziose e provocavano ammiccamenti e risate, talvolta commenti volgari.

    Quando il narratore si spingeva troppo avanti nei particolari scabrosi, qualche nonna tentava di distrarre i bambini, o li allontanava con un pretesto.

    Il rumore delle foglie staccate contemporaneamente da una ventina di persone solitamente disturbava l’attenzione, cosicché‚ le storie si esaurivano presto e si preferiva cantare:

    fiorellin del prato, messagger d'amore,

    bacia la bocca che non ho mai baciato;

    fiorellin del prato, non mi dir di no!

    A quei tempi in paese si cantava spesso, soprattutto nella vendemmia, tra le vigne, mentre i grappoli riempivano le ceste, o durante la mietitura, quando gli stornelli volavano allegri a compensare la fatica.

    A Maddalena le canzoni d'amore regalavano momenti di grande dolcezza, rimasti sospesi nella sua anima e concretizzati in un incontro soltanto dopo molti anni.

    "Guardati dagli uomini - ripeteva zia Matilde - io li conosco; se dai loro conf idenza1 ti trascineranno sotto un poggio o in una capanna".

    Così se ne era andata in America, senza che un innamorato si addolorasse per la sua partenza.

    Come tutte le ragazze del paese, anche lei, a cominciare dall'adolescenza, aveva trovato ogni anno il ramo fiorito sotto la finestra, il primo giorno di maggio, segno - pensava - di amore non manifestato altrimenti o forse solo una galanteria rivolta alla bellezza della sua età; e si era rallegrata ogni volta della gentile consuetudine che le dava l'estro di fantasticare sull'ammiratore segreto per indovinarne il nome, confrontando idee e supposizioni con le compagne, in fuggevoli incontri.

    Ma un fidanzato vero non c'era stato mai.

    L’eco di quelle canzoni sentimentali l'aveva seguita nel lungo viaggio per mare verso l'America.

    Spesso Elena e Vittorio, suoi compagni di traversata, la sorprendevano sul ponte della nave, con gli occhi persi in quella vastità che la impauriva, e pieni di lacrime.

    Piangeva identificandosi con la protagonista di uno dei canti più comuni e struggenti dei cori paesani di quegli anni:

    Addio, care compagne, vi saluto;

    pregate un po'per me povera Lina.

    Io parto e vado via, non so se tornerò.

    Dalle lontane Americhe

    presto vi scriverò.

    Ancora negli anni seguenti, quando pure era già bene ambientata e contenta del suo lavoro, era sufficiente un frammento di melodia per ricordarle il paese, le care consuetudini, e gonfiarle il cuore di tristezza.

    Eppure era stata lei a decidere di andare in Argentina per vedere il padre e lo zio, lottando contro la mamma e Matilde, ormai rassegnate all'assenza e al silenzio dei toro uomini, e alle poche notizie che arrivavano tramite altri paesani emigrati.

    Maddalena aveva sentito voci inquietanti: si diceva che lo zio Giovanni si fosse fatto un'altra famiglia, sebbene continuasse ad inviare alla moglie piccole somme di denaro; e che suo padre, Davide, fosse molto malato.

    E quando Elena e Vittorio, da poco sposi, avevano deciso di tentare anch'essi la fortuna a Buenos Aires, dove già vivevano due loro cugini, lei aveva approfittato della compagnia ed era partita.

    Voleva vedere, costatare di persona, pronta ad affrontare delusioni e stenti, pur di sapere.

    Ormai era lei la più forte delle tre donne, doveva difendere i diritti di tutte.

    La madre l'aveva salutata piangendo: "Non ti rivedrò mai più".

    Zia Matilde, invece, aveva rinnovato la raccomandazione di non fidarsi degli uomini; "E se incontri quella carogna di mio marito - aveva aggiunto - digli che non ho più bisogno di lui".

    Lei aveva lavorato nel negozio di stoffe gestito dal padre e dallo zio, e, da quando Davide era morto, aveva diviso con Giovanni i buoni guadagni.

    Le piaceva maneggiare i tessuti, srotolare le lunghe pezze colorate, misurare le stoffe e immaginarie composte in abiti ed arredi, sentire la morbidezza della lana, la freschezza del lino; la ruvida trama della canapa le ricordava le lenzuola di casa.

    Aveva imparato a confezionare vestiti e a ricamare i corredi delle spose, ed ora che era tornata, questa abilità le procurava di che integrare la piccola rendita della somma portata a casa.

    Ritornando in paese si era presto abituata a ripetere i gesti quotidiani dell'infanzia e dell'adolescenza, a vivere secondo i ritmi delle stagioni e delle prescrizioni della chiesa.

    I molti anni trascorsi in una grande città non avevano offuscato il gusto del contatto con la natura, l'amore per le cose semplici, la gioia di preparare il pane con le proprie mani.

    Fu contenta di costatarlo ancora una volta.

    "L’America non mi ha cambiata - pensò - o forse mi ha insegnato qualcosa".

    Il suo paese, che i vicini di casa definivano con un po' di disprezzo "l'ultimo posto creato da Dio", lei lo amava con la tenerezza di chi ne è stato forzatamente lontano.

    Le case a schiera, spesso di pregevole architettura rurale, sviluppate verticalmente per risparmiare il terreno coltivabile, i piccoli orti soleggiati, le terrazze e i vicoli stretti sotto le coperture ad arco; i portali, in pietra arenaria, semplici ed eleganti, talvolta a tutto sesto e a sesto acuto; le cucine vaste e un po' scure, con le pentole di rame appese alla parete e la corona del rosario attaccata a un chiodo; questo era il paesaggio caro alla sua anima.

    Cassana era abbracciata da una corona di colline boscose e di monti più lontani, di cui si conoscevano il nome e gli umori; da loro infatti provenivano il bel tempo o la pioggia.

    Le nuvole sul campanile e sulla Peìna significavano temporali in vista; la neve sul Gottero portava gelo, ed infallibili erano le previsioni del tempo basate sulla presenza della nebbia:

    Quande a neggia a va au canà

    pigggete a zappa e va' a zappà;

    quande a neggia a va a muntagna

    piggete a zappa e va' a cavanna.

    Gli stessi terreni su cui si adagiavano le frazioni del paese avevano nomi cari e familiari, legati alla loro posizione e alle caratteristiche del luogo e dei prodotti: Uivella, Cavà, Costa, Muntàu, Casaìn, Vardenàa, Due vie, Forte.

    Poi c’erano i boschi: Trexenda, Grappà, Quella Veccia, Pàstine.

    Ad ogni nome era legato un ricordo.

    Foto B - I boschi di Cassana visti da La Chiesa


    La chiesa, zia Matilde

    Le campane che avevano prima suonato l'Ave Maria ripresero a battere per la messa: era il due di febbraio; festa della candelora, e Maddalena, dopo aver controllato la lievitazione del pane e aggiunto un grosso ceppo nel camino, si avviò… verso la chiesa.

    Lungo la strada Lisetta e Nettina le si affiancarono; poche parole fra loro, sul tempo inclemente che rallentava i lavori in campagna.

    La potatura delle viti era iniziata da più di un mese; era tempo di legare ai pali i tralci da frutto, ma bisognava aspettare che la temperatura si alzasse e l'umidità dell'aria favorisse il lavoro, poichè a causa del freddo secco i rametti, anziché piegarsi, tendevano a rompersi.

    Intanto gli uomini riposavano nelle cantine travasando il vino, e spesso ci scappava qualche bicchiere di troppo.

    Per le donne, invece, non c'era stagione di riposo.

    Limetta e Nettino, infatti, prima della messa , avevano già svolto una parte dei lavori della giornata, portando il beverone tiepido alla mucca, il mangime alle galline, le foglie più dure dei cavoli ai conigli; il maiale aveva mangiato il suo pastone di crusca e avanzi.

    I bambini si erano avviati a scuola, infagottati nelle maglie e calze tessute da loro e preparate con la lana filata nelle lunghe veglie invernali.

    No, per loro non esisteva requie - si lamentavano le due donne tranquille e rassegnate - e non c'era tempo neppure per le funzioni religiose.

    Oggi, la candelora, e domani, San Biagio, erano eccezioni: si andava per la benedizione della gola.

    Nella chiesa semibuia stavano in ginocchio gruppi di donne avvolte negli scialli scuri e con il capo fasciato dal fazzoletto; alcuni uomini erano rimasti in fondo, dietro le panche.

    Fu offerta e ricevuta con un inchino l'acqua benedetta, per l'ampio segno di croce che riconcilia con Dio.

    La messa era cominciata e, nell’impossibilità… di comprendere le formule latine, le donne sgranavano la corona con sommessi bisbigli: "Ave Maria... ora pro nobis peccatoribus", il latino del rosario essendo loro più familiare.

    Maddalena pensò che prima di Pasqua doveva recarsi a Brugnato, il centro più importante di tutta la valle, percorrendo a piedi i sentieri e poi la strada carrozzabile che portava al ponte romano, fino al convento dei Padri passionisti) tutti quelli che, in paese, praticavano la chiesa e la confessione, preferivano confidarsi con i frati del convento piuttosto che con il parroco.

    Sarebbe andata per ricevere l' assoluzione, ma anche per sentire parole di conforto: "Il Signore è sempre con te, non ti abbandona; è il Padre che veglia costantemente sui suoi figli; è il tuo pastore; se confidi in Lui non mancherai di nulla".

    Il suo confessore, Padre Raffaele, parlandole del Signore, riusciva sempre a darle conforto.

    Maddalena era consapevole che il contatto con Dio e la percezione di essere avvolta dal suo amore paterno erano il respiro della sua anima e orientavano le sue azioni quotidiane; era quello il motivo per cui, pur senza affetti familiari, non si riteneva meno felice delle amiche sposate e avvertiva la solitudine non come un buco nero che non era stato colmato, ma piuttosto come uno spazio aperto e disponibile in cui molti avrebbero potuto trovare posto.

    Negli anni della giovinezza, in America, nonostante gli avvertimenti di zia Matilde, si era fidata degli uomini e ora ne portava ferite che il tempo non aveva del tutto guarito.

    I grumi di amarezza si erano però sciolti senza indurirle il cuore che ne aveva ricavato tesori di esperienza: aveva imparato quanti fragile e labile sia l'amore umano, e non aveva più voluto sceglierlo come unico sostegno della sua vita.

    Si accorse che i pensieri vagavano liberamente, invece di concentrarsi nella preghiera; volle fare la Comunione e si unì sottovoce al sacerdote nell'invocazione che purifica il cuore: "Agnus Dei qui tollis peccata mundi... parce nobis Domine, exaudi nos Domine, miserere nobis".

    Anche le altre donne si accostarono all'altare pregando a fior di labbra, le mani avvolte nella corona.

    Al termine della messa ricevettero la candela benedetta che avrebbe protetto la casa dai temporali e dalle sventure; al brontolio del primo tuono si usava infatti metterla fuori della finestra e recitare dodici volte il Credo.

    5i pregava perché‚ la grandine non colpisse i teneri germogli delle piante da frutto, compromettendo il raccolto, e per essere salvati dai fulmini rovinosi che si abbattevano sul paese schiantando gli alberi e spaventando tutti.

    Prima di lasciare la chiesa Maddalena si volse verso l'immagine della Madonna del Carmine che, dal suo altare, sul lato destro dell'unica navata, raccoglieva i sospiri di tutte e per ognuna aveva una promessa di aiuto.

    Ricordò che la mamma aveva sempre portato al collo lo scapolare benedetto che ottiene la grazia di essere liberati dal purgatorio il primo sabato dopo la morte, secondo la promessa della Madonna a San Simone Stock; certo Angela era ormai in Paradiso.

    E la zia?

    Matilde era stata una donna forte a cui i dispiaceri avevano inasprito il carattere fino a renderla quasi scostante; la sfiducia negli altri l'aveva persuasa a risolvere da sola tutti i problemi: coltivava l'orto e il vigneto, curava il bestiame e trattava gli affari senza chiedere aiuto a nessuno.

    Avrebbe voluto rimandare indietro i denari del marito che ogni tanto le arrivavano dall'America; li tratteneva solo perché‚ potevano essere utili alla sorella e a Maddalena, ma li respinse dopo che la nipote era tornata al paese con una discreta fortuna.

    Passava altera attraverso le strade del villaggio, non scortese, ma distaccata, per creare un'invalicabile distanza tra sè‚ e gli uomini che sostavano sui gradini delle case durante la siesta, o la sera, dopo il lavoro.

    Da uno di loro, il marito, era stata offesa, perciò li accomunava tutti in un giudizio senza appello.

    Non amava neppure la compagnia della maggior parte delle sue compaesane: "Chiacchierone - diceva - buone a nulla se gli levi il marito di torno".

    I suoi occhi scuri mandavano lampi se qualcuno osava ricordarle Giovanni di cui non voleva sentir parlare e che considerava morto.

    Il suo rancore non si scioglieva neppure durante la messa: riteneva Dio corresponsabile del torto ricevuto e aveva chiuso il cuore anche a Lui.

    Maddalena non l'aveva mai vista assorta in una preghiera personale , nell'atto di chiedere aiuto o di confidarsi con la Madre dei dolori.

    Partecipava alle funzioni religiose della chiesa soltanto per adempiere un dovere, ma senza riceverne conforto; e col tempo l'amarezza dell'animo le si era impressa sul viso, indurendone i lineamenti.

    Zia Matilde non voleva essere compatita; sperava che giustizia fosse fatta, un giorno; perciò era attratta dalla statua di San

    Michele Arcangelo, patrono della parrocchia, che stava in fondo alla chiesa, vicino al battistero, dono di un emigrante che l'aveva spedita da Buenos Aires alla propria comunità nativa.

    La bellissima immagine rappresentava l'angelo giustiziere con la spada fiammeggiante in una mano e la bilancia nell'altra, in atto di valutare il bene e il male compiuto da ciascuno durante la vita, e di calpestare il "Maligno" che giaceva sotto i suoi piedi, sconfitto.

    Un giorno quella bilancia avrebbe pesato il tradimento di Giovanni.

    L’unico affetto che Matilde concedeva alla propria sensibilità era riservato alla sorella minore, Angela, e a lei, Maddalena.

    Le aveva amate e protette lavorando duramente per loro, andando anche "a giornata" dai maggiori possidenti del paese, nei periodi in cui occorrevano braccia per il raccolto.

    Qualche volta l'aveva accompagnata anche Maddalena, che, essendo bambina ed incapace di guadagnarsi la paga riservata ai braccianti adulti, non riceveva compenso, ma a mezzogiorno mangiava insieme agli altri, seduta accanto alla zia Matilde.

    Il pranzo arrivava, nei campi o nei boschi, in grandi canestri che le donne portavano sulla testa in perfetto equilibrio grazie anche all'uso del "varcu", un cencio arrotolato che si poneva sul capo, sotto l'oggetto da trasportare.

    Si cercava l'ombra o il sole, a seconda della stagione, per raccogliersi attorno al grande piatto comune contenente lo stoccafisso o alla zuppiera dei fagioli da cui ognuno attingeva con il proprio cucchiaio.

    Qualcuno, appoggiando al petto la croccante forma rotonda, affettava il pane, talvolta sostituito dalle focacce di granoturco o dal castagnaccio.

    Il fiasco col vino rosso, fresco di cantina, passava di mano in mano, e si beveva a canna, con sospiri di soddisfazione, dopo aver passato sulla bocca il dorso della mano.


    I racconti di Angioletto

    A Maddalena piaceva mangiare all'aperto e partecipare ai discorsi dei grandi; se si andava a lavorare da Angioletto, nella mezz'ora di riposo dopo il pranzo si potevano ascoltare i suoi ricordi di quand'era soldato di leva a Mondovì, o la storia dei papi, di cui era devoto lettore e che raccontava in tono favolistico.

    Maddalena era incantata dal suo talento di narratore, bravissimo nel rendere viva la scena e i personaggi del racconto:

    "Era d'ottobre, quando si veglia per alimentare il fuoco sotto le grate che reggono le castagne da essiccare; le notti sono lunghe in quella stagione, perciò uomini e donne cercano ogni mezzo per ingannare il tempo; si raccontano storie, si mangia e si beve.

    Un giorno Antonio, Giuseppe e Lorenzo decidono di preparare una cenetta per loro soltanto: vanno nel pollaio, afferrano un gallo, gli tirano il collo e lo spennano di nascosto, per cucinarlo e mangiarselo durante la notte.

    Il fiasco di vino è pronto in cantina, nascosto dietro la botte grande.

    Viene l'ora di cominciare la veglia e la famiglia al completo è riunita attorno ai fuoco.

    I bambini andranno presto a letto, ma bisogna trovare un pretesto per mandare via le donne che, forse perché hanno subodorato qualcosa, sono sospettose e paiono ben decise a non sgombrare il campo.

    Non resta che spaventare quelle sciocche che credono ai fantasmi e hanno paura dei morti.

    Uno dei tre ha l'intuizione necessaria.

    Va nel solaio dove sono ammucchiate le castagne, sposta cautamente una sbarra del graticcio ed introduce nel vuoto una gamba tinta di nero, facendola penzolare sul gruppo riunito attorno al fuoco.

    Tra il crepitio delle castagne che cadono e saltellano nel focolare posto in mezzo alla stanza sporgendo cenere, si ode una voce che viene dall'atto, rauca, forte e minacciosa:

    "A letto, a letto, donne

    che Dio ve lo comanda;

    se non credete questo,

    ecco vi qui una gamba"

    E' un fuggi fuggi delle donne e la cena e il divertimento sono assicurati".

    Quando raccontava esperienze proprie, ad Angioletto brillavano gli occhi e sulle sue labbra compariva un sorriso arguto:

    "Era qualche settimana che la mucca non mi dava più la stessa quantità di latte; non sapevo cosa pensare, perchè‚ la bestia mangiava avidamente l'erba secca e fresca, beveva e sembrava godere di ottima salute. Pensa e ripensa, mi venne il sospetto che qualcuno entrasse nella stalla di nascosto precedendomi nella mungitura, e si rubasse il mio latte.

    Così una sera, invece di andare a dormire, mi nascosi dietro la mangiatoia.

    Passavano le ore e io aspettavo.

    Ad un certo momento, proprio quando stavo per addormentarmi, udii dei passi e vidi che la porta della stalla si apriva lentamente.

    Ero fermo al mio posto, rannicchiato e quasi senza respiro.

    Improvvisamente la scorsi che veniva avanti con il lume in mano e si avvicinava alla mucca sdraiata davanti a me.

    Lasciai che la sollecitasse ad alzarsi, si accovacciasse per mungerla e riempisse il secchio; poi balzai fuori senza parlare.

    Il recipiente le cadde dalle mani e il latte si versò sullo strame mentre lei si buttava a terra in ginocchio e, tenendomi le braccia, esclamava: "Fa' di me quello che vuoi!".

    "La donna era disposta a tutto - e qui Angioletto sorrideva maliziosamene- ma io la lasciai andare".

    Non volle mai dire in pubblico chi fosse la mungitrice abusiva e perché‚ non l'avesse punita; ma l'immaginazione degli ascoltatori era orientata verso la stessa ripugnante persona, e tutti sapevano che Angioletto, oltre ad essere un uomo onesto, non aveva il gusto dell'orrido.


    La missione, le rogazioni

    Venne Marzo con la Quaresima.

    Per l'occasione il parroco aveva invitato i Padri Passionisti a tenere una Missione in paese, e due volte al giorno si andava in chiesa ad ascoltarli.

    Non tutti insieme, però: c'era la predica per gli uomini, quella per le donne, il sermone per i ragazzi e i giovani e la dottrina cristiana per i bambini.

    Maddalena era attirata dal racconto della vita di Gesù e da quello della sua passione; la Via Crucis, le spine, la morte atroce, il dolore della Vergine Maria: proiettava se stessa nel passato e si chiedeva se, avendo vissuto ai tempi di Gesù in Palestina, avrebbe fatto parte dei suoi discepoli, consolatrice come la Veronica e fedele come la sua omonima, la Maddalena.

    Ma i Missionari si soffermavano soprattutto sulla legge di Dio, i suoi comandamenti, il bene e il male compiuto dagli uomini e, per conseguenza, il premio della beatitudine eterna e le pene riservate ai peccatori.

    Le descrizioni dell’inferno non l'avevano mai spaventata, neppure da bambina, quando il parroco, durante il catechismo, si lasciavo andare a particolari impressionanti, e qualche compagno si lanciava in pittoresche e tremende raffigurazioni: Se vai all'inferno,

    i diavoli ti infilzano con la punta del forcone, poi ti buttano nell'olio bollente e in un fuoco che brucia la carne senza mai consumarla".

    Lei non vi si era mai soffermata; le forche dei diavoli, il fuoco, l'olio bollente le sembravano appartenere piuttosto ai racconti di Domenico che alle realtà religiose, pur credendo fermamente che Satana, come dice la Sacra Scrittura, si aggira in mezzo a noi "come leone ruggente, cercando chi divorare", e che esiste una punizione per chi rifiuta ostinatamente l'amore di Dio.

    Non pensava neppure troppo al Paradiso, di cui non si facevano descrizioni e che non riusciva ad immaginare se non come una gran luce.

    Non aspettava il premio né‚ temeva il castigo, semplicemente amava il Signore per se stesso, e perché Lui l'aveva amata per primo, nascendo in una stalla e morendo sulla croce.

    Il suo atteggiamento verso Dio era di gratitudine e di lode, espressione di un cuore umile che non si aspetta vantaggi, né ricompensa per la sua fede.

    Perciò non se la sentiva di recitare corone di giaculatorie come facevano le donne più pie del villaggio, che ad ogni invocazione speravano di guadagnare giorni e giorni di indulgenza, centinaia di giorni in meno da passare in purgatorio e da accumulare come passaporto per il momento del giudizio.

    Da quando aveva imparato a pensare consapevolmente a Dio, preferiva evitare le formule: la sua preghiera era semplice e veniva dal cuore.

    Terminata la Missione, i Padri eressero una grande croce di ferro nel mezzo del crocevia tra le frazioni Chiesa, Corneto e Castello, a ricordo dei giorni benedetti in cui tutti si erano accostati ai sacramenti e avevano promesso di cambiare vita.

    Anche quelli che in chiesa non ci andavano mai, quel giorno avevano collaborato a piantare la croce, scavando nel terreno e puntellandola alla base con grosse pietre.

    La data incisa nel ferro -1933- testimoniava l'inizio di un nuovo cammino spirituale della popolazione. Nei giorni seguenti la campana della chiesa suonò per le rogazioni; alla benedizione dei campi partecipavano tutti, uomini e donne, sia perché‚ veramente convinti che portasse abbondanza di raccolti, sia per timore di essere esclusi da un beneficio.

    Per tre giorni, all'alba, attraverso i sentieri si snodò la lunga processione, preceduta dal parroco che spargeva sui terreni l'acqua benedetta, ripetendo le invocazioni: "Ut fructus terrae dare et conservare digneris, te rogamus audi nos. A peste, fame et bello, a fulgure et tempestate, a flagello terraemotus ilbera nos Domine".

    Un chierichetto assonnato reggeva la bacinella in cui doveva essere immerso l'aspersorio, rischiando di rovesciarla ad ogni passo.

    Chi era rimasto a casa a custodire i bambini più piccoli o era troppo vecchio per camminare sugli stretti sentieri, non si sentiva escluso dall'importante rito, perchè‚ ad ogni finestra, ad ogni terrazza arrivava l'eco del lento litaniare: "Sancte Michael ora pro nobis, Sancte Raphaet, intercede pro nobis".

    Maddalena si era unita agli oranti, non perché‚ sperasse prosperi raccolti nei suoi campi, ma per sentirsi parte della comunità.

    I suoi terreni erano rimasti quasi completamente incolti da quando zia Matilde si era ammalata e non aveva più avuto la forza di zappare, seminare e curare il grano e il granoturco, portare sulle spalle la pesante macchina del verderame.

    Ora, però, che lei era tornata dall'America, sarebbero rifioriti; infatti li aveva dati a mezzadria, riservandosi di coltivare personalmente soltanto l'orto sotto casa ed alcuni campetti vicini.


    La primavera

    Già le fave e i piselli seminati nell'inverno erano prossimi al fiore; cominciò a fare i solchi per le patate, nella fascia più alta; ne aveva tenuto da parte un cesto per la semenza, lasciando che i germogli crescessero sulla buccia, mentre aveva cura di toglierli, appena spuntavano, da quelle che usava per cucinare.

    La terra asciutta e leggera si lavorava con la zappa senza molta fatica: depose nel solco le patate, intere o tagliate in grosse fette, ad una distanza di circa quindici centimetri l'una dall'altra, poi le ricoprì con la terra scavata.

    Le piaceva tracciare i solchi in un disegno preciso e geometricamente perfetto.

    Per eseguire questi lavori in modo giusto si affidava alla memoria, avendo osservato per tanti anni zia Matilde, e chiedeva consiglio ai vicini.

    Non si poteva sbagliare: il tempo della semina e del raccolto, della potatura e della preparazione del terreno era legato alle stagioni; ognuno nel villaggio si muoveva secondo ritmi comuni che anche Maddalena seguiva, rispettandoli.

    Cassana era infatti come una grande famiglia; tutti si conoscevano e si aiutavano; i bambini entravano e restavano liberamente nelle case; ci si prestava il sale, l'olio, il montone per la riproduzione delle pecore e lo sciroppo per la tosse.

    Solo alcune persone rozze e di mentalità ristretta vivevano chiuse nel loro piccolo ambito di parentela, facendo mistero delle disgrazie e delle malattie, ed escludendosi dall'amicizia e dalla solidarietà.

    In quell'inizio di primavera i Cassanesi erano nei campi intenti a curare le viti, zappando intorno alle piante, rinnovando i pali di sostegno e tirando i fili di ferro orizzontali.

    Maddalena usciva volentieri di casa fin dalle prime ore del mattino; non faceva più freddo ed era piacevole godersi il sole ancora un po' pallido, ma già capace di far spuntare dappertutto viole e margheritine.

    Le pecore brucavano l'erba nuova, fitta e verdissima, che copriva i poggi e le zone incolte; gli agnellini belavano dolcemente accanto alle madri.

    Nei fossi i ranuncoli creavano vivaci macchie di colore, là dove

    si raccoglieva l'umidità della pioggia; i peri i peschi, i ciliegi, i meli, mettevano tenere gemme e già si aprivano i calici bianchi o rosati della loro fioritura.

    Le nuvole si rincorrevano nel cielo mutevole di marzo, gonfie di vento, ombreggiando a tratti la campagna che rabbrividiva per un attimo, nel ricordo dell'inverno ancora vicino.

    Si era recata più volte a raccogliere trito di foglie secche, sotto i castagni, e ne aveva riempito sacchi e ceste; le avrebbe sotterrate nell'orto perché‚ erano un ottimo concime per le verdure.

    Anche il bosco si stava risvegliando: al bordo dei sentieri spuntavano i getti del rovo e delle rose di macchia, che i bambini, perpetuamente affamati, cercavano per mangiarseli, contendendoli alle pecore.

    Gli uccelli, che nei mesi precedenti erano stati quasi ridotti al silenzio dal freddo invernale, cominciavano a spiegare i loro canti ed erano in grande attività, preparando il materiale per costruire il nido; merli grossi e neri dal vivace becco giallo si avventuravano fin sotto le case, saltellando tra le verdure e beccando i semi pi— superficiali.

    Maddalena si chiedeva come avesse potuto mancare per tanti anni all'appuntamento con la primavera sulla collina di Cassana.

    Nella grande città affaccendata e distratta in cui era vissuta, le stagioni scivolavano via sulla sua anima senza che ne avvertisse il peso o la dolcezza.

    Ma ora era tornata all'intimità con la natura.

    Avrebbe lasciato che il suo cuore si intenerisse per ogni evento: il fiorire delle primule dai boccioli gonfi al centro della corona di foglie verde chiaro, i cori di uccellini che si levano da ogni albero e da ogni siepe, le macchiette azzurre delle uova nei piccoli nidi, la carezza del vento profumato di eriche e carico della lanugine dei salici.

    Maddalena amava fare grandi mazzi di fiori da portare a casa; era l'unica donna del paese a coglierli nei campi.

    Le sue amiche, Laurina, Angioletta, Lisetta, coltivavano sulle terrazze e nell'orto ortensie e garofani, rose e dalie, che innaffiavano con l'acqua in cui avevano lavato le verdure, utilizzandola una seconda volta, perché scarsa e preziosa.

    Quei fiori erano destinati alle tombe dei loro cari, che non mancavano di visitare ogni domenica, prima della messa.

    Ma l'incanto dei fiori selvatici sembrava sentirlo lei soltanto: andava a cercare le viole nei piccoli avvallamenti dove crescevano fitte, a macchia, e amavano immergersi nell'umidità del mattino e nel tepore del sole chiaro a mezzogiorno.

    Sceglieva, tra le margherite, quelle ancora in boccio, colorate di rosa sull'orlo dei petali che si sarebbero aperti a corona, rivelando l'oro del bottone.

    Coglieva i ranuncoli laccati di lucido giallo e i narcisi dal profumo penetrante.

    Non possedendo vasi adatti a raccogliere fiori, Maddalena ne riempiva tazze e bicchieri.

    Tutte le stanze di casa ricevevano allegria, e quella bellezza la consolava di non avere una primavera dorata che fiorisse nel suo intimo cuore.

    Da qualche settimana i commercianti arrivavano da La Spezia fino a Borghetto, alle "Due Acque", sull'Aurelia, per acquistare il buon vino di Cassana. I contadini lo portavano a spalle attraverso la costa della Cavà; talvolta il carico era affidato ai muli.

    Le botti andavano lentamente svuotandosi a mano a mano che il vino dal colore acceso fluiva limpido, dopo il lungo periodo di decantazione, nei barili da trasporto.

    Nelle cantine si facevano assaggi, apprezzamenti, confronti, previsioni e auspici di buoni affari.

    Nei carruggi gli uomini in crocchio non parlavano d'altro.

    Le donne attendevano di utilizzare il guadagno per gli acquisti

    necessari alla casa, i vestiti e le scarpe dei bambini, lo zucchero e il caffè, lo stoccafisso, per pagare il dottore e le tasse.

    L'imposta di famiglia era infatti lo spauracchio più temuto, insieme con la malattia; se non veniva pagata, l'ufficiale giudiziario si ricordava dei poveri contadini pignorando le loro povere cose, a cominciare dai paioli e dalle teglie di rame.


    La minestra di cavolo e il castagnaccio

    Dopo il ritorno dall’America, Maddalena si era riappropriata delle antiche ricette della cucina tradizionale.

    La minestra di cavolo era la sua preferita e decise di prepararla.

    Scese nell’orto dove ne aveva trapiantato in abbondanza e si aggirò tra i fusti ramosi, cresciuti quasi fino a raggiungere l’altezza di un metro.

    Scelse le foglie superiori, lisce e bislunghe, e staccò i getti laterali, più teneri.

    La stagione era avanzata; presto le foglie glauche, ricoperte dal loro strato cereo sul quale le gocce di rugiada restavano sospese e brillavano come diamanti, si sarebbero indurite ed avrebbero assunto un sapore troppo marcato per essere usate in cucina: infatti le piante erano già in fiore, con i grappoli giallochiaro che doravano i campi, come svettanti bandiere.

    Fece cuocere le foglie, tagliate a pezzi, per più di un’ora, in acqua salata, insieme con fette di patate che aggiunse nel paiolo quando il cavolo era già avanti nella cottura.

    Intanto preparò le tagliatelle: un impasto di farina ed acqua da lavorare con energia, e stendere in sfoglia sottile.

    La pasta doveva essere allargata sulla madia e ad ogni giro batteva sul legno disponendosi in forma circolare; per ottenere un tondo perfetto era sufficiente cambiare l’inclinazione del mattarello ogni due o tre colpi.

    Poi fece asciugare la sfoglia: ne sollevò l’orlo con le mani, da una parte soltanto, lo abbassò di colpo sulla madia in modo che, sotto, si formasse una grossa bolla d’aria.

    Un velo di farina gialla di granoturco, sparsa uniformemente su tutta la superficie, serviva ad isolare i vari strati della sfoglia, quando, dopo averla ripiegata su se stessa molte volte, l’avrebbe tagliata in nastri.

    Scolò le verdure e nell’acqua di cottura pose ad insaporirsi le tagliatelle, così morbide che un solo bollore bastò ad intenerirle.

    Poi la pasta, le patate e i cavoli, mescolati in una terrina, ricevettero la benedizione dell’olio d’oliva.

    La minestra era ottima appena pronta e deliziosa il giorno dopo, riscaldata; nelle famiglie se ne preparava un paiolo colmo proprio perché ne restasse; infatti quella leccornia era oggetto di vivaci contese all’ora di colazione, se ne era avanzata troppo poca.

    Soltanto raramente Maddalena cucinava per sé cibi che richiedessero un lungo tempo di preparazione; più spesso si accontentava di un pranzo e di una cena frugali e veloci: un uovo al tegamino con l’insalata fresca dell’orto, o un pezzo di formaggio che associava al castagnaccio.

    Per poterlo preparare nei testi secondo le antiche norme, alla fine di ottobre aveva raccolto le foglie mature dei castagni domestici e le aveva appese in dispensa, disposte una sull’altra e tenute insieme da un filo che le attraversava.

    Nei primi tempi dopo il ritorno dall’America, fare il castagnaccio non le era stato facile: aveva perduto la consuetudine dei gesti precisi, consolidati da secolare esperienza, e l’improvvisazione non giovava al buon risultato.

    Spesso le foglie di castagno bruciavano a causa dei testi troppo arroventati, o l’impasto versatovi sopra era eccessivo e debordava, risultando mal cotto.

    Maddalena ne era mortificata e volle impegnarsi a migliorare; la pazienza e l’intelligenza le avrebbero permesso di ritrovare le regole d’oro di quella cucina semplice, fatta di pochi elementi saporosi, che richiedeva attenzione e cura appunto perché non poteva contare sull’orpello delle spezie o sull’aiuto di salse ed intingoli.

    Ormai però il compito era diventato piacevole: metteva sul fuoco un fascetto di rami robusti che non cedessero troppo presto e vi sovrapponeva i testi da riscaldare, bene accostati fra loro.

    Poi setacciava la farina che, compressa nella madia, aveva formato grumi molto duri e grossi, buonissimi da mangiare, e la impastava con acqua e un poco di sale.

    Intanto preparava l’involucro per la pasta: immergeva in acqua calda le grandi foglie palmate di castagno affinché "rinvenissero" e potessero sopportare il calore senza bruciarsi.

    Quindi, con le molle, disponeva il primo testo sul gradino sporgente del caminetto; nella sua concavità appoggiava tre foglie leggermente sovrapposte, in modo che occupassero tutto il fondo; sulle foglie versava alcune cucchiaiate dell’impasto che ricopriva con altre foglie.

    Sul primo testo il secondo, poi il terzo ed il quarto.

    Maddalena non andava oltre, ma le donne del villaggio, che cucinavano per famiglie numerose, riuscivano ad impilare anche una dozzina di testi , perfettamente perpendicolari.

    Il castagnaccio era pronto dopo dieci minuti.

    Toglieva la copertura delle foglie che lo avevano inciso lasciandovi impresse le loro venature e lo gustava, caldo ed invitante, col suo colore bruno rosato e la sua dolce fragranza.

    Se la temperatura dei testi era giusta, le foglie si staccavano facilmente, senza rompersi e lasciare residui.

    Ma non sempre il calore si regolava in modo perfetto, così talvolta restavano aderenti alla pasta e bisognava raschiarle via con il coltello passando velocemente da una mano all’altra il disco bollente per non scottarsi.

    Quando capitava che frammenti di foglie rimanessero sul castagnaccio che si immergeva a pezzetti nella tazza della colazione, dopo pochi minuti venivano a galla, navigando sulla superficie candida del latte.


    Il bucato

    La vicinanza della Pasqua comportava le pulizie straordinarie della casa e i primi grandi bucati.

    D’inverno era impossibile immergere le braccia nell’acqua ghiacciata del torrente, così per due o tre mesi si ammucchiavano le lenzuola da lavare in grandi sacchi di tela, attingendo, per il ricambio, agli armadi e ai bauli, dove la biancheria di varie generazioni si era accumulata, corredo su corredo.

    Maddalena si era recata di buon’ora al canale insieme con Lisetta, per aiutarla a lavare le decine di capi ammucchiati negli ultimi mesi, e a riportare a casa le conche piene di panni bagnati, che erano un peso notevole da tenere in bilico sulla testa. Giunte in riva al torrente, scelsero due grosse pietre levigate dall’acqua, su cui strofinare la biancheria dopo averla insaponata; poi si inginocchiarono sulla riva.

    L’acqua era fredda ma non gelida e i movimenti rapidi per far scivolare il sapone su tutta la superficie dei panni, sciacquarli, strofinarli ancora e batterli con forza sul sasso, riscaldavano le dita arrossate.

    Che fatica.

    Dal greto le due donne tendevano le braccia verso la corrente, immergendovi lenzuola e federe, asciugamani e tovaglie, mentre sul pelo dell’acqua la schiuma ondeggiava in bolle iridescenti che si rompevano subito contro i ciottoli, e le idrometre navigavano silenziosamente tra le erbe acquatiche.

    Il bucato al fiume era l’occasione per uno scambio di confidenze.

    Lisetta aveva un pesante impegno di famiglia: il marito, quattro figli, la suocera ammalata; non aveva sorelle in paese e Maddalena era per lei un vero sostegno: le era infatti vicina nei momenti di maggiore necessità, badava ai bambini più piccoli, sostava a lungo nella camera di Giuditta, la vecchia donna costretta a letto dalla paralisi, che bisognava cambiare spesso di posizione per dare un po’ di sollievo alla sua schiena tormentata; all’ora dei pasti imboccava l’ammalata che negli ultimi tempi sembrava avesse smarrito la ragione e non riconosceva più nemmeno i familiari.

    Talvolta la aiutava anche economicamente perché pagare il dottore e le medicine diventava per Lisetta sempre più gravoso; era ben vero che il medico condotto, la cui istituzione risaliva a pochi anni addietro, avrebbe dovuto curare gratuitamente i meno abbienti, ma il possesso della terra, sebbene ridotta ad un modesto appezzamento, non permetteva alla sua famiglia di entrare nella categoria dei poveri; perciò la lunga malattia della suocera assorbiva gran parte dei profitti ricavati dalla vendita del vino e delle patate.

    A metà mattinata Lisetta e Maddalena poterono risalire il ripido sentiero della collina con le conche piene di panni bagnati sulla testa, per la seconda parte dell’operazione, la liscivia, che si faceva in casa.

    Il carico di tante lenzuola bagnate era notevole e le due donne faticarono a portarlo fino al punto in cui il sentiero, incassato in mezzo ai poggi, si apriva fra due sponde più basse, ad altezza delle spalle, e permetteva di appoggiare i pesi che si trasportavano dal fondo valle: corbe piene di granoturco, sacchi di castagne, fasci di legna, il bucato, appunto.

    Quello era il posto in cui tutti si riposavano qualche minuto.

    Tolsero il cercine dal capo e lo riavvolsero a ciambella dopo averlo gonfiato con ciuffi d’erba perché attutisse il più possibile il contatto con il fondo delle conche, alleviando il dolore del collo e del capo.

    Maddalena estrasse dalla tasca del grembiule alcune noci e due focaccette avvolte in un tovagliolo; Lisetta aveva portato pane e formaggio, e le due donne gustarono lo spuntino scambiandosi cibo e amicizia.

    Giunsero a casa. Il concone di coccio in cui si faceva la liscivia era già stato collocato in mezzo alla cucina, sollevato su due sgabelli.

    Era tanto grande che i bambini talvolta vi entravano tutti e quattro, di nascosto, col rischio di romperlo e di farsi male.

    Posero un lenzuolo di canapa sul fondo e, sopra quello, i panni lavati, ben distesi e sovrapposti, fino a riempire quasi il recipiente.

    Poi Lisetta andò a prendere il panno quadrato di tela fitta e robusta adibito alla liscivia e lo mise sopra la biancheria, curando che i lati sporgessero dalla circonferenza del concone coprendone il bordo.

    Vi rovesciarono sopra un secchio di cenere grigio chiaro, di legna d’ulivo, soffice ed impalpabile, sulla quale avrebbero versato l’acqua che bolliva nel "brunsu", appeso alla catena del camino.

    Le donne la fecero cadere con cautela affinché non traboccasse e potesse scendere fino in fondo lentamente, attraversando tutti gli strati del bucato.

    Questa operazione fu ripetuta molte volte: in fondo al concone, poco sopra la base, c’era un buco per la fuoriuscita della liscivia; lo si stappava e si raccoglieva nel paiolo l’acqua saponosa che veniva rimessa al fuoco per essere versata, di nuovo bollente, ancora sulla cenere.

    Soltanto a sera Lisetta smise di riscaldarla e lasciò che i panni stessero a mollo tutta la notte.

    La mattina dopo usò il liquido di risulta per lavare i capi più grossolani e i pantaloni da lavoro.

    La biancheria era pulita, morbida e candida: ora bisognava riportarla al canale per l’ultimo risciacquo.

    Maddalena e Lisetta si avviarono ancora insieme, nella gioia di una splendida giornata di sole.

    Dai boschi, subito oltre il letto del torrente, giungeva il profumo dell’erica e sulle rive le giunchiglie macchiavano l’erba di giallo.

    I ciliegi selvatici punteggiavano di nuvole bianche il dorso irsuto delle colline, dove i castagni non avevano ancora messo il manto verde delle foglie e lasciavano scorgere le tracce dei sentieri zigzaganti; i pini, invece, sulle sommità, mantenevano anche d’inverno il loro colore scuro e frastagliavano di piccole creste la linea di confine con il cielo.

    Il sole si era insinuato tra gli alberi delle rive creando giochi di luce sull’acqua trasparente.

    I panni furono sciacquati più volte, ritorti, e poi distesi al sole sopra i cespugli.


    Il merciaio, l’ombrellaio, il magnano

    Era arrivato il merciaio che non si era fatto vedere nei mesi invernali, con il suo sacco pieno di eccitante mercanzia.

    Se ne udiva il richiamo da ogni casa, e ben presto una piccola folla gli si fece intorno, curiosa e attratta dai suoi oggetti, alcuni utili, altri destinati alla vanità femminile o al divertimento dei bambini: elastici, bottoni, ditali, aghi e spilli, ferri da calza, filo di vari colori, pettini, forbici, fermagli, nastri, ciondoli e stringhe.

    Ogni donna sostò vicino alla merce disposta e allineata su di una panca, ogni bambino pretese un fischietto.

    Il venditore ambulante conosceva tutti in paese, perciò proponeva e consigliava confidenzialmente acquisti e accettava volentieri un bicchiere di vino dalle acquirenti che chiamava tutte indistintamente Maria.

    Maddalena si rifornì di filo per il suo lavoro di sartoria: stava confezionando alcuni abiti leggeri che sarebbero stati indossati a Pasqua.

    Comperò per Maria ed Anita, le due figlie maggiori di Lisetta, nastri rosa e bianchi con cui avrebbero legato le treccine il giorno della Prima Comunione.

    Le due piccole stavano infatti preparandosi al grande evento, frequentavano la scuola di catechismo tenuta dal parroco e chiedevano spesso a Maddalena di interrogarle per verificare la loro conoscenza delle formule che andavano studiate a memoria: "Chi ci ha creato? Ci ha creato Dio. Chi è Dio? Dio è l’essere perfettissimo , creatore e signore del cielo e della terra. Dov’è Dio? Dio è in cielo, in terra , in ogni luogo."

    Erano preoccupate, soprattutto Maria, del digiuno rigoroso che doveva precedere la comunione.

    "E se ci vola una mosca in bocca? E se, senza pensarci, beviamo una goccia d’acqua?"

    Consideravano la possibilità che l’ostia scivolasse per terra.

    "Se la particola cade sul pavimento della chiesa, non possiamo raccoglierla con le mani, bisogna tirarla su con la lingua."

    Maddalena sorrideva e le tranquillizzava, ricordando di aver provato le stesse paure e di aver trascorso una notte inquieta ed insonne, alla vigilia della sua Prima Comunione.

    Raccontava loro episodi delle vite di quei santi che ebbero più a cuore il culto dell’Eucarestia, come San Tarcisio, che si lasciò uccidere piuttosto che permettere la profanazione dell’ostia consacrata che stava trasportando sotto la veste; o San Filippo Neri che, celebrando la messa, vide un uomo che usciva di chiesa subito dopo aver ricevuto la comunione, senza aver convenientemente ringraziato e adorato il Signore.

    Sapendo che la presenza reale del Corpo di Cristo dura almeno un quarto d’ora dopo che ci si è comunicati, mandò subito due chierici con le candele accese in mano affinché lo affiancassero lungo la strada e facessero così onore all’Eucarestia che quell’uomo portava in sé, senza rendersi conto di essere un tabernacolo ambulante.

    Le due bimbe dal cuore innocente erano profondamente commosse da questi racconti e si disponevano ad accogliere Gesù pervase da ardente e candido amore.

    Qualche giorno dopo fu la volta dell’ombrellaio, del magnano e dell’arrotino.

    La buona stagione li aveva rimessi in cammino per i sentieri di campagna e visitavano i villaggi, dove erano attesi ed accolti con grande cordialità.

    I paioli e le pentole di rame dovevano essere stagnati all’interno; chiavi, serrature e gangheri, riparati; i piatti e gli orci rotti avevano bisogno di qualche punto di ferro; le stecche degli ombrelli, strapazzate dai venti invernali, aspettavano di essere sostituite.

    Gli artigiani dalle mani d’oro si sedevano sui gradini di pietra delle case o venivano ospitati su un’aia o una terrazza e la notizia del loro arrivo era subito divulgata dai bambini, curiosi della novità ed appassionati spettatori di quei lavori inusuali.

    Il magnano più di tutti li attirava, con il suo armamentario di pinze e graffette e per la sua abilità nell’accomodare le stoviglie e le grandi giare dell’olio.

    Si annunziava cantando una strofetta che ripeteva ogni tanto:

    Belle donne

    gh’è u magnan,

    se vué fa

    stagnà u tiàn

    Sostava nel carruggio, chiedeva ai bambini che gli portassero un po’ di stecchi per accendere il fuoco che ravvivava col "buffettu", un piccolo mantice, poi cominciava a stagnare le teglie.

    Fissava così saldamente i lembi dei piatti rotti che si poteva usarli come fossero nuovi.

    Le donne si consultavano su quali stoviglie far aggiustare, incerte se valesse la pena di spendere soldi per oggetti troppo vecchi o già riparati l’anno precedente, ma il magnano le incoraggiava, promettendo miracoli di abilità.

    Così era un affaccendarsi, un via vai allegro e rumoroso intorno a quel personaggio che, lavorando, canticchiava e rivolgeva ai bambini indovinelli e frasi burlesche.

    Utilissima ed attesa era la visita del "semenzìn", che girava per i paesi vendendo sementi di radicchio e prezzemolo e che, per "due palanche", ne misurava un ditale pieno.

    Foto C - Cassana. Un carugio de La Via


    La legna

    La primavera comportava nuove attività: si seminava l’insalata, si sarchiava il grano e, tra un solco e l’altro, nella terra smossa, si mettevano le "gniffre", radici bianche dal sapore forte che sarebbero state raccolte l’inverno successivo per l’alimentazione degli animali.

    Si curava la cova delle galline che, stando insistentemente nel nido ed emettendo un chioccolio particolare, dimostravano di voler chiocciare.

    Ma era anche tempo di pensare alla provvista annuale di legna, e la gente si era sparsa nei boschi, intenta al taglio degli alberi.

    Dal paese Maddalena poteva seguire il lavoro ascoltando il rumore delle accette che giungeva in un’ eco cadenzata.

    Tutti gli abitanti del villaggio erano occupati in quell’operazione: gli uomini abbattevano o potavano gli alberi, le donne raccoglievano la legna che legavano in fascetti con i flessibili rami dei salici.

    La legna veniva disposta in grandi cataste; dopo qualche mese di stagionatura sarebbe arrivata in paese, trasportata a spalle o a dorso di mulo, segata e successivamente fatta a pezzi, per essere bruciata nei caminetti e nelle stufe di ghisa.

    Qualche famiglia si era dotata di una teleferica che faceva scivolare tronchi e fasci, appesi al filo, fin sotto le case.

    Maddalena, pur possedendo qualche appezzamento boschivo, non partecipava al taglio degli alberi; durante l’estate riceveva la provvista di legna già preparata in pezzi e pronta per l’uso.

    L’asino del mezzadro infatti trasportava vicino a casa i tronchi e i rami che venivano poi tagliati in modo diversificato: i più lunghi servivano per il camino, quelli piccoli erano adatti alla stufa, i rametti sottili andavano bene per riscaldare il forno.

    Doveva però accatastarli nella legnaia ed era questa una fatica annuale che la occupava per una settimana intera, nell’impegno di disporli ordinatamente, alternando i ceppi più grossi ai pezzi minuti, i più resistenti a quelli più teneri, per avere legna mista a disposizione per tutta la stagione fredda.

    Come ogni lavoro, anche quello aveva le sue leggi di ordine e accuratezza e richiedeva amore e gusto del bello.

    Al termine della sua fatica la catasta appariva diritta, regolare, ben costruita; ogni pezzo si appoggiava al sottostante ed era in equilibrio per reggere gli strati successivi; l’incastro delle parti, evidente sul lato anteriore, era un disegno armonioso.

    Nella capanna adibita a legnaia era rimasta ancora parte della provvista dell’anno precedente: era legna forte, di rovere e di castagno, che non si consumava in fretta e forniva ottimo calore.


    Il cucito e il ricamo

    Di solito Maddalena si riscaldava soltanto con il fuoco del caminetto, sebbene trascorresse molto tempo nell’immobilità, seduta presso la finestra, intenta al ricamo.

    Quando le giornate erano particolarmente rigide, riempiva di legna il fornello della stufa, e di braci lo scaldino di terracotta.

    Lo teneva vicino al panchetto su cui appoggiava i piedi e ogni tanto vi accostava le mani intirizzite che non riuscivano più a dirigere l’ago.

    I più bei ricami li aveva realizzati d’inverno, quando il freddo e il maltempo costringevano a restare in casa giornate intere e in campagna non c’era nulla da fare.

    Lavorava su di un piccolo telaio, con accuratezza ed amore, sollecitata, più che dalla necessità di guadagno, da una forte esigenza creativa, di abbellire e decorare.

    Quando si immergeva nel suo fantasioso lavoro, le ore trascorrevano senza che se ne accorgesse e soltanto il buio la costringeva ad alzarsi per accendere la luce elettrica di cui ormai aveva dotato anche la sua casa.

    I corredi delle ragazze del paese e dei villaggi vicini passavano per le sue mani abili.

    Aveva un album di disegni che ricalcava sulla stoffa usando la luce naturale attraverso il vetro della finestra, e componeva in motivi sempre variati.

    I bordi delle lenzuola e delle federe venivano sfilati con pazienza per l’esecuzione dell’orlo a giorno, in cui i fili della trama, raggruppati in fascetti decorativi, formavano un disegno regolare.

    Sulle federe scriveva con il punto erba il nome delle spose e frasi augurali: Buon riposo, Buon giorno, attorniate da minuscoli mazzi di fiorellini eseguiti a punto avvolto.

    Traforava le tovaglie e gli angoli dei tovaglioli nel ricamo ad intaglio, ottenendo disegni simili al pizzo, forme di fiori e foglie delicatamente sagomate.

    Circondava di festoni le scollature e gli orli delle sottovesti ed eseguiva il punto ombra per ottenere un effetto sfumato sui tessuti di pelle d’uovo delle giacchettine da notte.

    Per sé non preparava biancheria perché il baule della mamma, quello di zia Matilde e il proprio contenevano il necessario per lunghi anni di vita domestica; ogni tanto, anzi, regalava qualche asciugamano dalle lunghe frange alle bambine di Lisetta, dopo aver ricamato sul lino le loro iniziali e un piccolo fiore.

    Le piaceva però adornare i propri vestiti della festa di colletti di pizzo che lei stessa eseguiva con l’ago, ripetendo talvolta la piccola civetteria sulle tasche e sui polsi.

    La creatività di Maddalena che liberava la fantasia inventando disegni sempre nuovi e giocando con l’accostamento dei colori, si esprimeva e si dispiegava in tutta la sua ricchezza soprattutto nel ricamare le tovaglie per l’altare e i piccoli teli di lino necessari per la celebrazione della messa.

    Fiorivano sulla tela spighe e grappoli, simboli dell’Eucarestia, e il calice con l’ostia sovrapposta, attraversata da una croce.

    Per la biancheria della chiesa usava filo bianco sottile, molto ritorto, che metteva in evidenza i chicchi di grano e gli acini d’uva, lavorati a punto raso.

    Stirava accuratamente i suoi lavori, ricami e opere di sartoria, usando sia i due piccoli strumenti di ghisa che dovevano essere scaldati alternativamente sul fuoco, sia il contenitore di ferro apribile, con il coperchio munito di manico di legno e le alte pareti forate, che riempiva di braci.

    Occorreva ricostituire il corredo di paramenti sacri della parrocchia di San Michele e pensare anche alle due cappelle: quella della Madonna alla Foce, dedicata anche a Sant’Antonio, e quella di San Rocco, posta a metà strada tra le frazioni della Via e del Prato.

    Una visita alla sacrestia l’aveva convinta che c’era proprio bisogno di rinnovare gli arredi, trascurati da tempo.

    Nella chiesa della Madonna si celebrava la messa ogni domenica per gli abitanti di Corneto, Piazza, Valle, Groppo, Poggiole; mentre quelli della Chiesa, del Castello, del Prato e della Via si recavano in parrocchia.

    La chiesetta di San Rocco, invece, restava generalmente chiusa, eccetto che nella festa del santo, il sedici agosto; però, passandole davanti, si poteva scorgere l’interno dalla piccola finestra con inferriata che si apriva su un lato della facciata.

    Foto D - Cassana. La cappella di San Rocco


    San Rocco

    Nella nicchia sopra l’altare San Rocco mostrava con il dito la piaga inflittagli dalla peste, contratta mentre curava generosamente gli ammalati.

    Anche questa statua, come quella di San Michele, era dono di un emigrante affezionato alla sua terra di origine e costituiva oggetto di ammirazione per l’eleganza della fattura e l’armonia dei colori.

    L’abito e il manto del santo, bordati di fregi d’oro per significare la dignità del suo ceto, il grigio ed ampio cappello da pellegrino, il bastone, il cane con il pane in bocca che miracolosamente ogni giorno lo aveva rifocillato quando, appestato a sua volta, era stato bandito dalla comunità e confinato in un bosco, creavano attorno alla figura, per altro popolare, di San Rocco, un’atmosfera fiabesca ed affascinante, resa più suggestiva dal panegirico del padre predicatore che, ogni anno, nel giorno della festa, non mancava di iniziare il suo sermone con la stessa frase che tutti già conoscevano e attendevano. "San Rocco nacque a Montpellier…"

    Il suono stesso della parola straniera, in un tempo in cui a Cassana si aveva l’orecchio solo al dialetto e la stessa lingua italiana si praticava quasi esclusivamente durante i pochi anni della scuola elementare per poi dimenticarla ben presto, bastava ad accendere la fantasia degli ascoltatori e a trasportarli lontano in compagnia del santo, nel suo pellegrinaggio di devoto romeo, attraverso boschi e lande deserte, città inospitali e insidie di briganti.

    La piazzetta quadrata, di pochi metri, antistante la cappella, era ombreggiata da un’acacia secolare che le regalava frescura d’estate e l’intenso profumo dei suoi grappoli di fiori bianchi nei mesi di maggio e giugno; fragili fiori che cadevano poi a pioggia, con i petali separati e sparsi, quando il vento scompigliava la chioma dell’albero.

    Maddalena ricordava quanto le fosse sempre piaciuto riposarsi sul muretto che da tre lati circondava la piccola piazza, stando sdraiata sulla pietra a fantasticare e osservando l’elegante disegno delle foglie ovali contro il cielo azzurro.

    Era un angolo tranquillo dove poche persone sostavano, recandosi nei campi sovrastanti il paese o, la domenica, andando a messa.

    Foto E - Statua di San Rocco

    C’era l’abitudine gentile, trasmessa da Laurina e Angioletta ai propri nipoti, di non passare mai davanti alla grande croce smaltata di verde, eretta in anni lontani davanti alla cappella a ricordo di una sacra missione, senza baciarla e deporvi qualche fiore raccolto lungo il sentiero.


    Il carnevale, i ravioli

    Gli elementi principali dell’ alimentazione dei cassanesi erano il pane, il castagnaccio, le focaccette di granoturco.

    Sulla tavola comparivano di solito minestra di verdure, frittata, formaggio, fagioli, baccalà e stoccafisso bolliti o in umido, uova, salame e salsicce, frutta secca e mele.

    La pastasciutta e la carne si mangiavano ordinariamente la domenica, giorno del Signore.

    Al di fuori delle solennità religiose, non si conoscevano nel villaggio altre occasioni da celebrare con il riposo e con banchetti. Anche i pranzi più succulenti avevano perciò poche scadenze fisse: Natale, Pasqua, Sant’Antonio, la Madonna del Carmine, l’Assunta, San Rocco, San Michele e la festa di tutti i Santi.

    Unica eccezione era il carnevale, ricorrenza dedicata agli scherzi, ai travestimenti e al ballo del "peligurdìn", una danza tutta saltelli e mosse vivaci che si faceva sulle terrazze, mentre i bambini giocavano a spaventare la gente portando in giro, la sera, zucche vuote con quattro buchi rappresentanti gli occhi, il naso, la bocca, in cui mettevano una candela accesa.

    Le donne allora preparavano i ravioli di erbe secondo l’antica tradizione.

    In febbraio-marzo le borragini avevano già spiegato le loro foglie ovali ricoperte di peli ruvidi e aperto le corolle dal bel colore turchino e se ne potevano cogliere in quantità.

    Anche le bietole selvatiche spuntavano in mezzo all’erba, negli orti e nei campi.

    Per fare i ravioli le due verdure venivano bollite insieme, poi strizzate, tritate sul tagliere, passate in padella con olio e burro.

    Vi si univa una salsiccia sbriciolata o la carne che era servita a insaporire il sugo, anch’essa sminuzzata con la mezzaluna; si aggiungevano olio e formaggio, sale, alcuni spicchi d’aglio finemente tritati, una manciata di fogliette di maggiorana.

    Il ripieno era pronto e lo si conservava per tre giorni in un recipiente di terracotta, tenendolo al fresco nella dispensa o appoggiato ad un davanzale esposto a nord, ben coperto e riparato dagli insetti.

    La domenica, il lunedì e il martedì grasso precedenti il giorno delle ceneri, si facevano i ravioli con una parte del ripieno preparato in anticipo.

    Se ne mangiava in abbondanza, ma non c’era il tempo di abituarsi a questa delizia e radicarsi nel peccato di gola perché il mercoledì successivo il parroco, ponendo sul capo di ciascuno tanta cenere che ricadeva sulla fronte, sugli occhi e sul naso, ammoniva solennemente: "Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris", il che significava anche l’inizio del digiuno quaresimale.

    Maddalena aveva imparato presto dalla mamma a disporre il ripieno sulla sfoglia, a distanza regolare, in mucchietti su cui ripiegava la pasta, separandoli poi con la mano disposta a coltello e tagliandoli con la rotellina che ne ricamava i bordi.

    Era solita preparare questa vivanda prelibata anche in Argentina perché il sapore dei cibi costituiva un legame importante con la patria lontana.


    La settimana santa

    Ma ora il carnevale era passato e anche la quaresima era prossima alla sua conclusione; si coglievano rami d’ulivo da portare in chiesa la domenica delle palme, e si verificava la crescita dei grani nei vasetti, tenuti al buio nelle cantine, per adornare il sepolcro.

    In poche settimane i teneri germogli del grano, dell’orzo e della segale si erano tramutati in lunghi fili pallidi cresciuti fitti fitti verso l’alto, in cerca della luce.

    Gli steli sottili formavano una massa cilindrica quasi bianca, appena velata di giallo alla base e tendente al verde verso la sommità; legati con un nastro colorato ad un terzo della loro altezza creavano un effetto molto decorativo, che ogni anno, il giovedì santo, si rinnovava per ornamento del sepolcro, sistemato sull’altare di sinistra della parrocchia, tra lumini circondati di carta rossa trasparente e candelieri dorati.

    In quel giorno la chiesa rimaneva aperta e i fedeli si alternavano nell’adorazione, individualmente e a piccoli gruppi.

    Si pregava in silenzio, si contemplava la passione del Signore, si ringraziava per il dono dell’Eucarestia.

    Maddalena amava quel raccoglimento e quel pregare senza parole che il giorno dopo, venerdì santo, sarebbe stato interrotto dalla lettura del "Passio", drammatica sequenza delle ultime ore di vita di Gesù, giudicato dai tribunali, schernito ed incalzato dalla folla che gridava il "Crucifige".

    I "perfidi giudei" avevano messo a morte Gesù e bisognava punirli; così, nel bel mezzo della liturgia, quando l’animo si disponeva a seguire la via dolorosa del Calvario, scoppiava tra le panche un putifero infernale di colpi battuti violentemente sul legno con strumenti metallici, (martelletti e "sgrizzue", ruote dentate che giravano con una manovella), costruiti apposta o improvvisati, che colpivano idealmente i responsabili della morte di Cristo.

    I bambini erano contenti di far chiasso e convinti di "ammazzare i Giudei".

    Il venerdì santo c’era obbligo di digiuno e di astinenza dalle carni; ma era giorno feriale, ed eccettuata l’ora della funzione religiosa, si lavorava in campagna, con i ritmi accelerati richiesti dalla zappatura dei campi e dalla semina delle patate che cadeva solitamente nella settimana santa; la fatica comportava la necessità di un’alimentazione adeguata, così per quel giorno erano entrate nella tradizione le frittelle di baccalà, che sembravano conciliare tutte le esigenze.

    Era molto semplice prepararle: naturalmente il pesce doveva essere messo a bagno giorni prima, per ammorbidirsi e perdere una buona quantità del sale che l’aveva conservato; poi lo si spinava e lo si riduceva in pezzetti da immergersi nella pastella, composta di farina e acqua, preparata in precedenza e convenientemente lavorata, che aveva riposato un’oretta, gonfiandosi un poco, quasi in una leggera lievitazione.

    La pastella col baccalà si friggeva versandola a cucchiaiate nell’olio bollente; le frittelle, dorate da un lato e poi velocemente girate, emergevano bionde e croccanti dalle bollicine.

    Allora si appoggiavano su di una carta assorbente, per pochi minuti, perché bisognava mangiarle ben calde.

    Un grande piatto rotondo le accoglieva, nel mezzo del tavolo, e tutta la famiglia intorno le infilzava con una forchetta o, preferibilmente, se le prendeva in mano.

    In questo modo, si diceva, erano più saporite.

    Le campane della chiesa tacevano tutto il venerdì santo e il sabato mattina, in segno di lutto; ma poco prima di mezzogiorno si levava dal campanile, diffondendosi sulla campagna, la loro voce vibrante che annunciava la resurrezione.

    La gioia di Pasqua era tanto più intensa quanto più profonda era stata la partecipazione alla sofferenza della croce e quanto più esprimeva la rinascita dello spirito, liberato dal pesante fardello del peccato.

    Al suono del gloria, quando le campane venivano "slegate", si correva alla fontana per lavarsi il viso con l’acqua purificatrice; tutti si bagnavano secondo il rito.

    I bambini più piccoli si inzuppavano i vestiti e bisognava portarli via di peso.

    Era la vigilia di Pasqua e bastava un suono di campana per intensificare, nell’animo già disposto a gustarla, la dolcezza di questa festa di rinascita che tutta la natura annuncia e che solo in campagna si può godere pienamente.

    Foto F - Cassana. Abside e campanile della chiesa di San Michele

    Le galline

    Predisporre il pranzo per la Pasqua includeva la preparazione della torta di riso.

    Perché riuscisse di ottimo gusto, occorrevano molte uova fresche, perciò la si mangiava raramente durante l’inverno e si cominciava a pensarci all’inizio della primavera, quando le galline riempiono i nidi dei loro doni.

    Nella stagione fredda si usava adoperare la scorta di uova sepolte sotto la calce o immerse nel grano; questo metodo di conservazione, antico e molto efficace, permetteva di averne sempre disponibili.

    Recentemente Maddalena aveva fatto costruire nell’orto, sotto l’alto ciliegio, un piccolo pollaio circondato da una rete a maglie larghe, con un bel nido coperto, nell’angolo più riparato.

    Le gallinelle che lasciava razzolare liberamente fuori per qualche ora, le regalavano ogni giorno alcune uova, ma quelle sventate non si curavano di deporle sempre nel nido, e le facevano trovare qua e là, dove capitava; talvolta rompevano i gusci col becco, per gioco.

    La sua amica Lisetta l’aveva consigliata nell’acquisto delle pollastre di buona razza, che cominciavano proprio allora a deporre le prime uova.

    Si aggiravano nel loro recinto pettorute e caute nel passo, orgogliose delle piccole creste rosse in evidenza sul capo, e Maddalena le viziava, portando loro più volte al giorno una manciata di granoturco, avanzi di pane o foglie di cavolo che beccavano con avidità.

    La riconoscevano da lontano e la salutavano al suo avvicinarsi con il grembiule ripiegato e pieno di leccornie per loro.

    Quando stava per aprire la porticina, si pigiavano contro la rete, insinuandosi l’una sotto l’altra, per figurare al primo posto.

    Maddalena lanciava il becchime dietro il gruppo, al centro del pollaio, così le piccole forsennate erano costrette a voltarsi arruffando le piume e si placavano, mangiando il granoturco; non del tutto, però, infatti, sebbene ci fosse abbondanza di cibo, trovavano modo di litigare , contendendosi lo stesso boccone.

    Poi Maddalena versava l’acqua fresca nell’abbeveratoio rotondo di pietra scavata, dopo aver rovesciato quella che restava del giorno precedente, piena di piumette galleggianti e piuttosto fangosa perché le galline ci zampettavano dentro volentieri; le pollastrelle saltavano allora sul bordo del recipiente occupandone tutta la circonferenza, non per bere, ma per specchiarsi vanitosamente nell’acqua pulita.

    Anche le nuvole si riflettevano nel piccolo cerchio d’acqua, inseguendosi nella danza vaporosa di aprile, che portava aria umida e cieli mutevoli.

    Maddalena si chinò per entrare nel pollaio, dirigendosi verso il nido

    Le uova delle sue gallinelle erano tanto piccole che bisognava usarne più del numero prescritto ; sembravano ovette di piccione e spesso Maddalena le regalava ai bambini, a cui piacevano molto; le infilavano sotto la cenere calda per qualche minuto, poi se le bevevano golosamente, dopo aver fatto con l’ago un buco alle due estremità per facilitare la fuoriuscita del tuorlo saporito e dell’albume appena rappreso.


    La torta di riso

    Era il momento di fare la torta di riso.

    Maddalena aveva deciso di prepararne due teglie grandi per darne una buona parte a Lisetta, ammalata in quei giorni per una brutta infreddatura, forse conseguenza del prolungato contatto con l’acqua del torrente in occasione del bucato; e qualche fetta a Rosina, un’anziana donna del villaggio che non aveva più la forza di scaldare il forno.

    Prese dalla dispensa, dove stavano le pentole di uso meno comune, le due grandi teglie di rame, lucide e ben stagnate all’interno; quelle che adoperava per cucinare per sé, più piccole, stavano appese alle pareti della cucina insieme con una vecchia forma per le ciambelle ed alcuni tegami, ed ora che il sole entrava dalla finestra, sfavillavano nel loro colore biondo rossiccio.

    Poi pesò il riso: un chilo esatto.

    Scartò alcuni chicchi ancora rivestiti dal loro tegumento e le pietruzze che la pilatura non aveva eliminato; per pulirlo bene, lo versò in una grossa insalatiera e lo fece passare fra le mani con attenzione.

    Per la buona riuscita della torta si doveva essere rigorosi nel rispetto della ricetta che stabiliva il giusto rapporto tra gli ingredienti , e mamma Angela era solita dire che non si poteva andare ad occhio.

    Perciò Maddalena misurò tre litri d’acqua, li versò nel paiolo con una manciata di sale ed accese il fuoco.

    Bisognava cuocere il riso badando a non farlo bollire troppo a lungo, infatti doveva rimanere consistente; così Maddalena fu attenta a non lasciarsi sfuggire il momento giusto.

    Aveva preparato sul tavolo la fiamminga più grande, appartenuta alla nonna, e un altro piatto piano molto capace; vi versò il riso senza scolarlo perché nella cottura aveva assorbito tutta l’acqua.

    Allargò la massa fumante nei due recipienti affinché si raffreddasse in fretta senza scuocersi e vi mescolò qualche cucchiaiata d’olio che avrebbe impedito ai chicchi di attaccarsi fra loro.

    L’operazione meno gratificante era quella di grattugiare il formaggio e Maddalena vi si accinse con pazienza.

    Per quella quantità di riso ne occorreva moltissimo, perciò dovette svuotare più volte il cassetto della grattugia; aveva mescolato il parmigiano con il pecorino, più saporito, che avrebbe alzato un po’ il tono del riso.

    Ora bisognava unire gli ingredienti in un recipiente abbastanza grande; optò per una conca di rame che li avrebbe contenuti agevolmente, permettendo i gesti necessari per rimescolarli e vi versò il riso ormai tiepido, il formaggio, le uova che dovevano essere dodici secondo la sperimentata ricetta; Maddalena però preferì aggiungerne alcune perché le sue galline sapevano fornirgliele solo molto piccole.

    Assaggiò e aggiunse sale finemente pestato nel mortaio di marmo.

    Mancava l’olio che avrebbe amalgamato i sapori e dato morbidezza alla torta; Maddalena non ne conosceva con precisione la quantità necessaria, ma sapeva che occorreva essere generosi, perciò lo versò attingendolo col mestolo direttamente dalla giara, rinunciando ad usare l’oliera dal lungo cannello.

    Mentre il ripieno si insaporiva, cominciò a preparare le sfoglie; non era necessario che l’impasto fosse consistente come quello delle tagliatelle, ma morbido, fatto con acqua tiepida ed olio.

    Bisognava lasciarlo riposare nella madia una buona mezz’ora avvolto in un panno, prima di lavorarlo, perciò Maddalena aveva a sua disposizione un po’ di tempo libero.

    Uscì nell’orto, portando con sé due fette di pane e formaggio – il suo pranzo – e una mela dalla buccia verde smeraldo, appena venata di rosso attorno al picciolo, profumata e invitante.

    Voleva restarsene un po’ all’aria aperta.

    Si sedette sull’erba asciutta, appoggiando la schiena al tronco del melo cotogno che le stendeva sul capo un alto ombrello di foglie di cui scorgeva solo la parte inferiore, chiara e cotonosa.

    Era una delizia starsene lì e lasciar scorrere il tempo guardando le lucertole che spuntavano dagli anfratti del muro a secco, avide di sole.

    S’intenerì sulle piccole creature dagli occhietti mobili e brillanti che non avevano altro compito che quello di vivere .

    Le sentì fraterne alla sua propria fragilità, seppure diverse per l’inconsapevolezza che le faceva muovere guidate solo dall’istinto, e accolte anch’esse, insieme con tutti gli esseri viventi, nella grande mano e nel grande cuore di Dio.

    Le briciole di pane avevano attirato le prime formiche ed anche alcuni passeri coraggiosi, rassicurati dalla sua immobilità.

    Ma il gatto bianco e nero, che considerava l’orto sua proprietà privata, li spaventò saltando giù dal muro con una lucertolina in bocca, ed essi volarono via in un frullo d’ali.

    Era trascorso il tempo necessario per il riposo della pasta e Maddalena la tolse dall’involucro di tela e la divise in due parti uguali, appallottolandole.

    Dopo aver sostato nell’orto ed essersi ritemprata al sole , non si sentiva più stanca e cominciò a lavorare energicamente sulla madia; provava però una spiacevole sensazione di buio e di chiuso e si consolò pensando che tra poco sarebbe uscita di nuovo per riscaldare il forno; la mamma infatti, contravvenendo all’usanza che lo poneva in cucina, l’aveva voluto all’aperto, vicino a casa, per evitare che si annerissero le pareti e il soffitto.

    Spianò una parte di pasta, avendo cura di riporre l’altra sotto una tazza perché conservasse la giusta umidità, e ne fece un disco sul quale passò ripetutamente il mattarello per assottigliarlo.

    L’appoggiò poi sul dorso di una mano tenendo le dita a ventaglio, e con l’altra l’allargava tirandola dolcemente per evitare strappi, finché la ridusse ad un velo.

    Foderò con essa una delle due teglie già unta d’olio e la ricoprì con metà del ripieno, stendendolo fino ad occupare tutta la superficie, poi vi ripiegò sopra l’orlo della pasta eccedente, formando un bordo pieghettato.

    Fece la seconda sfoglia e riempì allo stesso modo l’altra teglia, quindi spennellò sulle due superfici del ripiena un uovo battuto, che, nella cottura, avrebbe formato una crosticina croccante.

    La legna era già pronta in fascetti: tralci della potatura delle viti, stecchi di castagno , rametti d’ulivo.

    Bastò dar fuoco ad una pigna e tutto avvampò in un istante.

    La superficie di mattoni del forno si annerì improvvisamente; poi dopo che molta legna era stata bruciata e a mano a mano che il calore aumentava, divenne chiara, quasi bianca.

    Non bisognava però smettere di infornare stecchi ancora per un po’ e, soprattutto, era necessario spostare il fuoco da un lato all’altro con un lungo palo affinché il forno risultasse caldo in modo uniforme, sia nel fondo, sia all’imboccatura.

    Quando le ultime fiammelle furono spente, Maddalena asportò con la pala le braci e spazzò via la cenere con una scopa fatta di rami di erica legati insieme, che aveva immerso in un secchio d’acqua affinché non s’incendiassero; i rametti aghiformi crepitarono e le due torte furono sistemate sui mattoni ardenti per un’ora di cottura.


    La Pasqua

    La festa di Pasqua fu celebrata nella gioia che riuscì a salire e collocarsi un gradino più su rispetto alle preoccupazioni e ai motivi di sofferenza presenti in ogni famiglia e in ogni persona.

    La natura, in pieno risveglio, aiutava ciascuno a sentirsi partecipe della rinascita universale insieme con il Risorto, ed il seme della speranza era entrato negli spiriti, portandovi baleni di felicità inespressa e inconsapevole, che il suono delle campane condensava in commozione.

    Nella chiesa splendeva il cero dai vivaci colori attraversato da granelli di incenso a forma di lancia, disposti come i bracci di una croce greca; l’acqua benedetta era stata rinnovata la vigilia nella grande conchiglia di marmo.

    Si cantava il Gloria a voce spiegata, e più sommessamente la dolcissima sequenza della liturgia pasquale:

    Victimae paschali laudes

    immolent christiani;

    Agnus redemit oves,

    Christus innocens Patri

    reconciliavit peccatores.

    Dic nobis, Maria,

    quid vidisti in via?

    Infine al termine della messa esplose il " Regina coeli".

    Maddalena era stata invitata da Lisetta per il pranzo; la casa le era familiare e i bambini l’aspettavano, sicuri di ricevere un dono.

    Portò infatti a ciascuno di loro un dolce a forma di ciambella nel cui centro era incluso un uovo sodo; era riuscita a dare alle uova una tinta vivace, passandovi sopra una carta rossa umida che lasciava il colore.

    La nonna era stata accudita ed ora riposava nel suo letto e tutta la famiglia poté trattenersi a tavola senza fretta.

    Andrea non era tranquillo per la salute della moglie, infastidita da una tosse ostinata; infatti Lisetta, di solito energica e piena di risorse, appariva piuttosto stanca e quasi priva di forze.

    Dopo aver mangiato le ciambelle, i bambini uscirono per raggiungere i loro compagni nelle scorribande tra i campi, probabilmente a caccia di nidi, e ci fu spazio per le confidenze: Lisetta disse di aspettare un altro figlio.

    Maddalena comprese che per la sua amica non c’era neppure stato il tempo di rallegrarsi per la nuova maternità perché le preoccupazioni avevano subito incalzato la gioia, confinandola in un angoletto del cuore.

    Anche Andrea sembrava pensoso, ma era un buon cristiano e sperava che la benedizione che Dio gli aveva mandato fosse accompagnata da un adeguato sostegno nella salute, nel lavoro, nei buoni raccolti.


    Gli acquisti a Borghetto

    La scorta di sale, caffè e zucchero era terminata in casa di Lisetta, e poiché Maddalena aveva intenzione di rinnovare la propria, si offerse di recarsi a fare gli acquisti anche per l’amica e si avviò lungo il sentiero che scendeva al capoluogo, sull’Aurelia, dove si trovava l’unico negozio ben fornito.

    Borghetto, sede del municipio, era la meta obbligata anche per comperare e vendere i prodotti agricoli.

    Il paese, antico e molto animato, punto d’incontro di commercianti e di quanti arrivavano dai vicini borghi sulle colline, era stato la prima stazione di posta per i viaggiatori provenienti da La Spezia e diretti a Genova o in Val di Vara e il suo santuario di Santa Maria dell’Accola, vicino al fiume, era forse quanto restava di un’abbazia di epoca longobarda.

    Il cielo era nuvoloso ma non minacciava pioggia; ne era caduta in abbondanza per alcune settimane e Maddalena poteva udire distintamente il fragore del canale in piena, che soffiava minaccioso e in molti punti era straripato spazzando via le strette passerelle.

    Quando fu giunta sulla costa della Cavà, l’ammasso delle nubi cominciava a rompersi e il paesino di Ripalta, sulla collina di fronte, apparve nel sole che sembrava volersi insinuare sotto le volte di pietra grigia in primo piano sulla valle.

    Il sentiero entrava nel bosco, proseguendo quasi diritto e abbastanza ripido e terminava sulla strada carrozzabile dal fondo di terra battuta.

    Arrivata sulla statale, alla confluenza dei due canali, Maddalena si rese conto di quant’acqua fosse caduta dal cielo e poi sgorgata dalle sorgenti, tracimata dai fossi, scaturita dal terreno che non la conteneva più; passò sul ponte di legno abbastanza solido sotto cui l’acqua gorgogliava fangosa e proseguì fino alla bottega dove si poteva trovare di tutto: dai generi alimentari alle zappe e ai falcetti, dai fiammiferi alle scarpe chiodate, dai canestri ai tegami.

    Il negoziante le pesò il sale e lo zucchero prendendoli con la sassola di legno dai sacchi che li contenevano e facendone quattro pacchi, due più grossi, due più leggeri, che avvolse in fogli di carta grezza e robusta: azzurra per lo zucchero, grigio chiara per il sale.

    Maddalena pose i suoi acquisti nel "mandillu da gruppu", un grosso fazzoletto blu attraversato da righe bianche e rosse e ne annodò le cocche due a due.

    Aveva un involto pesante da portare: oltre al sale e allo zucchero di cui si faceva un uso parsimonioso, aveva comperato il caffè in chicchi, da tostare, del riso e due stoccafissi, uno per sé e uno per Lisetta.

    Il suo lo aveva fatto tagliare a pezzi perché lo avrebbe cucinato in varie volte.

    Sulla via del ritorno allungò il tragitto nel fondovalle perché voleva fermarsi al mulino e chiedere a Giovanni quando avrebbe potuto portargli il suo sacchetto di granoturco.

    Il mugnaio l’accolse cordialmente come sempre, senza però interrompere il suo lavoro: stava regolando la caduta e la grossezza della farina, mentre la ruota esterna verticale, azionata dall’acqua del canale, abbondante in quel periodo, girava senza posa.

    Cassana: ruota del mulino Peloso

    Secondo l’uso, Maddalena lo avrebbe ricompensato lasciandogli una parte della farina.

    Quel giorno Giovanni era di buon umore; stava ridendo con Emilio che si trovava lì a macinare e gli raccontava di aver minacciato di morte la propria moglie.

    La poverina, preoccupata per la sua salute, lo stava rimproverando per le continue "ciucche", quando fu afferrata e issata sul davanzale.

    Giovanni presentava la scena con molti particolari sbellicandosi dalle risate.

    " Avresti dovuto vederla: scalciava, si aggrappava alla finestra, urlava : non mostrai pietà e solo dopo alcuni minuti la deposi sul pavimento.

    Non avevo intenzione di buttarla giù – assicurò – ma lei non poteva saperlo".

    Maddalena riprese il cammino sul viottolo che attraversava il bosco soltanto in un brevissimo tratto e proseguiva poi nelle terre coltivate.

    I campi disposti a terrazze appagavano l’occhio con la terra scura incisa da solchi regolari; i filari di viti ben potate e legate ai paletti bordavano le fasce e, se queste erano abbastanza larghe, le attraversavano anche nel senso della lunghezza.

    In mezzo ai solchi si alzavano i fili esili del grano seminato in novembre, che ormai sarebbe cresciuto in fretta.

    Le patate tardavano a mettere fuori i germogli e solo fra un mese avrebbero spiegato la pomposità delle fogli ruvide e grandi, sovrastate, a suo tempo, dai corimbi di fiori bianco-violetto.


    Una morte

    Era morta Marina, una delle anziane vedove di Castello che, tra decessi e partenze di emigranti, rischiava di rimanere disabitato.

    Già alcune case erano chiuse da anni e rivelavano l’incuria: gli intonaci, là dove esistevano, mostravano crepe vistose; fra le pietre prosperava il muschio, e le tegole, spostate o rotte dai forti venti dell’inverno e non sostituite, avevano creato nei tetti aperture da cui la pioggia entrava danneggiando i solai; i topi ne avevano fatto dimore privilegiate.

    Anche la casa di Marina era mal ridotta: la vecchia donna non aveva figli né parenti, salvo alcuni nipoti emigrati in Cile che non si ricordavano di lei, ed era priva di risorse economiche; la carità dei vicini le aveva permesso di sopravvivere, ma la manutenzione della casa era stata abbandonata da anni.

    Maddalena l’aveva assistita negli ultimi giorni, gli unici di malattia della sua lunga vita, aveva chiamato il dottore e il parroco per l’estrema unzione e l’aveva poi composta nella veste nera, intrecciandole la corona attorno alle dita.

    La casa della morta era talmente misera e mal tenuta che non era possibile esporre la salma nella camera da letto, ridotta ad un covile; così Maddalena e Pasquina la collocarono su di una larga asse appoggiata a due seggiole, nel mezzo dell’unica stanzetta decente della casa, posta all’ingresso e del tutto priva di arredi , dopo averla ripulita spargendo abbondante acqua sul pavimento di mattoni sconnessi, dalle cui fessure saltavano a frotte le pulci.

    Alla messa funebre parteciparono soprattutto le donne, solidali anche nella morte.

    Non fu suonato l’organo, né si cantò il Dies irae, che fu recitato dal parroco e dalle poche persone che ne conoscevano il testo.

    Dopo l’aspersione con l’acqua benedetta la bara fu portata a spalle nel cimitero accanto alla chiesa, affacciato sulla valle, dove riposavano generazioni di cassanesi all’ombra del campanile e del cipresso, sul quale i passeri avevano il nido.

    La cassa fu calata nella fossa e coperta di terra senza indicazione del nome perché nessuno avrebbe mai cercato quella tomba; la sovrastava soltanto una piccola croce di legno.

    Tornando a casa, Maddalena scorse il gatto di Marina che miagolava inquieto, entrando e uscendo ripetutamente attraverso la porta rimasta aperta.


    La benedizione delle case, le Quarantore

    Dopo la Pasqua venne la benedizione delle case, seguita dalle Quarantore.

    Le donne avevano fatto le pulizie in grande, lavando i vetri e i pavimenti, lucidando gli utensili di rame, tirando giù la fuliggine da stufe e camini e, in qualche caso, imbiancando la cucina con la calce.

    Data la buona stagione ormai iniziata , si faceva fuoco solo il tempo necessario per cuocere i cibi.

    La sera invece, dopo che la cena era stata tolta dal paiolo, si aggiungevano nel focolare alcuni ceppi per mantenere la fiamma fino all’ora di andare a letto; ma le pareti e il soffitto delle cucine non si sarebbero anneriti prima dell’autunno.

    Maddalena rinnovò anche i festoni di carta traforata con le forbici, che ornavano i ripiani della piattaia e la mensola del camino e preparò le uova da offrire al prete e i biscotti per i bambini che l’avrebbero accompagnato.

    Arrivò il parroco con due chierichetti in cotta bianca, ampia e spiegazzata, uno dei quali reggeva il secchiello dell’acqua benedetta che il sacerdote attingeva via via con l’aspersorio, mentre passava di stanza in stanza bagnando generosamente mobili e pavimenti.

    L’altro chierico portava il cestino per raccogliere le uova, dono consueto e obbligatorio da parte di tutte le famiglie.

    Maddalena si era sempre chiesta quante giare di uova avrebbe riempito la madre del parroco, per conservarle sotto la calce.

    Le Quarantore, periodo di tre giorni in cui veniva esposta solennemente l’ostia consacrata per l’adorazione dei fedeli, vedevano soprattutto il popolo delle donne inginocchiato ai piedi dell’Eucarestia.

    L’inno "T’adoriamo ostia divina" si alternava alla melodia di "Dolce Gesù, io credo fermamente" e alla preghiera silenziosa, in riparazione delle bestemmie e dei peccati.

    A turno si restava in ginocchio davanti all’altare per non lasciare mai solo il Signore nel suo ostensorio a raggiera, tra ceri e fiori di campo.

    Nei giorni precedenti Maddalena e Pasquina, con l’aiuto di altre donne volenterose, avevano preparato la chiesa, spazzando e lavando il pavimento, spolverando i marmi degli altari, sostituendo le tovaglie ordinarie con altre più belle dai lunghi festoni di pizzo, lucidando i candelieri di ottone.

    Ognuna portò un mazzo di fiori o rami di semplici foglie.

    Maddalena era andata a cercare gli ultimi giaggioli della stagione, ancora belli, coi grandi petali viola ornati di giallo e li aveva uniti all’erica bianca in piena fioritura.

    Ne colse anche per deporli nel cimitero sulla tomba della mamma e di zia Matilde.

    La mamma aveva amato i fiori, ma non li coglieva per sé, forse per una forma di pudore, perché non se ne erano mai visti nelle mani delle contadine se non per ornare gli altari o deporli sulle tombe.


    Mamma Angela

    Maddalena misurava la distanza e la differenza di comportamento tra sé ed Angela, la madre; ed era grata all’esperienza acquisita negli anni vissuti all’estero che le aveva dato la libertà di esprimere se stessa e il proprio gusto senza imbarazzi o timori di confronto con altre donne.

    Era legata alla terra, come tutti gli abitanti del villaggio, ma non ne dipendeva; faceva parte della comunità contadina, ma poteva esprimersi al di fuori dei suoi schemi mentali.

    La sua mamma, invece, ne era stata prigioniera.

    Dolce e remissiva quanto la sorella Matilde era risoluta, non si sarebbe mai permessa alcun atteggiamento non conforme all’uso del paese.

    Maddalena aveva insistito perché, almeno d’estate, si liberasse dal fazzoletto che tutte le donne portavano annodato dietro il capo e lasciasse in libertà ed esposti all’aria i suoi bei capelli castani, lunghi e folti, che raccoglieva in una pesante crocchia; ma lei non aveva mai voluto uscire di casa senza di esso.

    Per recarsi in chiesa ne metteva uno di tessuto più sottile che annodava sotto il mento e, dopo la morte del marito, sebbene fosse ancora giovane, non aveva smesso di vestirsi di nero.

    Angela era sensibile alle sofferenze altrui più che alle proprie, soprattutto alle pene di alcune compaesane oppresse dalla povertà e dalla prepotenza dei loro uomini, spesso ubriachi e talvolta violenti, preoccupate per i molti figli da allevare con poche risorse.

    Le aiutava come poteva, dividendo con semplicità le sue scorte di fagioli e di farina, filando lana e confezionando calze e maglie per i loro bambini; spesso erano ammalati e lei li curava con le erbe e con impiastri di farina e crusca messa a bollire in acqua e avvolta in un panno di tela fitta che applicava sul petto e sulle spalle dei piccoli, tormentati dalla tosse.

    In paese molti bambini morivano, e molti ne nascevano, quasi sempre con il suo aiuto: aiutare le partorienti era divenuta per Angela una consuetudine.

    Dapprincipio l’aveva fatto spontaneamente, ma in seguito venne richiesta di questo servizio.

    Dopo la nuova nascita, Angela per una settimana assisteva la donna e la sostituiva nelle faccende, preparando i pasti per il resto della famiglia, lavando i panni, badando ai bambini.


    La puerpera

    La puerpera aveva diritto ad una settimana di riposo completo e godeva di qualche attenzione, prima fra tutte quella di essere nutrita in modo eccezionalmente abbondante e sostanzioso: si sacrificava per lei la gallina più grossa di tutto il pollaio che veniva bollita, fatta a pezzi e conservata al fresco in modo che durasse per tutto il periodo.

    Ogni giorno le si dava un pezzo della gallina e la minestra che si usava fare in questa circostanza, la "pagiuà".

    Angela prendeva una parte del brodo di pollo, vi poneva una manciata di pasta sottile, i fidelini, e quando erano quasi cotti versava nella pentola un amalgama di uovo battuto, formaggio parmigiano grattugiato e fogliette di maggiorana tritate con la mezzaluna.

    Bastavano pochi minuti perché l’uovo si rapprendesse e la deliziosa minestrina fosse pronta; insieme con un bicchiere di vino veniva portata alla puerpera che, così bene alimentata, a sua volta nutriva il piccolo allattandolo abbondantemente.

    La settimana dopo il parto era per le donne anche l’unico periodo di tranquillità; subito dopo ricominciava la solita pesante ripetizione di doveri e fatiche, con l’aggiunta di una nuova creatura da allevare.

    I figli venivano accettati come un dono di Dio, soprattutto se maschi, future braccia per il lavoro dei campi e sostegno dei genitori quando fossero diventati vecchi e bisognosi di assistenza.

    Le ragazze invece si sposavano, entravano a far parte di un’altra famiglia e non erano di alcuna utilità per quella di origine.

    Inoltre bisognava provvedere loro il corredo e, se c’era la possibilità finanziaria, anche la dote.

    Le famiglie erano numerose, spesso ampliate da qualche trovatello preso all’ospizio, che viveva in casa come un figlio e si guadagnava con il lavoro vitto e alloggio, sebbene l’istituto di pubblica assistenza desse un piccolo contributo mensile a chi lo aveva accolto; proprio per avere questa modesta rendita spesso venivano presi in carico uno o più di questi bambini che, una volta cresciuti, si formavano una famiglia propria.


    Lettere.

    Maddalena aveva imparato dalla mamma la gentilezza e la disponibilità verso chi era meno fortunato di lei, o, semplicemente gravato da maggiori impegni e fatiche da compiere; e la solidarietà con Lisetta, Emma, Nettina, e il loro affetto era per lei di grande conforto.

    Si sentiva in una situazione privilegiata, libera com’era di disporre del suo tempo e di darsi ritmi personali di lavoro, alternando il ricamo alla cura dell’orto, alla frequentazione delle amiche, nei loro rari momenti liberi, strappati al riposo.

    Talvolta, sebbene di rado, si concedeva una breve passeggiata per sgranchire le gambe dopo ore di immobilità impegnate nel cucito; le sarebbe piaciuto dedicare un po’ di tempo alla lettura, ma non aveva libri a disposizione.

    Laurina le prestava ogni tanto "La Domenica del Corriere", che il marito riceveva per posta, ma era per lei una ben stretta finestra sul mondo.

    L’informazione sugli eventi nazionali ed internazionali era quasi del tutto fortuita e dipendeva dall’arrivo di gente giunta a Cassana per vendere mercanzie o per acquistare vino, patate e farina di castagne.

    Maddalena era in comunicazione con amici lasciati in Argentina e di là le arrivavano notizie che riferiva puntualmente ai parenti di altri emigrati; a Buenos Aires i compaesani formavano un gruppo compatto e le lettere spedite e ricevute passavano per le mani di tutti.

    Al paese le si chiedeva spesso di scrivere, per chi non ne era capace, i messaggi insieme appassionati e rassegnati di spose e madri in ansia: "Caro figlio, ti scrivo…"; "Caro Giuseppe, noi stiamo bene e così spero sia di te. I bambini da mesi hanno la tosse, i soldi sono pochi; la mucca ha partorito il vitello e appena sarà un po’ cresciuto lo venderemo, così ci sarà di nuovo il latte in casa…".

    In quelle lettere che lei scriveva sotto dettatura mancava completamente il linguaggio delle emozioni; l’argomento principale era la coltivazione della terra, la salute, i figli.

    Ma erano un legame vitale tra gli emigrati e i rimasti a casa.

    Maddalena ricordava l’ansia con cui, anni prima, era solita attendere le lettere della mamma; erano sempre troppo brevi e generiche e la loro lettura la lasciava lungo tempo assorta e quasi smarrita.

    Foto G - La Via. Un vicolo

    Perciò, quando scriveva lettere per conto di altri, insisteva per fornire particolari della vita quotidiana attraverso i quali il destinatario lontano potesse ricostruire momenti di realtà familiare e continuare a vivere con l’immaginazione accanto ai suoi cari, al suo paese.


    Il burro, il formaggio, la ricotta

    In cambio del favore fatto, Maddalena, sebbene non volesse accettare alcun compenso, riceveva talvolta un fiasco di vino o una formaggetta.

    Da quando aveva venduto il vitello e gli agnellini, Nettina disponeva di molto latte di pecora e di mucca e forniva all’amica il necessario per la sua zuppa mattutina e per prepararsi il formaggio.

    Maddalena amava il latte fresco, appena munto, spumeggiante nel secchio da cui si beveva ancor prima di farlo bollire.

    Quand’era in America la nostalgia di casa gliene faceva sentire in bocca il gusto inconfondibile, insieme a quello dell’acqua conservata in cucina nel recipiente di ferro zincato; il sapore di quell’acqua di sorgente lo si apprezzava bevendo direttamente dalla cazza, il mestolo di rame che stava sempre nella secchia.

    Ora anche lei ogni tanto faceva il formaggio, accumulando il latte di due o tre giorni; se le serviva il burro, lo preparava raccogliendo la panna affiorata spontaneamente.

    La sbatteva con forza in un fiasco, finché quella centrifugazione manuale produceva grumi consistenti che bisognava far uscire con una serie di colpetti decisi, poi li amalgamava con le mani dando loro la forma di un grosso uovo.

    Conservava il burro color crema e dal sapore e profumo invitanti in un recipiente pieno d’acqua fresca che rinnovava spesso.

    Il latte , pur privato della panna, era tuttavia ancora ricco di grassi e in grado di dare del formaggio eccellente.

    Maddalena vi univa qualche particella di caglio disseccato e lo poneva accanto al fuoco, aspettando che si coagulasse.

    Quando scorgeva la massa ben rappresa, con le mani a coppa la premeva delicatamente tra le dita per separarla dal latticello verde chiaro.

    Ogni volta che compiva questa operazione, era tentata di rinunciare alla formaggetta per mangiarsi subito quella crema di latte morbida e candida, ma si accontentava di mettersi in bocca le parti rimaste in fondo al recipiente, consolandosi al pensiero che avrebbe avuto presto la ricotta, delizioso equivalente del latte quagliato.

    Così, dopo aver fatto il formaggio, metteva subito al fuoco il siero, conservandone una parte da bere, perché era rinfrescante e valido contro le infiammazioni intestinali.

    Al primo bollore affiorava la ricotta che bisognava ritirare subito dal fuoco perché non cuocesse condensandosi in briciole troppo consistenti, e non prendesse il sapore di fumo.

    Maddalena se la gustava mangiandola a cucchiaiate o disponendola sulle fette di pane scuro. Come tutte le altre contadine, aveva grande cura delle formaggette che teneva sull’asse di legno fissata al soffitto, nella dispensa.

    Lì maturavano conservando la morbidezza e acquistando sapore.


    Pomeriggi domenicali. Le scarpe

    Alcuni giovanotti nella piazzetta cantavano una canzone allora in voga:

    Mailù, sotto il cielo di Singapor,

    in un manto di stelle d’or

    è nato il nostro amore.

    Altri accompagnavano il coro con l’armonica a bocca e chi non possedeva il piccolo strumento si arrangiava con un pettine posto in mezzo ad un foglio di carta velina e soffiava tra i denti di corno come sui buchi dell’armonica.

    Era domenica e sia la festività sia la stagione ormai calda permettevano agli uomini di riposare all’aperto, seduti sugli scalini delle case, mentre mogli, madri e sorelle badavano ai bambini e preparavano la cena.

    Chi giocava a morra, gridando i numeri con le dita stese fin sotto il mento dell’avversario; chi canzonava un ubriaco dal passo incerto, che si appoggiava ai muri balbettando: "Non sono ubriaco, no, non sono ubriaco", e che tra poco sarebbe entrato in casa urlando per prevenire i rimproveri della moglie, costretta a spogliarlo e metterlo a letto.

    Faceva davvero caldo, ormai, e nessuno sopportava più di tenere i piedi fasciati nelle grosse calze di lana e imprigionati nei pesanti scarponi chiodati; perciò si andava scalzi.

    I bambini erano i primi a togliersi calze e scarpe a cominciare dal mese di aprile, ma quella meravigliosa libertà comportava spesso piccoli o grandi inconvenienti: una spina era penetrata in un piede e si doveva estrarla con l’ago, dopo averlo sterilizzato su un fiammifero acceso; o, per un inciampo, l’alluce si "scappucciava" ed erano dolori, sangue e un’unghia persa.

    Non si dava importanza al dolore delle schincàe, e, se un bambino si era fatto male correndo, il disappunto dei grandi si esprimeva in questa ironica affermazione: "Ti l’ha pigià a léxua da due cùe " .

    Il malcapitato, in attesa di una cura più appropriata che consisteva per lo più in bagni di acqua e sale, si fasciava il dito con una foglia larga, legandola stretta con alcuni fili d’erba.

    Capitava talvolta il peggio: gli scarponi, con l’uso, perdevano i chiodi e il broccame cadeva tra le pietre e l’erba; se finiva con la punta rivolta verso l’alto si conficcava nelle carni.

    Era capitato che un bambino morisse per il tetano sopraggiunto.

    Foto H - Cassana. Vecchia porta


    I "maggi". Ragazzi e ragazze. Il matrimonio

    Con il primo giorno di maggio si ripeté il rito dell’offerta di rami verdi e fioriti alle ragazze.

    Non era una sorpresa per loro, che si aspettavano questa espressione di gentilezza da parte dei giovanotti del paese e, appena sveglie, aprivano la finestra per costatare che l’attesa non fosse stata delusa.

    Quell’omaggio comportava piccoli segreti, sussurrati alle amiche e nascosti alle vigili madri; spesso non c’erano esplicite dichiarazioni d’amore e gli innamorati si corteggiavano con il linguaggio dei gesti, per lo più energiche strette di mano, torsione dei polsi, spintoni, pesanti manate sulle spalle, lancio di piccoli sassi; non mancavano le battute grossolane.

    Le occasioni più favorevoli agli approcci amorosi erano le veglie invernali, l’aiuto reciproco che le famiglie si davano per sfogliare il granoturco e separarlo dal tutolo, una volta seccato al sole, le fiere del paese e del capoluogo, le feste e i balli sulle terrazze e soprattutto la breve sosta nella piazza della chiesa dopo la messa domenicale.

    Quando il fidanzamento era accettato dalle rispettive famiglie, il giovanotto accompagnava la ragazza alla messa e al vespro, camminandole accanto, appena un po’ discosto dal gruppo dei parenti, solitamente davanti a loro.

    Il sabato sera andava a trovarla a casa dove poteva sedersi vicino a lei che filava o cuciva, alla presenza di genitori, nonni e fratelli.

    C’era poi una rete d’incontri quotidiani che sfuggivano al controllo di madri, zii e fratellini, questi ultimi particolarmente pericolosi e curiosi indagatori, incaricati di spiare e riferire: ci si trovava presso la sorgente dell’acqua, al pascolo delle mucche, al mulino, rispettando così le severe regole comportamentali interiorizzate e accettate fin dall’infanzia.

    Questi corteggiamenti rusticani portavano spesso al matrimonio che si celebrava nella parrocchia con grande semplicità.

    La sposa arrivava in chiesa a piedi, insieme ai genitori e ai fratelli, attraverso i sentieri, badando a non sciuparsi l’abito nuovo raramente bianco e lungo, ma sempre completato da un velo di pizzo che scendeva sulle spalle.

    Lo sposo era accompagnato dagli amici che, scherzando, gli ricordavano che era ancora in tempo per ravvedersi e cambiare idea.

    Dopo la messa si festeggiava in casa della sposa con caffè, latte e biscotti, anicini e savoiardi, ed eccezionalmente una torta dolce, acquistata a Brugnato; talvolta la colazione consisteva in cibi salati, come lo stufato di patate e carne.

    Il pranzo era invece offerto dalla famiglia dello sposo, riservato agli stretti parenti, e si protraeva fino alle ore serali.

    Eccezionale il viaggio di nozze.

    Quando si risposava un vedovo, gli era impossibile sfuggire al- la "tambuatta", un accompagnamento musicale di pentole e teglie battute con bastoni e cucchiai, a ritmo indiavolato.

    Talvolta tutto si svolgeva al di fuori di ogni convenzione, come nel matrimonio di Celeste e Baciolla.

    I due volevano sposarsi, ma i genitori di lei non approvavano il fidanzato.

    Non potevano negare che fosse un bravo giovane, tuttavia non possedeva, secondo loro, i requisiti sufficienti in terra e bestiame; era infatti un mezzadro e coltivava le terre della chiesa.

    Lo spasimante domandò consiglio al parroco, suo datore di lavoro oltreché ministro di Dio ed egli, conoscendone l’onestà, lo incoraggiò al matrimonio "segreto", possibile perché la ragazza era maggiorenne e non aveva bisogno dell’approvazione della famiglia.

    Così la mattina convenuta, prima che facesse giorno, Celeste fece un fagotto delle sue cose e lo calò dalla finestra a Baciolla, che accolse tra le braccia anche l’amata fanciulla.

    Corsero dal parroco che li unì in matrimonio, poi si recarono a casa dello sposo, dove la madre di lui aveva preparato, per festeggiare, una croccante focaccia di farina di grano, e una formaggetta "grassa".

    Fecero colazione allegramente, poi se ne andarono in "Vaa di lucchi", sulla collina di fronte al paese, a tagliare lo strame per la mucca.

    Quello fu il loro viaggio di nozze.

    La concordia e l’amore dei due sposini continuarono negli anni e Baciolla , parlando della moglie, la chiamava sempre, affettuosamente, "a mè Celestina".

    Lei usava raccontare l’avventura delle sue nozze, sorridendo di felicità.

    Non tutti i matrimoni erano così ben riusciti; ne era spia una filastrocca che le donne ripetevano sorridendo ironicamente.

    U primmu annu abbrazza abbrazza

    U secundu fascia e derfascia

    U terzu annu puttana e …

    Le ragazze dovevano sposarsi presto per evitare pericoli ed alleggerire il povero bilancio della famiglia, in cui tutti, per altro, si guadagnavano il pane.

    Anche i bambini, a cui spettavano piccole incombenze.

    Maddalena osservava i figli di Lisetta, abituati fin dall’infanzia a condurre al pascolo le pecore, fare l’erba per i conigli, portare il becchime alle galline, sorvegliare i fratellini, mettere il secchio dell’acqua sotto l’esile getto della fontana o disporlo in fila, secondo l’ordine di arrivo, nei periodi di siccità, quando c’era coda nelle ore di maggior consumo, badando che nessuno lo spostasse all’indietro, confinandolo tra gli ultimi.

    Trovare presto un marito per le figlie era la preoccupazione dei genitori e sposarsi l’aspirazione di ogni ragazza che avesse superato i sedici anni.

    Le madri preparavano le giovani ad essere buone massaie, a saper impastare il pane e allargare le sfoglie, le educavano alla laboriosità e alla parsimonia; la suocera, nella cui casa sarebbero entrate, le avrebbe giudicate pigre e sciupone se non si fossero alzate presto al mattino e non avessero badato a tagliare sottile la buccia delle patate.

    Il matrimonio non era però una vera promozione sociale perché con esso non arrivava l’indipendenza: si passava infatti dalla tutela e dal dominio della madre a quello della suocera che impartiva gli ordini e teneva le chiavi della dispensa; i figli maschi infatti portavano le mogli nella casa paterna dove la convivenza era talvolta difficile.

    Tuttavia restare nubile era ancor peggio: a differenza dell’uomo, signore scapolo, se non addirittura "scapolo d’oro", la donna non sposata era una povera cosa; non una signora nubile, ma perennemente ragazza, anzi zitella, che viveva in posizione subordinata rispetto a genitori, fratelli e cognate e doveva occuparsi dei nipoti.

    In casa non aveva uno spazio proprio, talvolta neppure un letto proprio, perché dormiva con i bambini.

    Non disponeva di denaro, né poteva vantare alcun diritto sui beni di famiglia destinati ai fratelli continuatori del casato.

    In paese c’erano alcune di queste figure patetiche, di cui Maddalena provava compassione.

    Lei si sentiva, al confronto, privilegiata, signora e regina in casa propria.

    L’esperienza del soggiorno e del lavoro all’estero le avevano dato possibilità e aperto orizzonti sconosciuti alle sue compaesane; rimpiangeva soltanto di non avere maggiore cultura.

    La sua istruzione scolastica si era infatti fermata alla scuola elementare, perché in paese non si andava oltre quel livello e alle ragazze non era concesso, come ad alcuni giovani fortunati, di studiare in un collegio della città: erano indispensabili nei lavori di casa.


    Viaggio a Levanto

    La prossima fiera era ancora lontana più di un mese e Maddalena non poteva aspettare tanto tempo: aveva bisogno di stoffa e di un paio di scarpe che si sarebbe fatta fare su misura, come si usava.

    Le costava troppo sacrificio camminare scalza fuori casa; non era più abituata all’asperità delle pietre sui sentieri, ai ricci delle castagne che tappezzavano i boschi, al letame che si trovava ovunque, agli escrementi di pecore e mucche.

    Ma più di tutto le dava fastidio la polvere che seccava la pelle e le faceva desiderare di immergere i piedi nell’acqua del torrente.

    Indagò per sapere se qualche altra persona avesse bisogno, come lei, di recarsi a Levanto, dove si andava di solito per gli acquisti di una certa importanza, affrontando parecchie ore di viaggio a piedi.

    Trovò compagnia: Adelina, Emilio, Elena, dovevano anch’essi fare spese.

    Partirono all’alba, scendendo di buon passo per il sentiero verso il fondo valle, dove iniziava la mulattiera sulla quale avrebbero affiancato il corso del torrente.

    Al "Forte", prima di oltrepassare il mulino e il frantoio appartenenti da generazioni alla stessa antica famiglia, ci fu uno scambio di battute scherzose con gente che era venuta da Niculin a far macinare un sacco di castagne secche, e che sarebbe andata a Levanto il giorno seguente, per vendere la farina.

    Superarono il Ponte dell’Oro, piccolo ed elegante arco sul canale, immerso nell’ombra del fogliame; percorsero il sentiero lungo il fiume, poi il pendio in salita erto e faticoso e, giunti sulla cima del monte, ebbero la visione del mare.

    La discesa fino alla cittadina era altrettanto lunga, ma agevole, e prima di intraprenderla ci fu una sosta e venne consumata la colazione: pane, formaggio e salsiccia, alcune noci, alcune mele.

    Era piacevole riposare sulla costa, chiacchierando con i compagni di viaggio, appoggiati ai muri di una casa di pietra dove si favoleggiava avesse abitato "Maimuna", una megera spaventosa.

    La costruzione era da tempo ridotta in cattivo stato e abbandonata, tuttavia si usava dissuadere i figli piccoli, che insistevano per seguire i genitori nel viaggio a Levanto, assicurandoli che quella donna stava appostata sulla cima della collina e aspettava i bambini per imporre loro uno strano e ripugnante pedaggio: baciarle il fondo schiena, non propriamente pulito ed olezzante.

    Altre persone, salite da Levanto, sostavano su quel sentiero molto battuto; sebbene carichi di piatti e vasellame non erano stanche, infatti avevano pernottato presso amici dividendo così il viaggio in due giorni.

    Maddalena e i suoi compagni, invece, avevano fretta; bisognava essere di ritorno prima che facesse notte.

    Così si incamminarono presto, tra la vegetazione particolarmente rigogliosa sul versante di fronte al mare; gli alberi da frutto si pavesavano di bianco e di rosa, sullo sfondo grigio argento degli uliveti.

    In meno di due ore erano arrivati, compiendo la discesa attraverso i villaggi.

    Si separarono dandosi appuntamento all’inizio del paese, dove cominciava la strada del ritorno.

    Maddalena decise di recarsi subito dal calzolaio che trovò nel suo sgabuzzino ingombro di pezzi e ritagli di cuoio, scarpe ed attrezzi, seduto davanti al deschetto dai molti cassetti costruiti per contenere i chiodi e il materiale necessario.

    Era intento ad accomodare un paio di scarponi, uno dei quali era infilato nel piede di ferro.

    L’artigiano l’aveva risuolato e stava tagliando il cuoio debordante; poi, col martello, piantò lungo l’orlo e sulla superficie della suola, secondo un preciso disegno, le bullette che servivano per impedire di scivolare e per consumare più lentamente il cuoio.

    Maddalena si riposò su uno sgabello parlando della mamma e di zia Matilde che il calzolaio aveva conosciuto e per le quali aveva confezionato più volte le scarpe.

    Poi fu presa la misura dei suoi piedi e si fissò il giorno in cui il lavoro sarebbe stato consegnato a lei personalmente o a qualcuno di passaggio diretto a Cassana.

    Prima di recarsi ad acquistare la stoffa, Maddalena volle fare una breve sosta sulla spiaggia dove le barche, dopo la pesca, erano state tirate in secco; si appoggiò ad una di esse aspirando il profumo del mare.

    Le venivano in mente altre spiagge a cui era approdata anni addietro, piena di progetti e di speranze; ma c’era poco tempo per i sogni e i ricordi, perché mancava solo un’ora all’appuntamento con i suoi compagni di viaggio.

    Così si affrettò al negozio, piccolo, ma ben fornito, dove le pezze di lana, di lino e di cotone erano in bella mostra sul banco e negli scaffali.

    Tastò più volte i tessuti, ritrovando sensazioni e odori ben noti, poi acquistò del fustagno e del cotone scuro a fiorellini bianchi per un vestito che doveva cucire per Benedetta.

    La stoffa era abbondante e ne sarebbe avanzata anche per un grembiule e un fazzoletto da portare in testa nei giorni feriali.

    Scelse infine della lanetta azzurra che ottenne a prezzo ridotto perché era uno scampolo.

    Voleva prepararsi un abito elegante da indossare nella festa di San Michele; settembre era ancora lontano e avrebbe avuto il tempo di confezionarlo durante l’estate.

    Raggiunse i compaesani sul ponte dove si erano dati convegno e, prima di uscire dall’abitato, comprò un cartoccio di mentine da portare ai bambini di Lisetta.


    Nell’orto

    La mattina seguente volle dedicarsi all’orto, tirar su l’insalata cresciuta in mezzo alle cipolle e trapiantarla nel quadrato di terra che le aveva riservato.

    Prima fu necessario preparare il terreno, zappare e concimare; poi, con delicatezza per non danneggiare le radici, la separò dalle erbacce e la depose nei solchi, a intervalli regolari.

    Le piantine dovevano essere innaffiate per attecchire, così Maddalena si recò alla fontana; era piovuto molto nell’ultimo periodo, il getto era abbondante e il secchio si riempì in pochi minuti.

    Il lavoro fu abbastanza lungo e Maddalena lo svolse alacremente sotto il sole di maggio.

    Non era sola nell’orto: il filare di viti sul bordo della fascia era frequentato da uccellini che avevano appena lasciato il nido, soprattutto merli e tordi; e qualche pettirosso zampettava tra le zolle in cerca di vermi.

    Volle riposarsi, programmando intanto il lavoro della settimana: avrebbe sarchiato i due campetti di patate che stavano crescendo rigogliose e promettevano un buon raccolto; la scorta di quelle vecchie era quasi terminata e ridotta ad un mucchietto di tuberi grinzosi e pieni di germogli.

    Sedette sotto il melo cotogno.

    Il sole era già molto alto e faceva caldo. Si tolse il fazzoletto che le fasciava la testa, abbandonandosi alla piacevole sensazione di frescura e di libertà che la inondò all’improvviso.

    Era come se la sua anima e il suo corpo si librassero nell’aria, senza peso, e contemporaneamente fossero una sola cosa con la natura che la circondava, la terra, l’erba, gli insetti, gli uccellini, la brezza che le scompigliava i capelli, il sole che penetrava nelle ossa.

    Chiuse gli occhi, immemore del passare del tempo, in quello smarrimento della coscienza che la metteva in perfetta armonia con ogni cosa intorno a lei.

    I rintocchi dell’Angelus ben presto la richiamarono alla consapevolezza, ma lo stato di grazia di cui godeva rimase intatto: Maddalena capì che nasceva dentro la sua anima e comprendeva persone e cose, abbracciandole tutte in uno slancio di amore umile e fraterno.

    Nell’aria tiepida ronzavano i bombi dalla livrea colorata, succhiando il nettare dei fiori, e le galline cantavano rispondendosi dai pollai, senza turbare quella dolce quiete che somigliava alla felicità.


    Lo strame

    Verso la fine di maggio le piogge abbondanti e la temperatura elevata avevano favorito la crescita dell’erba, delle felci e degli arbusti, nei boschi, ed era il momento di provvedere al foraggio e alla lettiera degli animali.

    In paese era un andirivieni affaccendato di gente che arrivava curva sotto il carico: gli uomini lo portavano sulla schiena , sopra una vecchia giacca ripiegata o un sacco che copriva e riparava la testa, a mo’ di cappuccio, e le donne sul capo.

    Si arrivava e si ripartiva per una seconda e una terza tornata e le capanne e le stalle si riempivano di fasci di strame, che profumava di muschio umido.

    Un carico di strame comportava la discesa fino a valle e la salita sul versante opposto; quindi il cammino inverso, ma questa volta col peso sulle spalle.

    Il lavoro era faticoso, ma in quella stagione il bosco riservava bellissime sorprese; infatti, dopo le piogge primaverili, quando le giornate erano già calde e le notti tiepide, si potevano trovare i primi funghi.

    Tagliando le felci e i bassi arbusti, il falcetto scopriva i cappelli bruni o castani dei porcini, il cui gambo era per lo più affondato nel muschio.

    Era bello trovarli senza averli cercati; infatti si andava appositamente per funghi solo in autunno, quando i boschi erano stati ripuliti in previsione della raccolta delle castagne, e se ne portavano a casa i canestri pieni.

    In quel periodo, dopo la vendemmia, c’era una sosta nei lavori della campagna e il modo più vantaggioso per riposarsi era quello di cercare funghi.

    Ora però, bisognava dedicare ai campi attenzione e presenza continua: tutti i seminati erano in piena vegetazione.

    Nei piani, lungo il corso del canale, stava crescendo il granoturco dagli alti fusti e dalle larghe foglie; le piante disposte in solchi e già alte quasi due metri promettevano ottimi frutti: le spighe ancora sottili erano abbondanti e le infiorescenze, alla sommità, formavano pennacchi vaporosi come trine.

    Là vicino, sulla riva del torrente, i noci maestosi erano in fiore e le tenere foglie pennate si stagliavano contro il cielo.

    Chi proveniva dai boschi carico di strame o di legna, si fermava, dopo aver attraversato il canale sulle strette e oscillanti passerelle, a riposarsi sotto la loro larga ombra, appoggiando la schiena sui tronchi dalla corteccia grigio argento, screpolata per l’età delle piante.

    Appena più sotto l’acqua scorreva limpida e trasparente e si beveva raccogliendola con le mani.


    I vigneti

    Anche le viti erano in fiore; sui loro rami, piegati e legati ai paletti di sostegno, si aprivano in forme dentate le foglie giovani, di un verde chiarissimo, lucide sopra e pelose nella parte inferiore; opposte alle foglie si alzavano le pannocchie fitte di fiori piccoli, gialloverdognolo, poco appariscenti, ma odorosi.

    La collina di Cassana era ricca di vigneti, fonte di guadagno, motivo di orgoglio ma anche di preoccupazione per i contadini, perché la fillossera e la peronospera erano sempre in agguato e avevano più volte rovinato i raccolti e perfino le piante.

    La fillossera distruggeva le radici e bruciava le foglie in cui si annidavano gli insetti femmina dentro le galle, visibili testimonianze della malattia.

    L’unico rimedio era la prevenzione: da alcuni anni erano state introdotte nelle colture molte specie e varietà di viti americane resistenti alla fillossera e adatte ad essere innestate con viti europee.

    A Cassana si stavano sperimentando questi innesti e di anno in anno cresceva il numero delle viti piantate.

    Contro la peronospera si usava invece la poltiglia bordolese, un misto di solfato di rame e calce spenta.

    Questo anticrittogamico veniva irrorato sulle viti ripetutamente dalla primavera fino ad agosto, con la macchina apposita che si reggeva sulla schiena per mezzo di due cinghie robuste.

    Ad intervalli, si cospargevano le foglie anche di zolfo, per combattere l’oidio che fa marcire l’acino; per spargere lo zolfo si usava l’apposito soffietto a mano.

    Se però l’estate era stata particolarmente umida e piovosa, questa cura non era sempre efficace e la vendemmia poteva risultare scarsa, vanificando faticose giornate di lavoro e la speranza di ottenere un riscontro economico a mesi di cure e di attenzioni.

    In quei giorni si cominciava a diradare i germogli, perché, crescendo troppo rigogliosi, avrebbero ombreggiato i grappoli, e si stava dando la prima mano di solfato di rame, un po’ in anticipo a causa dell’umidità prolungata che favoriva l’attecchimento del fungo.

    Il lavoro era veloce perché i pampini non si erano ancora sviluppati e bastava un piccolo spruzzo per ogni pianta.

    Gli uomini irroravano le giovani foglie pompando la mistura con l’avambraccio destro, mentre la sinistra dirigeva la bacchetta di ferro.

    Le donne aiutavano attingendo dal caratello il composto con il zuccu , una specie particolare di zucca dal lungo manico, svuotata ed essiccata. Lo versavano poi nella macchina che gli uomini non deponevano neppure dalle spalle, dopo ogni tornata; si chinavano solo un po’, piegando le ginocchia per favorire l’operazione e quasi sempre avevano la camicia e le spalle tinte d’azzurro.

    Bisognava rimescolare ripetutamente nel caratello con un lungo bastone, prima di riempire la macchina, perché la calce tendeva a precipitare.

    Gli spruzzi del solfato di rame raggiungevano la sommità delle viti attraverso la lunga bacchetta e si spargevano a terra, macchiando l’erba attorno alle piante; cadevano a pioggia anche sulla verdura, perciò si aveva cura di coglierla prima di dare il verderame.


    La torta di erbe

    Maddalena si affrettò a cercare le erbette là dove il verderame non le aveva inquinate; ne faceva incetta ogni primavera, quando sono gonfie di succhi vitali.

    Si incamminò di buonora munita di coltello e di un canestro, e subito poté cominciare a riempirlo, perché il dente di leone, le bietole, le borragini, il cardone, il rosolaccio, abbondavano nei campi e sui poggi, dopo le piogge e il caldo sole di maggio.

    Deviò verso una fascia dove sapeva di trovare il finocchio selvatico che avrebbe profumato e insaporito la torta.

    Il cesto era colmo di erbe, però Maddalena non pensò di averne colte troppe; sapeva che, cuocendo, il loro volume si sarebbe ridotto di molto.

    Tornata a casa, si recò alla fontana più volte per avere acqua sufficiente a lavarle, poi le gettò nella conca e le sciacquò ripetutamente.

    Sebbene, cogliendo le piantine, le avesse ripulite con cura scartando la vegetazione più vecchia e liberandole dalle specie non commestibili, sulla superficie dell’acqua vennero a galla foglie ingiallite e steli secchi.

    Perciò fu necessario un successivo lavoro di cernita.

    Infine le erbette furono messe a bollire nel paiolo su di un fuoco vivace insieme ad alcune patate con la buccia; mezz’ora dopo erano pronte per essere scolate.

    Maddalena dovette strizzarle bene, poi le tagliuzzò con la mezzaluna, sbucciò e schiacciò le patate.

    Quindi raccolse le verdure in una pisana, vi aggiunse cinque delle sue piccole uova, il formaggio grattugiato, il finocchio crudo tritato, poi versò sul composto la cipolla affettata e soffritta leggermente.

    Rimescolò, assaggiò, aggiunse sale e olio e giudicò che il ripieno della torta era gustoso.

    La sfoglia, sottile e trasparente come un velo da sposa, accolse nel suo grembo quella meraviglia e la ricoprì con un morbido abbraccio.


    Vecchi amici e ricordi

    Era andata a trovare Isolina ed Antonio, due vecchi amici del paese vicino.

    Vivevano con il figlio più giovane e la nuora; il primogenito, Vittorio, era partito per l’America con Elena, la moglie, subito dopo il matrimonio.

    Maddalena aveva fatto il viaggio per mare con i due sposi, approfondendo, durante la lunga traversata, l’amicizia che li avrebbe sostenuti e consolati negli anni di esilio in Argentina.

    Avevano promesso di esserle vicini ed erano stati rispettivamente un fratello protettivo, esuberante ed ottimista, ed una dolce sorella.

    Maddalena li aveva ricompensati con una devozione intelligente e discreta e dopo il suo ritorno a Cassana scriveva loro frequenti e lunghe lettere, informandoli di ogni novità del paese, menzionando persone e luoghi.

    Erano queste le occasioni in cui il tempo lontano tornava a lei carico di memorie.

    Ad ogni lettera spedita e ricevuta la realtà del villaggio e delle azioni quotidiane sembrava offuscarsi cedendo il posto alle immagini delle serate di Buenos Aires, trascorse con gli amici nei bar e nei locali popolari dove si riuniva, alla domenica, la comunità degli emigrati italiani e si ballava in coppia il tango argentino, mentre la nostalgia, lo sradicamento, il rimpianto si materializzavano nelle languide cadenze della fisarmonica.

    Ci si mostrava le lettere e le fotografie ricevute dalle famiglie, si condividevano gioie, affetti e problemi; la solidarietà e le ore trascorse insieme erano il sostegno per una settimana di lavoro spesso duro e mal retribuito.

    Maddalena non aveva mai rinunciato a quegli incontri che ora sostituiva con la corrispondenza, e si era recata dai genitori di Vittorio proprio per dar loro notizie fresche del figlio e della sua famiglia.

    Come tutti i vecchi vivevano a carico dei figli, non beneficiando di rendite da pensione, allora riservata solo ai dipendenti dello stato, ma continuavano a rendersi utili.

    Li trovò seduti sulla panchetta di pietra fuori dell’uscio di casa: lei filava col fuso rudimentale che il marito le aveva ricavato da un pezzo di frassino, ed estraeva a mano a mano ciuffi di lana dalla forcella della rocca posta sotto il braccio sinistro; ai suoi piedi, ammucchiate in un cavagno, le calze di lana dei nipoti aspettavano di essere rammendate.

    Antonio, masticando tabacco forte, faceva osservazioni al figlio e alla nuora. In marzo le galline avevano chiocciato, le uova fecondate erano state poste nel nido e dopo ventun giorni si erano schiuse.

    I pulcini erano belli e vispi, ma occorreva nutrirli meglio preparando un pastone più adatto; dalla settimana prossima, inoltre, bisognava rincalzare le patate che erano già sin troppo alte e, se non adeguatamente sostenute, rischiavano di abbattersi sui solchi.

    Avrebbe pensato lui a svegliarli di buonora per essere sui campi al levar del sole.

    C’era di più: quei fannulloni dei loro figli meritavano scapaccioni e cinghiate. Era ora che la smettessero di girovagare tutto il pomeriggio senza far nulla, nemmeno l’erba per i conigli, saltando negli orti, anche dei vicini, che si lamentavano.

    Antonio era un bel vecchio, orgoglioso dei lunghi baffi che la domenica spuntava con le forbici e arricciava in punta, prima di recarsi sul piazzale della parrocchia dove gli uomini sostavano in crocchio, attendendo la fine della predica per entrare in chiesa e seguire l’ultima parte della messa.

    Scorgendo Maddalena pose fine alle raccomandazioni e le sorrise, in attesa: sapeva che avrebbe mostrato una lettera giunta dall’Argentina.

    Chiese subito dei nipoti americani di cui possedeva una foto che teneva in sala, al posto d’onore, tra il vetro e il legno della credenza; nell’immagine i ragazzi apparivano seri e responsabili, non come i loro scapestrati cugini, che toccava a lui raddrizzare a forza di rimproveri.

    Maddalena s’ intrattenne con i due vecchi che le offrirono un buon bicchiere di vino mescendolo dal fiasco che stava sempre sul tavolo di cucina, e del caffè già pronto nella caffettiera di smalto, preparato nella " pava" con i fondi del giorno prima e l’aggiunta di un po’ di polvere fresca.

    Poi Isolina la invitò nella saletta dove, appese ai muri, oltre l’attaccapanni e lo specchio, stavano vecchie fotografie dei suoi genitori e di quelli di Antonio, altre più recenti dei figli nel giorno delle nozze e una stampa incorniciata rappresentante il Sacro Cuore.

    In un angolo della stanza la moschiera, fatta con quattro assi di legno e circondata da una rete a maglia fitta, conteneva i "ripieni dell’Ascensione", già pronti per la festa del giorno seguente.

    Maddalena, a cui era sfuggito il ricordo di quella tradizione, fu lieta di sentire dalla vecchia contadina come si dovesse procedere nella preparazione della gustosa pietanza: si sceglievano le foglie più belle e grandi della lattuga in cui si fasciava il ripieno legandolo poi con il filo.

    Le forme ovali ottenute dovevano essere immerse nel brodo e fatte bollire a fuoco moderato, perché non si rompessero.

    Al momento del pranzo si eliminava il filo e si gustava il ripieno composto di uova, formaggio, salsiccia o carne tritata, verdure, maggiorana.

    Isolina insistette perché li assaggiasse; entrarono i due nipotini che ne ebbero metà ciascuno, poi furono mandati a far l’erba per i conigli, con la raccomandazione di scartare quella umida che faceva gonfiare la pancia alle povere bestie.

    Antonio condusse Maddalena sull’aia a vedere i pulcini, sorvegliati dalla chioccia che insegnava loro a beccare e, se qualcuno cercava di allontanarsi, lo richiamava col suo verso, allargando poi le ali per accoglierli tutti, quando erano stanchi di correre qua e là.

    Isolina mostrò a Maddalena una gallina che, circa un mese prima era scomparsa; la ricerca non aveva portato alcun risultato, ma in seguito era stata trovata sotto un cespuglio non molto lontano, intenta a covare le uova che lei stessa aveva deposto in quel luogo.

    Solo dopo la nascita dei pulcini era tornata, seguita da un codazzo di batuffoli gialli e pigolanti.

    Chiocce e pulcini, dopo aver razzolato in libertà, rientrarono nel pollaio, protetto da una grossa rete metallica capace di resistere alle incursioni della faina e della volpe.

    Anche l’ultima nidiata di sette coniglietti, nata due settimane prima, era in buona salute e presto sarebbe stata tolta dalla gabbia per essere liberata nella stalla.

    Altre due coniglie stavano nella loro casetta dove era stato messo il maschio per la riproduzione.

    Isolina ed Antonio amavano Maddalena e vollero intrattenerla ancora: le mostrarono, in cantina, le bottiglie del vino dolce appena travasato dalla damigiana e gliene offrirono due perché lo bevesse l’indomani, festa dell’Ascensione.

    Si parlò della semina dell’insalata, del prezzemolo, delle zucchine, dei fagioli e dei pomodori; era necessario farle durante la luna vecchia che influenzava positivamente la loro crescita: infatti le piantine venivano su più lentamente, ma più robuste.

    Prima di tornare a casa, Maddalena ebbe un altro dono: Antonio volle regalarle un giovane coniglio: lo uccise con un colpo secco della mano tesa vibrato tra capo e collo, lo spellò e lo sventrò con la veloce agilità dell’esperienza e dell’abitudine, lasciò che il sangue colasse e glielo diede deposto in un piatto e avvolto nel mandillu da gruppu, raccomandandole di cucinarlo come sapeva fare Isolina, con vino bianco, salvia e rosmarino.

    Maddalena si incamminò verso casa senza fretta, nel tramonto profumato dai tanti fiori dei campi e dalle robinie che segnavano le macchie boscose con la nube dei loro grappoli bianchi.

    Nel mandillu da gruppu che teneva per le cocche annodate, il coniglio e le due bottiglie di vino le promettevano un buon pranzo per il giorno successivo; lei, però, seguiva un altro filone dei suoi pensieri che le turbinavano in mente creandole uno stato d’animo confuso: nella lettera dall’Argentina che teneva in tasca e che aveva letto in parte ad Isolina e Antonio, c’erano per lei saluti da parte di un uomo che aveva tentato di dimenticare.

    Elena e Vittorio, scrivendole, avevano trasmesso il messaggio senza sospettare il turbamento che le avrebbe causato ed ora i ricordi riaffioravano con forza, coagulandosi attorno ad una persona.

    Essa aveva rappresentato per lei la gioia di un affetto creduto esclusivo.

    Il sentirsi amata così le aveva messo le ali e si era abbandonata fiduciosamente ad un sentimento ben presto scoperto illegittimo, perciò impossibile al suo codice di comportamento morale.

    Era tornata in Italia ferita nell’orgoglio e nel cuore.

    Dapprima la vicinanza della mamma e della zia e la riscoperta del paese le avevano alleviato la pena, ma in seguito i ricordi si erano fatti insistenti e dolorosi.

    Allora aveva trovato conforto nella preghiera e nella decisione di tracciare una linea netta di separazione tra sé e quella parte della sua vita, aveva cercato di dimenticarsi per offrire attenzione a chi aveva da sopportare privazioni e pene anche più gravi della sua.

    Si sentiva ricca di tanti doni, perciò doveva lei stessa farsi dono per gli altri: nel villaggio tutti sapevano che Maddalena era sempre disponibile per un aiuto disinteressato e spesso ricorrevano a lei.

    Giunse a casa dopo il suono dell’ Ave Maria; le giornate si erano allungate parecchio e c’era ancora il tempo di recarsi nell’orto a cogliere i sapori da unire al vino in cui avrebbe messo in infusione il coniglio.

    Che pace, nella luce dorata di quella sera di maggio.

    Maddalena si scoprì, ancora una volta, in armonia con ogni elemento della natura e a poco a poco la tensione interiore si allentò, quietandosi. Sedette presso il fico dai grigi rami contorti che stava vestendosi di verde e punteggiava il cielo con le giovani foglie cuoriformi.

    Lì accanto le gallinelle si erano ritirate nell’angolo più riposto del pollaio e sembravano rispettare il suo silenzio assorto.

    Le rondini, invece, intrecciavano rapidi voli e garrivano il loro inno alla vita.

    Maddalena si sentì libera come loro, contenta di essersi svincolata da una situazione che la sua coscienza non poteva approvare e grata al Signore per aver avuto la forza di fuggire.

    Era approdata ad un piccolo mondo fatto di cose semplici di cui lei stessa era parte, tessera piccola ma necessaria di un mosaico disegnato dalla mano amorosa di un Artista provvidenziale.


    La " levà " . La caccia

    Rientrò ormai del tutto rasserenata e ricordò di non aver fatto il pane per la settimana, che preparava ogni sabato; perciò impastò sollecitamente la farina e la mise a lievitare al caldo, coprendola con una salvietta e un panno di lana.

    Era ormai quasi buio, perciò preferì non uscire a scaldare il forno e scelse un altro metodo di cottura, meno consueto ma altrettanto valido: mise la pasta, una volta lievitata, nella teglia, formando una focaccia; bucherellò col dito la superficie formando delle fossette che riempì di olio d’oliva.

    Aveva deciso di cuocerla nel camino, ponendo la teglia sul focolare riscaldato e coprendola con il "testo", una campana di ghisa che aveva appeso alla catena sopra il fuoco e che era già quasi arroventata.

    Era un forno mobile che si usava appunto per la levà o per il castagnaccio in teglia.

    Preparò velocemente anche l’impasto per un dolce che avrebbe messo sotto il testo non appena completata la cottura della focaccia: era semplicemente pasta di pane con aggiunta di zucchero e uva passa. Voleva portarlo a Lisetta con una delle due bottiglie avute in regalo.

    Erano passate le feste dell’Ascensione e di Pentecoste e giugno aveva portato giornate lunghe e sole cocente che faceva maturare il grano dorando ogni giorno di più le spighe piene, dritte sugli steli e oscillanti al vento leggero.

    Era una vera festa per i passeri poter disporre di tanta grazia di Dio. Saltellavano infatti fra le spighe, incuranti degli spaventapasseri che esibivano le loro forme bizzarre ed immobili, ridicole e del tutto innocue.

    Qualcuno però cadeva vittima dei "ferretti", le piccole trappole circolari a scatto, con un pezzetto di pane per esca, ma questo accadeva soprattutto d’inverno, con la neve.

    Ai tordi e ai merli si dava invece la caccia con il fucile che gli uomini conservavano con cura, preparando solitamente in proprio le cartucce, e con l’aiuto dei cani, i vari Baffin, Stellin, amati e maltrattati, tenuti costantemente a stecchetto e legati alla catena.

    Il bosco era ricco di cacciagione: lepri ed uccelli fornivano la carne per sughi ed arrosti.

    A caccia si andava alla domenica, quando si interrompeva il lavoro dei campi.

    Pochi privilegiati potevano permettersi quel diversivo nei giorni feriali, magari in compagnia del parroco, che si riteneva impegnato nella cura spirituale del suo gregge esclusivamente nella festa settimanale e nelle altre solennità religiose.

    Solo allora prendeva contatto con le sue pecorelle e vedeva gli uomini col vestito buono ammucchiati in fondo alla chiesa o seduti sulla lunga panca di pietra del piazzale, le donne con la veletta nera in testa; le anziane alla messa mattutina, le giovani a quella "grande".


    La fienagione

    In quei giorni le donne del paese, eccettuate le vecchie nonne che restavano a casa per accudire ai lavori domestici e badare ai bambini, erano occupate nella fienagione.

    Si tagliava l’erba ovunque fosse cresciuta, sui poggi, tra un campo e l’altro coltivati a grano o a patate, sotto le viti, nelle fasce rimaste incolte per far riposare il terreno.

    Non doveva andare sprecato neppure un filo d’erba perché gli animali utili alla vita e al lavoro: mucche, pecore, capre, asini e muli, conigli e pollame erano tutti erbivori.

    Il compito di tagliare l’erba era quasi esclusivamente femminile e schiere di donne arrivavano all’alba nei campi, ognuna con la propria falce; moltissime lavoravano a giornata per le famiglie benestanti, contente di guadagnarsi qualche soldo per comperare un paio di scarpe alla fiera di San Michele.

    Si disponevano in fondo ai poggi, a qualche metro di distanza l’una dall’altra e tagliavano alacremente, arrampicandosi e stando in equilibrio sui ciglioni talvolta molto ripidi; lavorando, cantavano.

    Quello era il primo taglio della stagione: le piogge e il sole avevano fatto crescere e irrobustire l’erba cosicché occorreva affilare spesso la falce con l’apposito triangolo che veniva passato ripetutamente di striscio sul taglio della lama, ribattendone poi le tacche e le asperità.

    L’erba tagliata rimaneva sul terreno, esposta al sole e all’aria perché potesse evaporare tutta l’umidità; dopo una giornata la si rivoltava, avendo cura che restasse allargata e sparsa sul posto e non in mucchi, il che l’avrebbe fatta ammuffire.

    La si muoveva e rivoltava più volte, fino a completa essiccazione; infatti la qualità del fieno era molto importante per il nutrimento del bestiame.

    L’erba secca veniva poi raccolta in grandi fasci, legati stretti da rami di salice o corde, e cominciava allora l’andirivieni di uomini e donne che, aiutandosi reciprocamente, se li ponevano sulle spalle o sulla testa per trasportarli nei fienili collocati in vicinanza delle stalle e spesso sopra di esse; in questo caso attraverso una botola si gettava il fieno direttamente agli animali che erano foraggiati senza ulteriori fatiche.

    Gli uomini camminavano rapidamente con le spalle curve sotto il fascio; le donne, pur gravate anch’esse da un notevole peso, procedevano con portamento eretto del corpo e il passo leggermente dondolante che favoriva l’equilibrio.

    In poco più di una settimana tutte le famiglie avevano terminato la fienagione e l’aria era satura di intensi profumi d’erbe e di fiori che si avvertivano soprattutto la sera, dopo il tramonto, nell’ora dolce del riposo, quando si aspettava la notte seduti sui gradini delle case, accanto agli usci, parlando con i vicini e cullando i figli più piccoli, rimasti tutto il giorno in custodia delle nonne.

    Le serate erano lunghe, ma scivolavano via fin troppo presto.

    Sul tono dimesso della conversazione degli adulti si distingueva quello più sonoro del vociare dei bambini, si alzavano i gridi del loro gioco tumultuoso, sovrastati a loro volta dal garrito delle rondini, impazzite di gioia.

    Bambini e ragazzetti passavano in frotta rincorrendosi attraverso i vicoli, irrompendo negli orti in cerca di lucciole.

    Scendeva la notte punteggiata dai loro piccoli bagliori palpitanti e insensibilmente il silenzio si posava sul villaggio.

    I bambini erano rientrati, le donne e gli uomini, ad uno ad uno, varcavano la soglia di casa, pensando al lavoro del giorno seguente.


    I giochi dei bambini

    Le figlie di Lisetta giocavano quietamente "alle signore" e "alla bottega", insieme con alcune compagne.

    Avevano disposto la mercanzia da vendere sulla terrazza e ognuna stava nel proprio spazio, delimitato da bastoni e diviso in due parti: la casa, che coincideva con la cucina, e la bottega.

    L’arredamento era costituito dai bilàn, pezzi di stoviglie trovati nei due o tre posti del villaggio dove finivano i piatti e i tegami rotti, le scatolette metalliche di medicinali vuote, piccole bottiglie inutili; le bambine gareggiavano a chi ne possedesse in maggior numero di grossi e decorati.

    Le più fortunate ed accorte avevano preso l’orlo dei piatti rotti su cui si potevano ancora scorgere disegni di fiori, arabeschi e tracce di colori che erano stati vivaci, e li esponevano in fila come su un’immaginaria piattaia.

    Pietre lisce e pezzi di mattoni erano le pentole, stecchi di misura uguale fungevano da posate.

    I cibi erano rappresentati da fette di patate crude, chicchi di granoturco ed erba, soprattutto gambarussa, la parietaria che cresceva dappertutto.

    La pestavano fra due sassi, in modo che simulasse una lunga cottura e la componevano in forme rotonde che suggerivano l’idea di torte di verdura.

    Tutte le bambine del paese si divertivano così, non possedendo giocattoli; la loro fantasia le aiutava però a vedere, nelle piccole cose che maneggiavano, meraviglie tali da giustificare liti e capricci per il possesso di una pietrina colorata o di un pezzetto di stoffa da avvolgere attorno ad una pannocchia per farne una bambola.

    Lisetta chiamò Anita e Maria; le due piccole, forse perché in disaccordo con le compagne, avevano interrotto il gioco e facevano un vertiginoso girotondo cantando la loro filastrocca preferita:

    Maddalena pimpinella

    Scarpe russe e roba bella

    Roba bella de papé

    Maddalena a fa i fidé

    I fidé i sun troppu grossi

    Maddalena a fa i bescotti

    I bescotti da regina

    Maddalena a fa e furzine

    E furzine de lutun

    Maddalena a fa i curdun.

    Si affrettarono ad ubbidire raccogliendo i loro cocci.

    Furono mandate a cercare i fratelli perché era quasi l’ora di cena e non ebbero dubbi su dove recarsi.

    I maschi se ne stavano solitamente in fondo al paese, su uno spiazzo di terra battuta dove potevano dedicarsi al loro gioco preferito, abbattere castelletti di noci o di ossi di pesche colpendoli con mira precisa.

    Quando non erano là, si rincorrevano per i campi o salivano sugli alberi da frutto, preferibilmente quelli non appartenenti alla propria famiglia.

    Le due bambine, guidate dallo schiamazzo di voci, li trovarono invece sotto l’orto; stavano scommettendo con i loro compagni su chi riuscisse a fare la pipì più lontano dall’alto di un poggio; alcuni di loro, scesi nella fascia sottostante, dirigevano il getto verso l’alto, contro il ciglione, vantando primati difficilmente valutabili.

    Maddalena scorse i bambini mentre si affrettavano verso casa, tutti e quattro insieme, un po’ preoccupati perché si era fatto tardi e il padre avrebbe potuto rimproverarli e castigarli.

    Invece Andrea quella volta era di buon umore e lasciò correre, limitandosi a fare osservazioni generiche sul loro comportamento e ad esprimere la speranza che non avessero combinato guai.

    Da qualche mese aveva intrapreso un piccolo commercio di legname vendendo piante di ontani di un suo bosco nel fondovalle, dove il trasporto dei tronchi era facile grazie alla vicinanza della strada , ed aveva guadagnato qualche centinaio di lire; ora stava meditando di aggiungere, a quello del contadino, anche il lavoro del boscaiolo, tagliando piante per conto di altri.


    Lisetta e Maddalena

    Lisetta era preoccupata per questo aggravio di lavoro e stanca per la lunga giornata di fatica iniziata prima dell’alba.

    Era al quinto mese di gravidanza e il peso della casa da governare, dei figli da accudire, della suocera malata da curare, del bestiame a cui provvedere, e dell’aiuto che dava al marito nei campi, le causava prostrazioni sempre più evidenti col passare del tempo.

    Mise a letto i bambini più presto del solito, passò a vedere la madre di Andrea che già dormiva, poi si recò da Maddalena.

    Le era bastato attraversare il vicolo per scorgere l’amica che, nell’ultima luce della sera, stava innaffiando i fiori e le verdure.

    Si sedette accanto a lei, riposandosi nell’atmosfera di fiducia reciproca e di complicità femminile che caratterizzava il loro rapporto.

    Maddalena aveva confezionato scarpette di lana per il nascituro e gliele mostrò; preparava anche dei quadrati di stoffa necessari per fasciarlo, e dei camicini: piccole cose per le grandi necessità di Lisetta, che tuttavia ne fu consolata.

    Era un segno di solidarietà, la conferma di non essere solo madre e moglie carica di doveri, ma di avere importanza nell’affetto disinteressato di un’amica.

    Spesso Lisetta sottraeva al sonno qualche mezz’ora, la sera, per intrattenersi con Maddalena; d’estate sedevano fuori, nell’orto un po’ appartato dove il rumore del villaggio arrivava debole come un’eco, d’inverno accanto al fuoco.

    Nella conversazione che si svolgeva pacata, s’intrecciavano i crucci e i fatti quotidiani, le piccole speranze, i ricordi della giovinezza non molto lontana ancora, l’orgoglio del proprio lavoro e del proprio ruolo di donne, in un contesto sociale impreparato a comprenderlo e non disposto ad apprezzarlo.

    Talvolta pregavano insieme ed erano quelli i momenti di maggiore intimità fra loro; le formule latine erano ben presto abbandonate per dare spazio alla preghiera del cuore.

    Sapersi amate personalmente da un Dio che è padre pieno di bontà, le consolava di ogni pena e faceva sì che affluissero spontaneamente alle labbra espressioni di lode e di ringraziamento, insieme con la richiesta fiduciosa di aiuto.

    Era ormai notte e nella campagna fasciata dall’oscurità si distinguevano solo le lucciole palpitanti di piccole fiamme, e i profili dei monti.

    Lisetta era tornata a casa e Maddalena decise di andarsene a letto; anche la sua giornata era stata lunga perché era solita alzarsi all’alba.

    Prima di salire in camera preparò un decotto di malva perché tutto il giorno aveva sofferto di mal di denti.

    Nel camino c’era ancora un tizzone acceso e un po’ di brace su cui posò alcuni rametti secchi, poi con la ventola e il soffietto ravvivò il fuoco, vi sovrappose il treppiede e mise a bollire l’acqua in una pentolina; vi immerse quindi una manciata di foglie e i fiori di malva dai grandi petali rossi, che aveva raccolto la sera, dopo il tramonto.


    Le erbe aromatiche e medicinali

    In una piccola fascia vicina all’orto coltivava le erbe medicinali ed aromatiche.

    Era questa una tradizione delle donne della sua famiglia e lei ne aveva appreso i segreti dalla nonna, da zia Matilde e dalla mamma.

    La malva antinfiammatoria, emolliente, lassativa e diuretica, stava in fondo al campetto in piena terra, e si distingueva per le foglie dentate fitte di peluria e i bei fiori violacei; in un angolo si innalzava l’alloro, le cui foglie Maddalena usava non solo per aromatizzare i cibi, ma, in infuso, come ottimo digestivo.

    Alla camomilla spettava un posto importante; ne aveva seminato uno spazio abbastanza esteso, ma la cercava anche nei campi, dove cresceva spontaneamente.

    La raccoglieva in più tempi, a mano a mano che i bianchi fiorellini si aprivano, e la metteva ad essiccare nella dispensa, spargendola sopra un telo.

    L’infuso di camomilla era utilissimo per curare molti malanni: l’insonnia, l’indigestione, il mal di pancia.

    Vicino alla camomilla cresceva la menta dalle proprietà toniche, calmanti e digestive.

    Maddalena strofinava le belle foglie dall’odore penetrante sulle punture d’insetto per attenuare l’irritazione e i bambini di Lisetta correvano da lei, in tali circostanze, per essere liberati dal prurito; poi, approfittando della sua disponibilità, le porgevano le dita piene di piccoli porri, affinché vi spargesse sopra il lattice arancione della celidonia che li faceva scomparire; a questo scopo, però, andava bene anche il latte del fico, come tutti sapevano.

    Per contrastare il mal di testa a cui Maddalena andava soggetta, c’era la melissa, efficace calmante del sistema nervoso e valido sollievo nelle digestioni difficili.

    Il rosmarino stava sul ciglio asciutto del poggio, esposto al sole. L’aroma delle sue foglie era indispensabile in cucina dove entrava da padrone, protagonista di sughi ed arrosti, e tutte le donne del paese ne avevano un cespo nell’orto.

    Maddalena però ne conosceva anche le proprietà medicinali; ricordava che la mamma era solita prepararsene un infuso quando si sentiva stanca o depressa.

    La maggiorana non aveva proprietà curative, ma il suo aroma entrava in quasi tutte le ricette della cucina tradizionale, perciò era oggetto di particolari attenzioni: Maddalena la innaffiava regolarmente, aveva cura di ingrassare il terreno del vaso che la conteneva, staccava la sommità dei rametti quando stavano per fiorire affinché la pianta mantenesse il suo vigore, e faceva seccare all’ombra le fogliette dal profumo inconfondibile, amiche di ripieni e frittate, simbolo del buon cibo di casa.

    La salvia dalle foglie argentate cresceva florida in un bel cespuglio, proprio sull’orlo della fascia e si adornava di fiorellini azzurri; il suo uso era frequente in cucina e nella cosmetica paesana: si strofinava infatti sui denti per renderli bianchi e brillanti.

    Maddalena conosceva anche la sua utilità nel decongestionare gli occhi, come tonico e calmante.

    Seminava altre piante utili e odorose, comunemente usate da tutti in paese: le cipolle indispensabili in cucina ed ottimo diuretico, l’aglio difensore della salute, ricco di innumerevoli proprietà, prezioso battericida, vermifugo e ipotensivo; il basilico dall’aroma penetrante, anima della cucina, elemento essenziale del pesto e profumo del minestrone; il prezzemolo dai mille usi, il sedano.

    Le borragini ruvide ed ispide che cuocendo diventano tanto dolcemente morbide da essere l’erba più usata per il ripieno dei ravioli, erano oggetto di particolare attrattiva da parte di Maddalena che amava anche fare grandi mazzi dei loro fiori di un bell’azzurro intenso, talvolta rosati.

    Coltivava la zucca, emolliente e rinfrescante; il cavolo, "medico dei poveri"; i fagioli nutrienti; i pomodori che usava in insalata e per fare la salsa.

    Altre erbe utilissime alla salute crescevano spontaneamente nei campi e Maddalena le raccoglieva ogni anno, nella stagione giusta, per aggiungerle agli alimenti o per arricchire la sua farmacia domestica: il finocchio era una delle piantine da lei preferite, che non mancava mai di unire alle verdure delle torte quando era ancora tenero, e alle castagne che lessava.

    In primavera spuntavano i suoi ciuffi morbidi dalle foglie esilissime di un verde bluastro e dall’intenso profumo; poi le piante si sviluppavano in altezza esibendo grosse infiorescenze ad ombrello biancogiallino, che maturavano semi preziosi.

    Maddalena li raccoglieva alla fine dell’estate, li faceva seccare all’ombra per poi conservarli in un recipiente ben chiuso; li usava in infuso come digestivo e sapeva che rinforzano la vista.

    Una buona quantità dei semi raccolti li riservava per aromatizzare il pandolce che preparava a Natale.

    Coglieva il tarassaco in primavera per consumarne le foglie in insalata, tagliandole a strisce sottilissime, come faceva col radicchio, o unendole alle altre erbette nella torta di verdura; e il rosolaccio, dai bellissimi fiori rossi che si aprono da maggio a luglio, i cui petali staccava ad uno ad uno e faceva seccare dopo aver tenuto i fiori alcuni giorni ad ornamento della sua casa.

    Li usava in infuso per calmare la tosse e per conciliare il sonno; le fogli tenere, invece, insaporivano le torte.

    L’origano aromatico entrava molto parcamente nelle ricette della cucina tradizionale di Cassana, tuttavia Maddalena ne coglieva in luglio le piantine, scegliendole tra l’erba dei poggi e le faceva seccare legate in mazzetti ed appese all’ombra a testa in giù; poi sbriciolava le sommità fiorite porporine o biancastre per farne infusi, benefici nell’asma e nella pertosse.

    Molti in paese soffrivano di dermatosi ed eczemi, un ragazzo in particolare che si crucciava per il proprio aspetto poco attraente e Maddalena lo curava mettendo a bollire alcune manciate di viole mammole; gli consegnava il decotto in una brocca, raccomandandogli di farne impacchi sulla pelle. L’infuso invece lo usava, addolcito con miele, contro la tosse e il raffreddore.

    Per combattere la caduta dei capelli usava la radice dell’ortica. Era naturale che i capelli delle donne si indebolissero, fasciati nel fazzoletto da mattina a sera e compressi dai pesi che portavano sulla testa.

    Maddalena, come aveva visto fare tante volte dalla zia e dalla mamma, raccoglieva le ortiche con attenzione, per non pungersi, afferrando le piantine alla base dello stelo dove hanno meno foglie e le sradicava con forza; poi faceva cuocere una manciata di radici in un litro d’acqua e un bicchiere d’aceto e con questo decotto frizionava il cuoio capelluto.

    Talvolta aggiungeva alla minestra le foglie più giovani di questa pianta, recidendone con le forbici la parte finale.

    Amava anche l’infestante gramigna nemica degli orti e di tutte le coltivazioni, a cui sottrae alimento e umidità; mentre liberava gli ortaggi dai suoi rametti striscianti, cercava di estrarne le radici il cui decotto beveva in primavera e in autunno per depurare l’organismo: le faceva bollire per pochi minuti in due bicchieri d’acqua che poi gettava; rimetteva al fuoco i rizomi, questa volta in più di un litro d’acqua lasciandoli bollire per un quarto d’ora.

    La parietaria prediletta dalle sue gallinelle, alle quali ne portava ogni giorno una bella manciata, Maddalena la usava come diuretico e rinfrescante, in infuso.

    Quest’erba, le cui foglie si attaccano ai vestiti, era anche utile per pulire i fiaschi e le bottiglie e tutti gli oggetti di vetro, ove non bastasse l’acqua calda.

    Se ne introducevano alcuni rametti con dell’acqua nelle bottiglie che si agitavano per qualche minuto; le foglie, sfregando contro le pareti, portavano via lo sporco, rendendo il vetro brillante.

    In quei giorni fioriva il sambuco nei boschi e lungo il corso del canale e i suoi fiori disposti ad ombrello, profumatissimi, riempivano l’aria della loro essenza gradevole; gli arbusti crescevano a macchia, chiazzando le siepi con i corimbi color crema, che, fatti poi seccare all’ombra, diventavano giallognoli.

    Era il momento di raccoglierli, prima che si aprissero completamente, e conservarli per tutto l’inverno; infatti il loro uso era utile per decongestionare gli occhi infiammati, nelle bronchiti, e per disintossicare il fegato.

    Con le foglie fresche schiacciate, Maddalena faceva dei cataplasmi e li applicava sui foruncoli che erano una piaga comune; ne aiutavano la risoluzione.

    La conoscenza e l’uso delle erbe faceva sì che Maddalena venisse considerata in paese una maga benefica: era consultata e richiesta di aiuto in molte circostanze, soprattutto per curare i bambini.

    Lei preparava le pozioni con cura estrema, consapevole che un errore nel dosare la quantità delle erbe o il loro uso improprio potevano essere dannosi.

    Per questo motivo preferiva intervenire personalmente e non rivelava i suoi segreti erboristici.

    Alcuni rimedi erano invece noti a tutti e di uso comune: contro la polmonite e per far maturare i foruncoli si facevano impiastri di farina di lino e crusca; le fette di patate crude si applicavano sulle scottature e sulla fronte per calmare il mal di testa; il comune raffreddore si curava con vino zuccherato bollente.

    Le ragnatele fermavano l’uscita del sangue dalle ferite; per risolvere la costipazione era efficace l’olio di ricino seguito da un’abbondante tazza di brodo.

    Contro gli arrossamenti della pelle dei bambini piccoli, si facevano frizioni con acqua e olio sbattuti insieme; se dolevano le orecchie bisognava far friggere nell’olio i fiori della camomilla e con quelli preparare un impacco; l’aglio pestato e annusato, meglio se mangiato, era il rimedio migliore contro i vermi; e quando i bambini avevano la tosse asinina, li si portava a respirare l’aria dei pini.

    Infine le foglie del cavolo tenute tutta la notte sulla parte ammalata, alleviavano i dolori provocati dai reumatismi.

    Il medico veniva interpellato solo nei casi gravi, quando non avevano funzionato i rimedi naturali e neppure quelli magici.

    C’erano infatti alcuni uomini e donne che si ritenevano esperti di magia e usavano formule e gestualità per allontanare i vari mali, soprattutto di origine sconosciuta, e bandire la malasorte quando si abbatteva sulla casa, sui campi o sulla stalla.

    Facevano cadere dal lumino alcune gocce d’olio su un po’ d’acqua fredda versata in un piatto, appoggiandolo poi sulla persona o sugli animali ammalati e ripetendo l’operazione, accompagnata da una filastrocca, finché le gocce d’olio non risultavano tonde e intere.

    Per sconfiggere i vermi che tormentavano i bambini, le maghe intingevano nell’olio alcuni pezzetti di filo e con quelli ungevano il corpo del piccolo; per curare gli orzaioli costringevano a guardare dentro ad una bottiglia d’olio.

    Formule più complicate e segni particolari dovevano guarire il fuoco di Sant’Antonio e far cessare il malocchio, "gli spiriti".

    C’erano in paese una maga benefica che "toglieva gli spiriti", e una strega perfida che li "metteva".


    Le ciliegie. Sciroppi e liquori.

    Le ciliegie occhieggiavano sugli alberi per la gioia dei passeri e dei merli che ne facevano strage, beccando in profondità la polpa dolce e rossa.

    Per i bambini era una festa scorrazzare a frotte nei campi da un albero all’altro, arrampicarsi agilmente sui tronchi tenendosi in equilibrio tra i rami; uno o due di loro salivano sul ciliegio, mentre il resto della compagnia attendeva di sotto, afferrando al volo i mazzetti di frutti misti a foglie che piovevano dall’alto.

    Qualcuno stava all’erta, pronto ad avvistare l’arrivo del padrone e a dare l’allarme per una fuga precipitosa attraverso le fasce e giù per i poggi.

    C’era serio pericolo di cinghiate prima da parte del derubato, poi dal proprio padre, immancabilmente avvertito.

    Tutti possedevano alberi di ciliegio, ma "scaricare" quelli degli altri era un’impresa davvero eccitante.

    Maddalena raccolse i frutti della pianta che aveva nell’orto; erano una varietà dal colore giallo chiaro, con una chiazza rossa sulla superficie rotonda e lucida, divisa in due lobi.

    Salì sui rami più robusti servendosi della scala, ma era difficile raggiungere le ciliegie lontane senza rischiare una caduta, sebbene si aiutasse con un lungo bastone a gancio, il pizzàu; così desistette e decise di lasciarle agli uccellini.

    Dopo aver riempito il cavagno, scese dalla pianta lasciandovi la scala appoggiata per una successiva raccolta.

    Aveva progettato di fare la marmellata, data l’abbondanza dei frutti; e di conservare una parte di ciliegie, le più belle e grosse, in vasetti, coperte dall’alcool.

    Pensò di fare anche il liquore, ma occorrevano quelle più rosse e sugose e Maddalena non possedeva piante che facessero frutti di quella qualità; perciò li avrebbe chiesti alle amiche, come gli anni precedenti.

    Per ottenere un ottimo cherry, di cui aveva appreso la ricetta in Argentina, metteva in una capace insalatiera le ciliegie snocciolate e le cospargeva di zucchero più volte per la durata di due giorni; si formava uno sciroppo, al quale aggiungeva una parte uguale di alcool, ponendo il composto in un vaso ben chiuso e lasciandolo maturare per due mesi.

    Talvolta seguiva un altro metodo: metteva nel vaso le ciliegie intere per due mesi, coperte di alcool; al liquido, che aveva assunto un bellissimo color rubino, aggiungeva una soluzione di acqua e zucchero di pari quantità.

    Le amarene dal sapore acidulo, che maturavano un po’ più tardi, le metteva in vasi di vetro coperte di zucchero e le esponeva al sole per sessanta giorni.

    Con le loro foglie faceva anche lo sciroppo, che d’estate univa all’acqua fresca della sorgente per ottenere una bevanda dissetante e del gusto gradevole: metteva cento foglie a macerare in un litro di vino rosso con aggiunta di un chilo di zucchero, per quattro giorni, poi faceva bollire il tutto dodici minuti e lo lasciava raffreddare.

    Una volta filtrato con un telo di lino, lo sciroppo si conservava in bottiglie ben chiuse, da un anno all’altro.


    Sant’Antonio

    Era il tredici giugno, festa di Sant’Antonio, che si celebrava nella chiesa di Corneto.

    Maddalena e le amiche si erano recate insieme alla messa e sarebbero tornate là anche il pomeriggio, per partecipare al vespro e alla processione, nella quale la statua del santo veniva portata attraverso il villaggio ed era onorata con fiori e canti.

    Poiché a Cassana c’erano tre chiese, dislocate ciascuna in una frazione diversa, in occasione delle relative feste ci si scambiavano visite, e si approfittava volentieri dell’opportunità di gustare la torta di riso e gli anicini che venivano offerti ai parenti e agli amici, insieme con un bicchiere di vino particulà.

    Ci si intratteneva parlando di comuni conoscenze, ricordando le persone lontane o scomparse, dando e chiedendo informazioni sull’andamento della campagna, visitando i vecchi e gli ammalati.

    Poiché i matrimoni avvenivano generalmente tra giovani di frazioni diverse dello stesso paese di Cassana, per le donne che cambiavano residenza andando a vivere presso i suoceri, le feste erano una buona occasione per rivedere la casa nativa e trascorrere qualche ora con i genitori, i fratelli, le cognate, i nipoti.

    Maddalena dopo il vespro fu invitata da due suoi cugini, marito e moglie, anch’essi tornati dall’America in tempi recenti e che avevano ripreso a lavorare i campi.

    Con il denaro guadagnato all’estero avevano comprato altri terreni, ristrutturato la casa, ed essendo ancora in buona età e in eccellente stato di salute, aiutati da braccianti a giornata portavano avanti bene la loro azienda agricola, ricavando un discreto utile dalla vendita dei prodotti.

    Parlavano con soddisfazione del loro lavoro e del grano che era ormai avanti nella maturazione.

    Niccolò prevedeva di mieterlo entro un mese e si vantava di aver prenotato per primo la macchina trebbiatrice, che apparteneva ad una facoltosa famiglia del Groppo e veniva presa in affitto a turno.

    Foto I - Cassana. La chiesa di Sant'Antonio

    Chi aveva una terrazza spaziosa, dopo avervi trebbiato il proprio grano, ospitava altri contadini che portavano là i covoni e ripartivano, a lavoro terminato, con i sacchi pieni di chicchi sulle spalle e grandi fasci di paglia, destinata a servire da lettiera agli animali.


    La mietitura

    Alcune settimane dopo la festa di Sant’Antonio tutti cominciarono a mietere.

    Uomini e donne, muniti di falce, si disponevano nei campi su un fronte sparso e tagliavano il grano a venti centimetri dal suolo per lasciare a terra l’erba che vi era cresciuta in mezzo, quindi disponevano gli steli alla base del poggio o nel mezzo della fascia, in sequenza ordinata.

    Li lasciavano distesi al sole per alcune ore, poi qualcuno passava a comporli in mannelli, usando come legaccio quelli più lunghi, intrecciati.

    Il grano veniva in seguito "ritagliato"; gli uomini tenevano fermo il mannello con la mano sinistra, mentre con la destra, armata di falce messoria, più grande di quella comunemente usata per l’erba, tagliavano la paglia a trenta centimetri dalla spiga.

    I covoni, che si facevano legando insieme molti mannelli, restavano sul campo con le spighe rivolte al sole per qualche giorno se il tempo era stabilmente bello, poi venivano trasportati nei granai e nei solai delle case, asciutti ed arieggiati, in attesa che arrivasse la macchina a "battere il grano".

    La trebbiatrice faceva il giro delle frazioni e a turno le famiglie battevano il proprio grano, aiutandosi scambievolmente.

    Quando in una località il lavoro era terminato, gli uomini del villaggio al quale era destinata successivamente la macchina, andavano a prenderla e la trasportavano a spalle, scortati dai bambini la cui festa cominciava quando la trebbiatrice veniva deposta nel luogo scelto, solitamente una terrazza.

    Erano eccitati dall’attesa ed impazienti che la paglia cominciasse a cadere a terra, soffiata via dalla macchina, in grandi mucchi, per giocare a saltarci sopra sprofondando tutti insieme nell’ammasso degli steli.

    La gioia di quelle capriole era ricordata da un anno all’altro; talvolta vi si aggiungeva il brivido del pericolo, quando la paglia veniva gettata nell’aia o nel vicolo sottostanti, più bassi di qualche metro rispetto alla terrazza, e i bambini dall’alto si buttavano a corpo morto sul mucchio, emergendone poi con risa e piccoli gridi, i capelli coperti di steli e le orecchie piene di reste delle spighe che si infilavano anche sotto i vestiti.

    Il divertimento poteva durare a lungo, ma di solito accadeva che qualcuno, tra i più piccoli, si mettesse a piangere infastidito dalle reste ruvide e taglienti; a quel punto venivano mandati via tutti e se ne andavano insieme, per riprendere il gioco il giorno successivo.

    Quattro uomini facevano funzionare la trebbiatrice, spingendo e tirando dai due lati le ruote; c’era chi liberava i mannelli dai legacci, tagliandoli velocemente col falcetto prima di introdurli nella bocca della macchina; chi allontanava la paglia, chi ammucchiava i chicchi col rastrello; chi, col vaglio, li ventilava, liberandoli da spighe e reste, pezzi di steli e glumetti. Il grano veniva poi raccolto in sacchi e riposto nei bancà e lì era conservato, all’asciutto e al riparo, come il bene più prezioso della casa.


    Le patate. Le cipolle. Frittelle di fiori di zucca.

    La trebbiatrice fu spostata dal villaggio di Maddalena a quello vicino, ma della festa del grano restavano tracce vistose dappertutto; dovunque si scorgevano parti di spighe vuote, steli gialli e lucenti sfuggiti al rastrello, frammenti di paglia triturata che il vento sollevava, trasportandola dalle aie a coprire il selciato dei vicoli.

    I bambini rimpiangevano il tumultuoso gioco ormai sospeso per un anno, e gli adulti si preparavano ad un altro lavoro: estrarre dal terreno le patate ormai mature.

    Prima di intraprendere questa pesante fatica resa più difficoltosa dal caldo di luglio e dagli sciami di moscerini che, attratti dal sudore delle parti scoperte del corpo, le pizzicavano fino a farle sanguinare, era necessario tagliare le piantine a dieci centimetri dal suolo, lasciando in evidenza una parte dei gambi; gli steli rimasti servivano da guida al cavatore, che avrebbe affondato il bidente poco oltre, in modo da estrarre dalla terra le patate senza danneggiarle.

    A mano a mano che gli uomini avanzavano nella fascia e rovesciavano le zolle in corrispondenza di ogni solco, portando alla luce i preziosi tuberi, i bambini, le donne e i ragazzi li raccoglievano, ponendoli nelle corbe e in cesti più piccoli, divisi per qualità, le patate bianche e quelle rosse; e per dimensioni.

    Quelle più grosse erano destinate alla vendita, le mezzane sarebbero servite per uso domestico e per la semina dell’anno seguente, le piccole costituivano un elemento importante nell’alimentazione dei maiali.

    A parte e senza distinzione di grandezza e colore si raccoglievano quelle che il bidente aveva colpito o anche solo sfiorato, danneggiando la buccia.

    Bisognava usarle per prime, perché non si sarebbero conservate a lungo.

    Ricominciava così, nel villaggio, il via vai di uomini e donne affaticati dal peso di corbe e corbelli pieni di patate; si riempivano ancora una volta i fondi e i solai e quella provvista garantiva per un anno buona parte del cibo della famiglia.

    Le patate entravano in tanti modi nella cucina paesana: di ottimo gusto e apprezzate da tutti erano quelle fritte nello strutto e aromatizzate da foglie d’alloro.

    Se ne facevano grandi padellate, ma non