I FIORI DI NAPOLI

 di Marina Volpe e Mimmo Cassano


La capitale della musica. Certamente ha detto il vero chi ha affermato che “Napoli è tutta una canzone” sottolineando la naturale propensione canora del suo popolo.
Ai primi dell’ ‘800 Napoli era considerata la capitale musicale, non solo d’Italia ma anche d’Europa. Alla sua fama avevano contribuito anche le tristi botteghe di barbiere in cui nel ‘700 si castravano i bambini per avviarli alla carriera di “voci bianche”; ed anche l’esplosione dell’opera buffa, nata nel ‘700 con Autori quali Cimarosa, Pergolesi, Paisiello.
La Città era famosa in Europa per i suoi conservatori. In realtà queste scuole per l’insegnamento della musica derivavano dagli istituti che erano ivi fioriti  per l’assistenza agli orfani. In origine erano quattro ed erano stati fusi nel 1806 da re Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, in un unico grande “Collegio reale” .
Il San Carlo era il tempio della lirica, affiancato dal “Fiorentini”, dal “Fondo” e dal “Nuovo”. Tutti e quattro questi “reali teatri” erano gestiti nei primi decenni dell’ ‘800  da un accorto impresario milanese, Domenico Barbaia, autentico talent-scout: chiamerà a raccolta musicisti come Rossini, Bellini e Donizetti e cantanti come Isabella Colbran, Maria Malibran, Manuel Garcia.
Pressochè chiusi alla musica sinfonica, i napoletani credevano soprattutto nelle voci, nel virtuosismo, nel “bel canto”. Lo stesso melodramma, che era nato a Firenze nell’ambiente aristocratico dei Bardi ed era divenuto popolare a Venezia grazie al genio di Claudio Monteverdi, proprio a Napoli aveva assunto quella forma che era tipicamente italiana.
Nell’ ‘800 la città  contava più di 400 mila abitanti, più del triplo di quelli di Roma,  ed era una delle capitali più povere d’Italia, annoverando non meno di quarantamila lazzaroni e ventisettemila servitori.
E’ in questo contesto che si sviluppa, originando dal canto popolare, quel tipo di componimento musicale tipicamente napoletano che è la canzone. Nasce in alcuni studiosi l’interesse verso questa cultura contadina e suburbana. Artisti si avventurano nei vicoli e nei “bassi” per trascrivere quei canti che sgorgano spontanei dalle labbra dei popolani e che si sono tramandati vocalmente: essi li limano, li correggono opportunamente e li raccolgono in opuscoletti. Comincia piano piano a sorgere una vera e propria organizzazione: nasce l’Editoria con personaggi del calibro di Guglielmo Cottrau e del figlio Teodoro, autore della nota canzone Santa Lucia (1850).

La tarantella. La tarantella è una danza che accompagnò, fin dai tempi più antichi, alcune canzoni napoletane. Nell’ottocento questo ballo ha sedotto musicisti raffinati, da Mendelssohn, che l’introdusse nell’ultimo tempo della Sinfonia Italiana, a Chopin che l’accolse nell’Opera 43 per pianoforte, a Weber che lo recepì nella Sonata in mi minore a Rossini. La tarantella si giovò, sul suo nascere, di una villanella cinquecentesca intitolata Lucia, ma la sua origine vera e propria risale ad anni ancora più addietro. Alcuni  hanno voluto spiegare il termine “tarantella” come “ballo originario della città di Taranto”, altri come “ballo di coloro che sono stati morsicati dalla tarantola” in riferimento ad un rito terapeutico praticato in Puglia. E' accertato però che la tarantella napoletana, eseguita in coppia, non ha nulla in comune con la tarantella pugliese eseguita dal singolo malato e forse la parola stessa deriverebbe, nella sua accezione napoletana, dall’onomatopea “ntanterantera”. Si tratta inoltre di una pantomima sessuale, infatti nella figurazione dei movimenti e dei passi verrebbero simboleggiati i tre momenti del rapporto amoroso: prima è l’uomo che corteggia la donna, poi uomo e donna si stringono nell’amplesso, alla fine è la donna che fa la corteall’uomo. Le più antiche informazioni sulle danze che hanno avuto influenza sull’origine della tarantella  sono contenute in un canto napoletano in onore di Alfonso D’Aragona risalente al Quattrocento. In questo canto ci sono riferimenti alle danze in voga a Napoli in quel periodo come il moresco e il fandango. In seguito queste due danze si fusero e diedero luogo al “ballo di sfessania” considerato come la vera e propria tarantella. Che il “ballo di sfessonia” sia la tarantella è provato da una serie di illustrazioni realizzate da un pittore francese nel Seicento. Fu in questo periodo che la tarantella divenne anche un ballo di Carnevale.

Appuntamento con Piedigrotta. Prima dell’avvento dei festival, del juke-box, della radio e della televisione, le canzoni napoletane venivano lanciate, ogni anno, la sera della festa di Piedigrotta che cade il 7 Settembre.
Per sapere qualche informazione sulla nascita della festa della Madonna di Piedigrotta basta andare a rileggersi il Satyricon di Petronio Arbitro. In esso si narra che Gitone, Encalpio e Ascylo, mentre visitavano una città individuabile appunto in Napoli, furono attratti dai baccanali che si svolgevano nei pressi di una grotta, quella detta di “Pozzuoli”, accanto a un tempio dedicato a Priapo. Lì, tra mille orge e schiamazzi, i napoletani improvvisavano mottetti e canti. Nel 1200 si volle riconsacrare quel luogo e, al posto del tempio di Priapo, venne edificata una chiesa dedicata alla Madonna di Piedigrotta. La chiesa, nei secoli successivi, subì varie modificazioni e restauri fino ad essere completamente ricostruita nel quattordicesimo secolo. I napoletani, però, non persero l’abitudine di recarsi lì la sera del 7 Settembremuovendosi al ritmo della tarantella e suonando strumenti tipici. La prima canzone ufficiale di Piedigrotta fu Te voglio bene assaje scritta da Raffaele Sacco e musicata da Gaetano Donizetti. Era il 1835 e Raffaele Sacco, ospite di riguardo in casa di amici, fra una battuta di spirito e un complimento a una bella signora, annunciò di aver scritto questa canzone. In un primo momento si limitò a leggere questa lunga poesia, poi gli amici lo convinsero a cantarla. Dato che le finestre erano spalancate dal grande caldo, sotto il balcone si formò una folla di persone che iniziarono ad applaudire. Da allora questa canzone diventò molto popolare ed iniziò la tradizione canora di Piedigrotta.

Il mandolino. Il mandolino è strettamente legato all’universo musicale di Napoli: non poche canzoni napoletane, fra le più celebri, nacquero per iniziativa di persone musicalmente incolte proprio dalle corde di un mandolino. Napoli ne conservò il primato fino a cinque o sei anni dopo il primo conflitto mondiale. Esistevano, intorno agli anni Venti, una trentina di ottimi liutai che esportavano in media mille mandolini alla settimana. Va però precisato che questo napoletanissimo strumento musicale è nato non a Napoli bensì, almeno secondo alcuni studiosi, a Milano. Esistono peraltro due tipi fondamentali di mandolino: quello milanese e quello napoletano. Il mandolino napoletano ha quattro corde doppie; quello milanese ne ha cinque e, sia per la forma che per altri particolari, rassomiglia alla mandòla: ecco la prova secondo la quale esso sarebbe nato a Milano nel Cinquecento, epoca cui risalgono le prime notizie. Alcuni studiosi sostengono invece che il mandolino derivi dalla “pandura” o “tambura”, uno strumento musicale di origine araba, già noto nel IV secolo avanti Cristo, che si sarebbe diffuso in breve tempo presso tutti i popoli del Nordafrica e infine sarebbe sbarcato a Napoli all’epoca delle incursioni dei Saraceni. Milanese o arabo d’origine, il mandolino è comunque napoletano di fatto e di diritto. Per quanto strumento essenzialmente popolare, esso ha affascinato illustri autori che hanno voluto inserirlo, sia pure come elemento di contorno e come strumento di serenate, nelle loro opere. Nel 1787 Mozart lo usò per il Don Giovanni, nel 1796 Beethoven scrisse Due sonatine adagio andante e variazioni per mandolino e pianoforte, nel 1887 Giuseppe Verdi lo volle nel secondo atto dell’Otello, e potremmo andare ancora avanti. Ma veniamo a Napoli. La piu antica fabbrica di mandolini di cui si abbia notizia fu quella dei Vinaccia, fiorita nel Seicento, che produceva anche chitarre. Le corde, a quell’epoca, erano ottenute con budella fasciate di rame e seta. Un Gennaro Vinaccia riformò la tecnica della costruzione dei mandolini inventando la “meccanica”, che ando a sostituire i vecchi “piroli”, ed ebbe inoltre l’idea di sostituire le vecchie corde di ottone con corde di acciaio. Fra il 1720 e il 1820 si affermarono nuove e prestigiose botteghe di maestri liutai. Va sottolineato un fatto quanto mai sintomatico: quando agli inizi di questo secolo gli Zar russi sentirono il bisogno di avere a corte un maestro mandolinista svolsero le loro ricerche proprio a Napoli: cosìi, da Napoli, si mosse il mandolinista Eduardo Amurri. Di questa gloriosa tradizione oggi non è rimasto più nulla, basti pensare che nel 1964, quando il teatro “San Carlo” inaugurò la stagione lirica con il Don Giovanni di Mozart, fu necessario far venire da Roma un mandolinista e che i mandolini che si vendono a Napoli ormai provengono per lo più da Catania. L’unica fabbrica antica di mandolini ancora esistente a Napoli è quella dei Calace, aperta da un Nicola, nato a Pignolo, in provincia di Potenza, nel 1794. Nicola Calace, acceso patriota e carbonaro, venne arrestato dalla polizia borbonica e trattenuto nel penitenziario di Procida. Qui, invogliato da un altro detenuto, imparò a suonare il mandolino e si affezionò talmente a questo strumento che, ottenuta la libertà nel 1825, volle aprire proprio a Procida una fabbrica di mandolini che poi, di lì a qualche anno, trasferì a Napoli. L’ultimo rappresentante di questa illustre stirpe di liutai è Lello Calace. La sua fabbrica, alla quale ricorre chiunque desideri un mandolino “firmato”, si trova a piazza San Domenico Maggiore, nel cuore della vecchia Napoli greco-romana. Le maggiori richieste arrivano dal Giappone, seguono la Germania, la Francia ed il Belgio; il mercato napoletano, invece, assorbe pochissimo. L’antica tradizione napoletana continua ormai lungo l’asse Padova-Brescia. Nel 1975 a Padova, presso il conservatorio “Cesare Pollini”, fu istituita una prestigiosa cattedra di mandolino, mentre a Brescia, presso il “Centro giovanile di educazione musicale”, sul finire degli anni Ottanta si è costituita un’orchestra mandolinistica di altissimo livello.


I FIORI DI NAPOLI


Nel cor più non mi sento

Torna Maggio!

Era de Maggio

Na sera 'e Maggio

Palomma ‘e notte

‘O paese d’ ‘o sole

I' te vurria vasà

Avemmaria

‘A vucchella

Tu ca nun chiagne

Dicitencello vuje

Core ‘ngrato

Torna a Surriento

‘O marenariello

A Marechiare

Funiculì funiculà

‘O sole mio

 

 

 

 

 

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