Identità Nazionale (per il 150° dell’unità d’Italia dalla poetessa comasirese)

Identità nazionale.

Un viso.

Un nome.

Una cittadinanza.

Te set mia un quaidun

se negun… el te ciama.

Abitiamo uno stivale.

Purtroppo o per fortuna.

L’è la scarpa buna per ul brut temp,

per lauràa in de la tera,

per ordenaa i bestii,

per caminaa nella palta, nel padum.

Così siamo noi,

l’è scriù anca

nella Costituzione.

Confini naturali, d’acqua e monti,

circondano pianure e colline

richiedono fatica e ingegno.

Me regordi dalla storia che

me faseven studiaa a scola:

“i Comuni indipendenti amministrati

le arti ricche e povere rappresentate

le scienze umane e tecniche applicate,

pensiero e arbitrio abbiam voluti

liberi, difesi e mantenuti.

Ma miga vouruu saveghen de Longobardi,

Normanni, Spagnoli, Francesi o Austriaci.

Cinq dì per mandai a cà.

Sem sta bun de tras insema

senza mia tropp cougnus né capis…

(parla ti cunt un calabres, un puglies, un sicilian

prova a intendes cunt un piemuntes, un venezian,

ma gnanca, e l’è chi visin, cunt un bergamasc).

En fa come la storiella

del gat e del can che ciapaa

gan ligaa insema la cua,

i an quataa con una couerta

e han dii: Eccola l’unione.

Sem trovaa, volenti o nolenti,

tucc insema sota al re e dopo…

una guerra, un’altra ancora e

sem scanaa, sem parlaa, sem ciapaa.

Siamo passati poi alla Repubblica e

il piccolo e il grande amministrato

el se scana ammò… cunt i parol.

Quanti se ne dis, quanti se ne senten,

tante in i ideei in delle teste”.

Ma l’unione come quella del cane e del gatto

la basta mia, ghe vour l’armunia.

Scusate se il mio parlato

nel dialetto si è dilungato

ma il popolo che siamo è il risultato

di una molteplicità di genti che qui

ha vissuto, amato e lottato.

E se quaidun là mia capì tuscoss

in de la pagina a fianc

guarda caso, in italian

ghè la traducioun.

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Un viso.

Un nome.

Una cittadinanza.

Non sei qualcuno

se nessuno…ti chiama.

Abitiamo uno stivale.

Purtroppo o per fortuna.

E’ la scarpa giusta per il brutto tempo,

per lavorare nella terra,

per accudire il bestiame,

per camminare nel fango, nella melma.

Così siamo noi,

è scritto anche

nella Costituzione.

Confini naturali, d’acqua e monti,

circondano pianure e colline

richiedono fatica e ingegno.

Mi ricordo dalla storia che

mi facevano studiare a scuola:

“i Comuni indipendenti amministrati

le arti ricche e povere rappresentate

le scienze umane e tecniche applicate,

pensiero e arbitrio abbiam voluti

liberi, difesi e mantenuti.

Non ne abbiamo voluto saper di Longobardi,

Normanni, Spagnoli, Francesi o Austriaci.

Cinque giorni per mandarli a casa.

Siamo stati capaci di metterci insieme

senza troppo conoscerci nè capirci…

(parla tu con un calabrese, un pugliese, un siciliano

prova a intenderti con un piemontese, un veneziano,

ma neanche, e sono qui vicino, con un bergamasco).

Abbiamo fatto come nella storiella

del gatto e del cane che presi

hanno legato loro insieme la coda,

li hanno coperti con una coperta

e hanno detto: Eccola l’unione.

Ci siamo trovati, volenti o nolenti,

tutti insieme sotto al re e dopo…

una guerra, un’altra ancora e

ci siamo uccisi, ci siamo parlati, ci siamo accettati.

Siamo passati poi alla Repubblica e

il piccolo e il grande amministrato

si uccide ancora…con le parole.

Quante se ne dicono, quante se ne sentono,

tante sono le idee nelle teste”.

Ma l’unione come quella del cane e del gatto

non basta, ci vuole l’armonia.

Scusate se il mio parlato

nel dialetto si è dilungato

ma il popolo che siamo è il risultato

di una molteplicità di genti che qui

ha vissuto, amato e lottato.

E se qualcuno non ha capito tutto

nella pagina a fianco

guarda caso, in italiano

c’è la traduzione.

 Teresa Cattaneo

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