Identità nazionale.
Un viso.
Un nome.
Una cittadinanza.
Te set mia un quaidun
se negun… el te ciama.
Abitiamo uno stivale.
Purtroppo o per fortuna.
L’è la scarpa buna per ul brut temp,
per lauràa in de la tera,
per ordenaa i bestii,
per caminaa nella palta, nel padum.
Così siamo noi,
l’è scriù anca
nella Costituzione.
Confini naturali, d’acqua e monti,
circondano pianure e colline
richiedono fatica e ingegno.
Me regordi dalla storia che
me faseven studiaa a scola:
“i Comuni indipendenti amministrati
le arti ricche e povere rappresentate
le scienze umane e tecniche applicate,
pensiero e arbitrio abbiam voluti
liberi, difesi e mantenuti.
Ma miga vouruu saveghen de Longobardi,
Normanni, Spagnoli, Francesi o Austriaci.
Cinq dì per mandai a cà.
Sem sta bun de tras insema
senza mia tropp cougnus né capis…
(parla ti cunt un calabres, un puglies, un sicilian
prova a intendes cunt un piemuntes, un venezian,
ma gnanca, e l’è chi visin, cunt un bergamasc).
En fa come la storiella
del gat e del can che ciapaa
gan ligaa insema la cua,
i an quataa con una couerta
e han dii: Eccola l’unione.
Sem trovaa, volenti o nolenti,
tucc insema sota al re e dopo…
una guerra, un’altra ancora e
sem scanaa, sem parlaa, sem ciapaa.
Siamo passati poi alla Repubblica e
il piccolo e il grande amministrato
el se scana ammò… cunt i parol.
Quanti se ne dis, quanti se ne senten,
tante in i ideei in delle teste”.
Ma l’unione come quella del cane e del gatto
la basta mia, ghe vour l’armunia.
Scusate se il mio parlato
nel dialetto si è dilungato
ma il popolo che siamo è il risultato
di una molteplicità di genti che qui
ha vissuto, amato e lottato.
E se quaidun là mia capì tuscoss
in de la pagina a fianc
guarda caso, in italian
ghè la traducioun.
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Un viso.
Un nome.
Una cittadinanza.
Non sei qualcuno
se nessuno…ti chiama.
Abitiamo uno stivale.
Purtroppo o per fortuna.
E’ la scarpa giusta per il brutto tempo,
per lavorare nella terra,
per accudire il bestiame,
per camminare nel fango, nella melma.
Così siamo noi,
è scritto anche
nella Costituzione.
Confini naturali, d’acqua e monti,
circondano pianure e colline
richiedono fatica e ingegno.
Mi ricordo dalla storia che
mi facevano studiare a scuola:
“i Comuni indipendenti amministrati
le arti ricche e povere rappresentate
le scienze umane e tecniche applicate,
pensiero e arbitrio abbiam voluti
liberi, difesi e mantenuti.
Non ne abbiamo voluto saper di Longobardi,
Normanni, Spagnoli, Francesi o Austriaci.
Cinque giorni per mandarli a casa.
Siamo stati capaci di metterci insieme
senza troppo conoscerci nè capirci…
(parla tu con un calabrese, un pugliese, un siciliano
prova a intenderti con un piemontese, un veneziano,
ma neanche, e sono qui vicino, con un bergamasco).
Abbiamo fatto come nella storiella
del gatto e del cane che presi
hanno legato loro insieme la coda,
li hanno coperti con una coperta
e hanno detto: Eccola l’unione.
Ci siamo trovati, volenti o nolenti,
tutti insieme sotto al re e dopo…
una guerra, un’altra ancora e
ci siamo uccisi, ci siamo parlati, ci siamo accettati.
Siamo passati poi alla Repubblica e
il piccolo e il grande amministrato
si uccide ancora…con le parole.
Quante se ne dicono, quante se ne sentono,
tante sono le idee nelle teste”.
Ma l’unione come quella del cane e del gatto
non basta, ci vuole l’armonia.
Scusate se il mio parlato
nel dialetto si è dilungato
ma il popolo che siamo è il risultato
di una molteplicità di genti che qui
ha vissuto, amato e lottato.
E se qualcuno non ha capito tutto
nella pagina a fianco
guarda caso, in italiano
c’è la traduzione.
Teresa Cattaneo