Verticale di Cervaro della Sala all’enoteca Fiorini in Ganaceto (MO).

Il Cervaro della Sala è un vino nato per un errore, per una dimenticanza, perciò subito osannato e diventato (forse suo malgrado) un mito: fu lasciato in botte il bianco che svolse naturalmente la malolattica. Quel che ne nacque convinse Renzo Cotarella, che all’epoca (siamo a metà anni ’80) seguiva (sotto la direzione di Giacomo Tachis) la tenuta umbra di Antinori.

L’altro ieri all’enoteca Fiorini di Ganaceto si è tenuta una verticale di diverse annate di questo prodotto, dal ’95 al 2001, con in più un ’87, per capirlo di più, conoscerlo meglio, e nel caso contestarlo, smascherarlo. Perciò un’occasione comunque unica. Lo è stato ancor di più per l’ospitalità e la cura accorta da parte dei fratelli Alberto e Cristina Fiorini, che hanno coccolato gli astanti con assaggi di formaggi niente affatto banali, focacce e piatti particolarmente deliziosi, come uno splendido tortino di melanzane. Tra i presenti all’incontro c’erano oltre ai padroni di casa e a noi di divino scrivere, appassionati, amatori ed altri con maggiore competenza. Pertanto si è potuto discutere sul vino, sulle singole annate, sugli stili…

Ora, devo ammettere che il Cervaro della Sala non è il mio vino, amante come sono di una certa freschezza ed eleganza nei bianchi (come nei rossi), di una bevibilità e di una naturalezza espressiva nello svolgersi aromatico di un vino, nella sua franchezza ed “imprevedibilità” nel concedersi al palato. Legno e malolattica danno come risultato un vino morbido, quasi opulento, con un’acidità contenuta, sfumature di vaniglia e nuances tropicali. La criomacerazione accentua ulteriormente la morbidezza, finendo però col frenare un ipotetico sussulto d’orgoglio del vino, una capacità propria di svelarsi, di mettersi a nudo. Il Cervaro, per quanto sia un vino tecnicamente ineccepibile, è manchevole proprio sul versante dell’imprevedibilità e della capacità di spiazzare in positivo, cosa che tutti i grandi vini dovrebbero invece avere: manca di quella vibrazione, di anima, direbbe qualcuno. Più esattamente è uno di quei vini che tende a ridurre l’influenza della componente climatica, l’incertezza dell’annata, cedendo qualcosa alle pratiche di cantina e agli accorgimenti enologici.

Detto ciò, la verticale è stata un’occasione ghiottissima per comprendere come questo vino evolve, come regge il trascorrere del tempo (o come, all’opposto tende a mummificarsi), partendo dal presupposto che si tratta di un bianco (e sappiamo bene come in Italia non esiste una cultura di bianchi destinati a durare nel tempo).

80% di chardonnay e 20% di grechetto compongono l’uvaggio delle annate in esame. Tutti i vini mostravano un colore dorato brillante, svelavano da un lato l’età, da un altro tendevano a dissimularla. Gli unici che si sottraevano in parte nel colore a tale assioma erano il ’96 e il ’99. Tutti mostravano, contestualmente, una certa concentrazione, ad eccezione ancora una volta di quelle due annate.

 

’95: colore giallo dorato, abbastanza carico e di una certa consistenza. Al naso è decisamente fuori registro con un sentore violento di carta bruciata e non riesce a trasmettere altro (colpa di una bottiglia sfortunata?). In bocca tale percezione olfattiva cala, lasciando il posto ad un liquido ormai stanco ed esausto, che scivola via senza troppi sussulti.

 

’96: colore giallo paglierino con riflessi dorati, piuttosto consistente. Al naso mostra ancora un po’ di freschezza, con note che tendono a scavalcare il fruttato per virare su toni terziari e anche minerali (appena qualche accenno di pietra focaia, per esempio), resta la vaniglia (senza invadere), un che di resinoso, ma persiste un certo tocco di menta che riesce in parte a nobilitare il vino. In bocca si salva con un quel pizzico di acidità più degli altri che riesce finalmente a distendere il liquido sulla lingua. È insieme al ’99 il vino più godibile della serata.

 

’97: giallo dorato intenso, tendente all’ambrato, liquido molto consistente nel bicchiere. Stanco già al naso, piuttosto piatto, vanamente dolciastro e poco intenso, non riesce nemmeno in bocca a dare il colpo d’ala, avendo esaurito ogni scorta di freschezza a disposizione. Vittima di un’annata calda e di uno stile enologico che puntava in quegli anni alla concentrazione.

 

’98: le sensazioni sono piuttosto simili a quelle del ’97. Meglio del precedente, però, grazie ad un naso che esprime toni minerali (accenni di idrocarburi) ben integrati in un contesto olfattivo dolce, ma non stucchevole, sebbene non di grande intensità. In bocca è meno presente, ma anche meno stanco, con un barlume di sapidità a riequilibrarne l’assetto.

 

’99: già dal giallo paglierino, con qualche riflesso dorato, si intuisce un vino piuttosto diverso dagli altri campioni. È, non a caso, il più fresco di tutti al naso, il più fine, con eleganti sentori di anice, felce, un tocco di canfora. In bocca è più sbarazzino, sciolto dalle catene che trattengono quasi tutti gli altri. È quello che resiste di più nel bicchiere, senza perdersi. Quello che ha più da raccontare insieme al ’96.

 

2000: tende a fare la corsa sul ’97 riproducendone abbastanza fedelmente l’intelaiatura. Vittima probabilmente anch’esso di un’annata calda, resta seduto per tutta la serata, senza dare importanti segni di vitalità. Non è stanco per il passare del tempo, ma per una sua propria minorità (anche d’annata).

 

2001: sinceramente mi aspettavo di più da questo campione, che invece al di là di un naso burroso e vagamente di nocciola e vaniglia non riesce a trasmettere. Non è stanco, ma vittima della sua concentrazione e della sua stentorea ambizione: statico, ritroso, poco comunicativo. Anche in bocca non decolla mai. A fine serata finisce per chiudersi ancora di più. Occasione mancata!

 

’87: quasi giallo ambra, tradisce subito la sua età. Forse fino ad alcuni anni fa non sarebbe stato un cattivo vino, ma oggi è decisamente in fase discendente: ha già espresso il suo meglio. Resta un profilo ossidativo di una certa austerità. Paradossalmente è ciò che salva il liquido da una sua mummificazione, rendendolo maggiormente dinamico, ma è ormai al capolinea, senza ulteriori possibilità di evoluzione positiva.

 

In conclusione la verticale è stato un ottimo banco di prova per comprendere come un certo stile enologico è ormai tramontato e forse deleterio per la durata di un vino, nonostante una certa ambizione. Lo prova il fatto che annate, sulle prime giudicate con diffidenza (quale la ’96 e la ’99, più fresche, con meno ciccia e maggiore bevibilità), siano quelle che ostinatamente si sono opposte ad uno stile che cerca nella morbidezza, nella concentrazione, in sentori allotri, la propria chiave di volta, non giudicando la freschezza come l’unico reale antidoto alla vecchiaia. In teoria, sentendo gli osanna e i peana per talune annate, ci si sarebbe aspettato dal ’97, dal 2000, dal 2001 delle performance ben al di là di quanto realmente potevano offrire. Il Cervaro del ’96 e del ’99 restano invece delle buone prove di vini moderni, non necessariamente caricaturali. Sembra proprio che la natura abbia cercato di suo di equilibrare ciò che dall’uomo è stato snaturato. Ecco perché ’96 e ’99 erano gli unici due vivi.

Le verticali, a dispetto di quanto si crede, sono delle prove che insegnano molto e hanno dalla loro delle armi didattiche senza scadere nel didatticismo.

 

Il prossimo incontro presso l’enoteca Fiorini, il 12 novembre, invece non prevede una verticale di un vino, ma una degustazione alla scoperta di uno dei vitigni a bacca bianca più importanti d’Italia, a mio modo di vedere: il verdicchio, nelle interpretazioni di diverse aziende, tra cui, naturalmente, quella di Bucci.

Published in: on 31/10/2008 at 11:11 am  Lascia un commento  

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