mercoledì 28 marzo 2012

MESSINA: SENTENZA PROCESSO “VIVAIO”, ECOMAFIE RISARCISCONO LEGAMBIENTE


Comunicato stampa

Condanne per 130 anni di carcere e un ergastolo contro la cosca dei mazzaroti

Prima sentenza in Sicilia che certifica l’ingerenza della mafia
nell’affare rifiuti

Per la prima volta le ecomafie devono risarcire un’associazione ambientalista

Un processo senza precedenti, andato a sentenza in tempi brevi. È il processo Vivaio che oggi alle ore 19, con la lettura della sentenza presso la Corte di Assise del Tribunale di Messina ha confermato il piano accusatorio dell’indagine della Direzione Distrettuale Antimafia di Messina che ha fatto emergere gli enormi interessi illeciti gestiti nel barcellonese dalla cosca mafiosa dei mazzaroti. Un intreccio che va dall’omicidio all’estorsione, dagli appalti all’interno della discarica di Mazzarà S. Andrea, fino allo smaltimento illecito di rifiuti speciali.
Gli imputati sono stati condannati per 130 anni di carcere ed un ergastolo.
L’esito del dibattimento ha confermato l’impianto accusatorio sostenuto dalla DDA di Messina che ,insieme ai Carabinieri del Ros, ha svolto un lavoro esemplare: alle loro indagini va il merito di aver svelato il complesso meccanismo di affari che ruotavano intorno alla discarica di Mazzarrà Sant’Andrea ed alla gestione dei rifiuti speciali.
La sentenza pronunciata nel processo “Vivaio” costituisce un importante precedente in Italia per i tempi rapidissimi di svolgimento del processo ma soprattutto per aver svelato i meccanismi dietro il business dei rifiuti e, per la prima volta, in un processo per mafia, il riconoscimento di un risarcimento per le associazioni ambientaliste.
Nella sentenza è stata riconosciuta a Legambiente Sicilia una provvisionale di 50 mila euro.
“Si tratta di un risultato importante -  ha commentato Tiziano Granata Responsabile dell’Osservatorio Regionale sulle Ecomafie di Legambiente Sicilia.  Per la prima volta in Italia, viene riconosciuto ad un’associazione ambientalista un risarcimento per il ruolo svolto sul territorio in termini di analisi, controllo e contrasto rispetto ai reati ambientali ed in particolare al fenomeno delle ecomafie”
Proprio la presenza di Legambiente all’interno del processo, rappresentata e difesa al meglio dall’Avv. Aurora Notarianni, componente del Centro di Azione Giuridica Legambiente Sicilia presieduto dall’Avv. Nicola Giudice,  ha permesso di inquadrare il modus operandi della cosca mafiosa di Mazzarrà all’interno del sistema ecomafia.  





Mafia, 16 condanne e 4 assoluzioni al processo Vivaio per boss e fiancheggiatori dei mazzarroti

Messina, 28.03.2012 :
Un ergastolo (per l'omicidio del camionista Rottino), 15 condanne per boss, gregari e fiancheggiatori esterni, 4 assoluzioni e nessuno sconto per i collaboratori di giustizia Carmelo Bisognano e Alfio Giuseppe Castro, Molti colpi di scena alla sentenza di primo grado sul processo Vivaio, che ha documentato il pesante controllo della zona di Mazzarrà da parte del clan. Condannati anche i vertici di TirrenoAmbiente e i dirigenti Ato. 

Un ergastolo, 15 condanne a pene dai 24 ai 2 anni, quattro assoluzioni totali e alcune assoluzioni parziali. E’ arrivato che erano quasi le 20 il verdetto di primo grado del processo Vivaio, dopo tre giorni di camera di consiglio della Corte d’assise (presidente Salvatore Mastroeni).

Alla sbarra capi, gregari e fiancheggiatori del clan di Mazzarrà Sant’Andrea, la frangia violenta della famiglia barcellonese che fa affari con la gestione delle discariche e lo smaltimento dei rifiuti. Un verdetto zeppo di colpi di scena e molte conferme attese.

Ecco nel dettaglio le condanne: l’ergastolo per Aldo Nicola Munafò, 24 anni per Tindaro Calabrese, già al 41 bis; 14 anni per Agostino Campisi, Nunziato Siracusae Sebastiano Giambò; 12 anni per Carmelo Salvatore Trifirò e l’imprenditore Michele Rotella, 8 anni per Salvatore Campanino;2 anni per Bartolo Bottaro, Antonino Calcagno, Aurelio Giamboi, Cristian Giamboi,Thomas Sciotto, Giuseppe Triolo. Ancora: 10 anni all’ex boss pentito CarmeloBisognano, 15 anni all’acese Alfio Giuseppe Castro, anche lui collaborante.

Assolti totalmente Maria Luisa Coppolino, Salvatore Fumia, Giacomo Lucia e Stefano Rottino. Scarcerato, anche se la condanna è pesante, Trifirò. 

Un verdetto che si discosta in molti punti dalle richieste dell’accusa, rappresentata dal pm della Dda Giuseppe Verzera e dal collega della procura ordinaria di Barcellona, Francesco Massara.

Più alte ad esempio, e non di poco, le pene stabilite per i due collaboratori, l’ex boss Melo Bisognano ed Alfio Giuseppe Castro, considerato a suo tempo il garante degli interessi di Santapaola nel barcellonese. Per entrambi la corte ha escluso i benefici ex articolo 8, quelli cioè riconosciuti ai collaboratori di giustizia. Non una sorpresa nel caso del catanese, per il quale anche l’accusa aveva chiesto il non riconoscimento dei benefici dovuti allo status di pentito.

Per valutare il perché della decisione dei giudici bisognerà attendere le motivazioni, ed in particolare le valutazioni relative alla loro credibilità in generale e più nello specifico in relazione alle vicende sulle quali hanno riferito nell'ambito di questo processo, nel quale sono stati ascoltati anche l'altro collaboratore, l'ex dirigente di Tirreno Ambiente Enzo Marti (giudicato in abbreviato) e uno dei pricipali testimoni, l'imprenditore Giacomo Venuto, assistitto dalle associazioni antiracket. Il costruttore di Merì, ad esempio ha fornito una versione molto diversa rispetto a quella di Castro dell'estorsione ai suoi danni. 

Pesante la condanna per il “barone” Rotella, parzialmente assolto, per il quale tuttavia l’accusa principale è stata riqualificata da associazione mafiosa a concorso esterno. L’accusa aveva sollecitato per lui la condanna a 16 anni.

Ventiquattro anni e non 30 come chiesto dall’accusa per il boss Tindaro Calabrese. Ancora: assolto, a fronte di una richiesta di condanna a 10 anni, Stefano Rottino, fratello di Antonino, ucciso nell’estate 2006 nell’ambito della faida interna al clan.  E se le stangate sono arrivate per tutti i principali gregari del clan, da Agostino Campisi a Stefano Giamboi, per i fiancheggiatori e la “manovalanza” è stata esclusa l’aggravante di essere tra i promotori dell’associazione ed è stata stabilita la pena di due anni di reclusione. 

Tra i condannati, ad esempio, Il camionista Thomas Sciotto, alla guida dei camion che smaltivano il pastazzo e i rifiuti sia sui mezzi delle società dei boss sia quando i subappalti venivano affidate a ditte vicine al clan. 

Spiccano le condanna a 2 anni per Bartolo Bottaro, ex direttore della Pectine industrie, attuale assessore all’Ambiente del comune di Pace del Mela. Ma soprattutto la "stangata" inflitta a Sebastiano Giambò, presidente di Tirreno Ambiente. Tutti i condannati sono stati interdetti dai pubblici uffici e a contrarre con le pubbliche amministrazioni.

Questi i passaggi salienti della sentenza di stasera, che anche per quel che riguarda le parti civili rappresenta una sentenza storica. Per Messina è certamente il primo e vero processo per ecomafie. Il blitz dei carabinieri scattò nell’aprile del 2008 con 15 arresti. Le indagini invece presero il via proprio con l’omicidio di Antonino Rottino.

Al centro dell'indagine la vita del clan  di Mazzarrà  e i principali affari dal 2003 in poi: il business rifiuti, con lo smaltimento e le assunzioni alle società che gestivano le discariche di Mazzarrà e Tripi, TirrenoAmbiente e l’Ato comprensoriale, lo smaltimento illecito del pastazzo, cioè lo scarto della lavorazione degli agrumi, le estorsioni alle imprese edili titolari di importati commesse pubbliche: le gallerie autostradali e ferroviarie, ad esempio, passando per la faida interna al gruppo, nata dal contrasto tra la famiglia di Bisognano, negli anni in cui il boss era in carcere, e il reggente Tindaro Calabrese, ansioso di emergere, forte dell’alleanza col reggente dei barcellonesi, Carmelo D’Amico, e i contatti con i palermitani, in particolare con i Lo Piccolo. Faida culminata nell’omicidio di Rottino.

Agli atti dell’inchiesta anche un interessante capitolo sulla capacità del clan di pilotare le amministrative dei comuni locali, in particolare le elezioni amministrative di Furnari, comune poi sciolto dal Governo nel 2010 proprio per infiltrazioni mafiose. 

di Alessandra Serio