domenica 31 ottobre 2010

Giustiziato il ras Raffaele Guarino

Dopo l’anno di “casa di lavoro”,
nel 2008, passato a Modena
aveva deciso di restare in Emilia e
si era trasferito prima a Torrile, nella
frazione San Paolo, dove era rimasto
fino al gennaio scorso, e poi a
Medesano, piccolo centro della provincia
di Parma, dove aveva preso
in affitto un appartamento in una villetta
quadrifamiliare in via Fenoglio,
dove viveva da solo. E lì, nel suo letto,
ieri mattina la cameriera ha trovato
il boss Raffaele Guarino, 46enne,
meglio noto cole “Lellucio”, capo
della cosca Guarino-Celeste staccatasi
dal clan Aprea-Cuccaro di Barra
nel 2003, ormai cadavere, freddato
con cinque colpi di pistola, quasi
tutti alla testa. Il camorrista, che era
sottoposto alla sorveglianza speciale
con obbligo di soggiorno e lavorava
come artigiano in una carpenteria,
sotto la sorveglianza dei servizi
sociali, la notte precedente ha
ricevuto la “visita” di qualcuno di
cui si fidava che lo ha freddato probabilmente
usando un’arma con il
silenziatore. Sulla porta d’ingresso
dell’appartamento, gli investigatori
dell’Arma non hanno trovato segni
di effrazione: la vittima ha aperto ai
killer o questi avevano le chiavi. Sul
posto, poco dopo le 10, sono arrivati
i carabinieri che hanno dato vita
alle indagini, avvisando anche i familiari
a Napoli. Come al solito, l’appartamento
in cui è stato commesso
l’omicidio è stato passato al setaccio
dagli “specialisti” del Ris e
qualche risposta potrà arrivare dopo
i rilievi dattiloscopici. Il cadavere
di Guarino è stato portato via dopo
che il magistrato è arrivato in via
Fenoglio e nelle prossime ore sarà
effettuata l’autopsia. Poco dopo, partiti
come un missile da Barra, sono
arrivati i familiari del boss, che hanno
dato vita a scene di disperazione.
Sono arrivati anche alcuni familiari
dal Piemonte ma gli inquirenti
li hanno tenuti lontani.
I vicini di casa del boss 46enne
(avrebbe compiuto 47 anni il 5 dicembre
prossimo) sono stati sentiti
dagli investigatori e tutti hanno ribadito
di non aver sentito niente.
Tra di loro c’è anche Nunzia Visconti,
la moglie di Salvatore Illuminato,
un imprenditore di San Giovanni
a Teduccio trovato morto in
circostanze misteriose ad agosto del
2003: il cadavere fu ritrovato nel bagagliaio
di un’auto ferma su una
piazzola di sosta dell’autostrada (ne
scriviamo nel dettaglio nel pezzo a
piede pagina). «Guarino era uno che
si faceva notare - racconta un inquilino
delle villette quadrifamiliari
di via Fenoglio a Medesano -. Attualmente
guidava un suv della Audi.
Apparentemente no aveva grossi
impegni e usciva di casa sempre
agli stessi orari. Una cosa questa che
lui ostentava: sembrava dire faccio
quello che mi pare. Mi è capitato
spesso di sentirlo discutere di soldi
con altri uomini che venivano a trovarlo.
Tutti a bordo di macchine di
lusso, molte con targa tedesca. Io
diffidavo, non gli ho mai dato troppa
confidenza». I vicini di casa hanno
anche raccontato che tutte le notti,
verso le 2, i carabinieri lo controllavano
nella sua abitazione: una abitudine
che tutti avevano notato e
che aveva fatto capire chi era quell’uomo
che viveva da solo.
Era finito nel mirino dei suoi nemici,
gli Aprea-Cuccaro, già nel 2005
Raffaele Guarino. Ma in quella circostanza
rimase ferito perché la pistola
del killer si inceppò proprio
mentre gli stava dando il classico
dopo di grazia alla testa.

Nel 2005 si salvò perché la pistola del killer si inceppò

Raffaele Guarino “Lelluccio”
è un personaggio che ha scalato
velocemente le posizioni più
alte all'interno della camorra della
periferia est della città. Da fedelissimo
del clan Aprea-Cuccaro, per
il quale gestiva il gioco d'azzardo e
le estorsioni nel solo quartiere di
Barra, nel 2003, dopo la “scissione”
dalla cosca-madre, è diventato un
potente padrino di camorra fondando
un gruppo autonomo con
l'amico di sempre Ciro Celeste “'o
roce”, attualmente latitante, a sua
volta imparentato con i Gaiola e i
Minichini, e con Giacomo Alberto,
padrino con “amicizie” con il potente
clan Birra di Ercolano, ma
persino con il clan Sarno di Ponticelli.
Complici i continui blitz e le
“mazzate” giudiziarie che hanno
colpito negli ultimo 10 ani i vertici
del clan Aprea-Cuccaro, i Celeste-
Guarino-Alberto sono diventati i
padroni assoluti di Barra, mettendo
nell'angolo gli Aprea e relegando
i Cuccaro nel loro bunker di “Palazzo
Magliano”. Ma negli ultimi
tempi, grazie anche ad alcune scarcerazioni
“eccellenti”, gli Aprea-
Cuccaro hanno riconquistato gran
parte del territorio perso dichiarando
guerra aperta ai nemici. Dopo
una serie di scaramucce che
non avevano provocato vittime, il
18 gennaio del 2005 l'episodio che
segnò il lento declino degli “scissionisti”.
Pasquale Aprea (nella foto),
così come racconta il pentito
Giuseppe Manco “'o mostro”, tese
un agguato a Raffaele Guarino al
corso Bruno Buozzi. Il ras scissionista
fu ferito da cinque pallottole
all'addome ma quando il sicario gli
stava dando il colpo di grazia alla
testa la pistola si inceppò e Guarino
la fece franca. Ecco la ricostruzione
del pentito dopo l'interrogatorio
del 12 maggio 2009. «Fu pianificato
pertanto l'omicidio di Raffaele
Guarino ad opera di Pasquale
Aprea con la complicità di Lena
Aprea, Ciro Prisco, Vincenzo Salzano
e Lorenzo Acanfora. La decisione
fu di Pasquale Aprea e Vincenzo
Aprea. Lorenzo Acanfora fu
incaricato da Pasquale Aprea di fare
da specchiettista insieme a Ciro
Prisco in quanto dovevano avvisarlo
dell'arrivo di Raffaele Guarino.
Questi era stato attirato da Lena
Aprea presso la sua casa con la
scusa di ricevere un bonus (una
somma ulteriore di guadagno sulle
sue competenze in occasione della
maggiore vendita di droga nelle
festività natalizie) e ivi si era recato
unitamente a Vincenzo Salzano,
che era a conoscenza del piano.
Avevo scommesso due torte con
Vincenzo Acanfora sulla buona riuscita
dell'omicidio. Effettivamente
Raffaele Guarino cadde nella trappola.
Pasquale Aprea gli sparò diversi
colpi ma questi, pur essendo
stato colpito per ben cinque volte,
si dette alla fuga da corso Sirena al
corso Bruno Buozzi percorrendolo
nel senso contrario a quello di marcia.
Infine, Guarino riuscì addirittura
ad affrontare Pasquale Aprea
tirandogli una sedia addosso e
schiaffeggiandolo. Nella circostanza
Pasquale Aprea fu poi colpito da
un secchio d'acqua gettatogli addosso
dal titolare di un negozio di
giocattoli sito al corso Bruno Buozzi,
ad angolo con via Domenico Minichini
», questo con la premessa
che le persone tirate in ballo dal collaboratore
di giustizia sono da ritenersi
innocenti fino a sentenza definitiva.

Omicidio Frattini, chiesti tre ergastoli

Tre ergastoli. È quanto la Direzione distrettuale antimafia ha chiesto
per i Paolo Di Lauro, Raffaele Abbinante e Rosario Pariante, accusati
di essere tra mandanti ed esecutori dell’omicidio di Giacomo Frattini,
ucciso durante la faida tra la Nuova Alleanza e i cutoliani. La Dda ha
chiesto inoltre l’assoluzione per Luigi Vollaro “’o califfo”, per Salvatore
e Mario Lo Russo. La sentenza non prima di fine, fose addirittura
potrebbe slittare al prossimo anno. Così dopo 27 anni, i presunti responsabili
potrebbero rischiare di essere condannati alla pena dell’ergastolo.
Secondo le ricostruzioni della Procura e dei pentiti, la vittima
aveva partecipato, durante la guerra tra Nco e Nuova Famiglia,
alla strage di Poggioreale e perciò doveva essere punito in maniera
eclatante. Il suo corpo fu trovato in una Fiat 500 familiare: senza cuore,
testa e mani. Il “Tribunale della camorra” aveva deciso che Giacomo
Frattini, detto “Bambulella”, doveva essere ucciso e così fu. Dopo
27 anni da quell’omicidio, la Procura di Napoli ha ricostruito il movente,
i mandanti e le fasi dell’esecuzione. Le indagini, a suo tempo
archiviate per essere rimasti ignoti gli autori, erano state riaperte dopo
che Luigi Giuliano decise, nel 2002, di collaborare con la giustizia,
insieme successivamente anche ad altri affiliati che secondo l’accusa
a quel delitto presero parte. Giacomo Frattini, esponente della Nuova
camorra organizzata di Raffaele Cutolo, fu ucciso il 21 gennaio del
1982 perché doveva essere punito, come scrive il capo della Procura
di Napoli Giovandomenico Lepore. Rientrava tutto nella guerra di camorra,
che agli inizi degli anni '80 insanguinò Napoli e provincia, tra
la Nco di Raffaele Cutolo e la Fratellanza Napoletana delle famiglie cresciute
nel dopoguerra all’ombra dei siciliani con il contrabbando di sigarette.
Il movente della vendetta di cui rimase vittima Frattini sta nella strage
del 23 novembre del 1980. Quando, approfittando della concitazione
creatasi per il terremoto, nel carcere di Poggioreale un gruppo di cutoliani
fece irruzione nel reparto occupato dagli avversari, uccidendo
varie persone. Di quell’eccidio la Fratellanza napoletana, guidata all’epoca
da Luigi Giuliano detto “Lovigino”, individuò proprio l'allora
23enne come uno dei responsabili. E così scattò la punizione esemplare:
c’era chi voleva crocifiggerlo davanti all’abitazione di Cutolo, chi decapitarlo.
Si optò per la seconda possibilità. Nel clan c’era un macellaio
che asportò il cuore e poi tagliò la testa e le mani: pezzi che furono
collocati nell’auto insieme al cadavere, ricoperto da un lenzuolo. La
perizia medico-legale accertò anche la presenza di ferite da taglio al
viso inferte quando Frattini era ancora in vita. Un sedicente gruppo, i
Nuovi giustizieri campani, rivendicò il delitto. Ma era un depistaggio:
grazie ai pentiti, è venuto fuori tutt’altro scenario. Il 23enne, a distanza
di un anno dalla sua scarcerazione, era stato attirato in una trappola.

Omicidio Fortunato, 5 arresti

Hanno un nome ed anche un volto, mandanti ed esecutori
(presunti fino a condanna definitiva passata ingiudicata) dell’omicidio
del pluripregiudicato Domenico Fortunato, meglio noto con il nomignolo
di “Mimi ‘o scugnato”, ucciso nel pieno centro di Caivano la sera
del 21 gennaio del 2004, poco dopo aver lasciato l’abitazione di un
parente. Notificata in carcere a Vincenzo Castaldo, Antonio Esposito,
Gennaro Gallucci, Michele Pepe e Giuseppe Piscopo il provvedimento
cautelare. Chiaramente, per gli indagati, vale la presunzione d’innocenza
fino a condanna definitiva passata ingiudicata. A portare avanti
la delicata indagine, sono stati i carabinieri della Compagnia di Casoria,
agli ordini del capitano Gianluca Migliozzi e del tenente Guglielmo
Palazzetti. I cinque indagati sono accusati di omicidio e di associazione
a delinquere. A sparare, secondo quanto riferito dagli origani
investigativi, sarebbero stati Gennaro Gallucci – alias ‘nfriello –
un tempo residente a Casalnuovo e Giuseppe Piscopo, 30 anni, nipote
di “Pinuccio ‘o metronotte” che fino alla metà degli anni ‘90 era considerato
il ras del malaffare casalnuovese, nemico acerrino di Carmine
Alfieri. Mandanti ed organizzatori dell’omicidio di “Mimi ‘o scugnato”
(che per anni è stato un gregario del gruppo di Nicola e Raffaele Nuzzo,
ovvero i Carusiello di Acerra), sarebbero stati Raffaele Angelino,
Vincenzo Castaldo, Giovanni Messina e Michele Pepe. Come basista
avrebbe agito Antonio Esposito, mentre Giuseppe PIscopo e Gennaro
Gallucci insieme a Sandro Chioccarello e Antonbioo D’Angelo, componenti
della batteria di fuoco. A parlare di questo efferato omicidio,
con molta probabilità è stato il collaboratore di giustizia Giovanni Messina,
l’ugola d’oro della Dda napoletana, grazie al quale è stato possibile
(almeno nell’ultimo triennio), smantellare buona parte dei cartelli
criminali operanti tra Acerra-Caivano- Casalnuovo di Napoli e Napoli.
In ogni modo, Domenico Fortunato è stato ucciso per vendicare l’omicidio
di Pasquale Farano, per il quale è stato già condannato – in secondo
grado – all’ergastolo, Antonio Di Buono meglio noto come “’o
gnocco”, scarcerato di recente, per decorrenza dei termini di custodia
cautelare, dai giudizi della XII sezione del tribunale del riesame di Napoli.
La vicenda prende il via il 19 di settembre del 2003, quando un
commando di sicari, probabilmente partito da Acerra, uccideva, nei
pressi del bar “Il Roseto” di Caivano il boss Pasquale Castaldo, ferendo
Luigi Zimbella ed il padre del consigliere comunale Michele Petraglia,
che era seduto su di una panchina davanti al negozio del figlio. Per gli
investigatori che giunsero sul posto, fu subito chiaro che si trattava di
un raid di camorra. Nonostante la frenetica attività d’indagine (condotta
da carabinieri e polizia) poco furono gli elementi per dare un volto
ed un nome a mandanti ed esecutori, anche se tutti sapevano che il
boss “Pasquale ‘o farano”, era da tempo in lotta con il gruppo facente
capo a Domenico La Montagna, alias “Mimmuccio ‘o cuoco” alleatosi
nel frattempo con il gruppo di Antonio Di Buono di Acerra. Passarono
mesi, senza che nulla succedesse. La risposta arrivo il 21 gennaio del
2004. Era una fredda sera d’inverno, quando una coppia di sicari, aggancio
nel pieno centro cittadino di Caivano il pluripregiudicato “Mimi
‘o scugnat” ( cosi chiamato a causa della sua scarna dentatura- ritenuto
molto vicino al cartello criminale Di Buono/La Montagna) esplodendogli
alla testa alcuni colpi d’arma da fuoco, fuggendo subito dopo
dal luogo dell’esecuzione, senza lasciare traccia, pur sapendo bene
che qualcuno li aveva notati, mentre per vendetta, eliminavano un nuovo
che da tempo era divenuta una facile preda.

venerdì 29 ottobre 2010

Il ras scissionista di Barra Raffaele Guarino ammazzato a Parma

. Aveva lasciato il suo bunker di Barra per trasferisni in provincia di Parma, allontandandosi dalla faida con il clan Aprea-Cuccaro. Ma i killer sono arrivati fino alla cittadina emiliano e hanno freddato il capoclan Raffaele Guarino, 47 anni, detto “Lellucio", cofondatore del gruppo Celeste-Guarino assieme al ras Ciro “'o roce", al quale hanno ammazzato il figlio due anni fa. Il pregiudicato di Barra è stato freddato da tre colpi d'arma da fuoco al volto nel garage della sua abitazione, dove il commando di killer partito da Barra lo stava aspettando. Guarino era sfuggito alla morte nel 2005, quando fu ferito al corso Bruno Buozzi da tre colpi sparati dal killer la pistola si inceppò prima del colpo di grazia.

La lotta intestina tra i tre ras liberati

I tre fratelli D’Amico liberi da tempo; Carmine Reale da poco scarcerato.
Ecco i ras delle due famiglie di malavita in guerra a San Giovanni a
Teduccio, indicati nella mappa sulla criminalità organizzata della zona
orientale di Napoli. In particolare nell’arco del 2010, dopo una lunga detenzione,
sono tornati a casa Gennaro D’Amico e sull’altro fronte colui
che è stato sempre considerato il capo del clan di Rione Pazzigno: Carmine
“o’ cinese”.
Quando “Ennaro” fu scarcerato, a San Giovanni a Teduccio festeggiarono
con l’esplosione di fuochi d’artificio. Ma le forze dell’ordine lo hanno
subito tenuto particolarmente d’occhio e pur senza riscontrare a suo
carico elementi per indagini penali, dalle loro informative interne è scaturito
per Gennaro D’Amico di via Villa San Giovanni, un avviso orale
che gli fu notificato da uomini della questura di Napoli e del commissariato
di zona.
Il provvedimento è una misura di sicurezza più leggera rispetto alla sorveglianza
speciale e alla libertà vigilata. Nel caso specifico, gli fu imposto
di non frequentare pregiudicati e di non guidare auto blindate, oltre
a prescrizioni ancora più lievi.
Gennaro D’Amico è il fratello di Luigi detto “Gigiotto” e Salvatore “’o pirata”.
Il gruppo è ritenuto in contrasto con i Reale-Rinaldi, ma i tre congiunti
sono liberi da molto tempo e non hanno carichi pendenti. L’ultima
volta che “Ennaro” salì alla ribalta della cronaca fu nell’estate del
2008, quando i poliziotti del commissariato di Ischia lo sorpresero sulla
spiaggia di Lacco Ameno a prendere il sole. Lui, vedendo la sagoma degli
agenti in divisa, ebbe un sussulto ma non cercò di fuggire. Così come
si comportarono gli uomini che erano con lui, probabilmente per garantirgli
l’incolumità, anch’essi bloccati e controllati.

«Motorini bruciati per depistare»

«Prendevamo dei motorini rubati e li bruciavamo per depistare le indagini,
utilizzando mezzi “puliti” per gli agguati e coprendo le targhe».
A rivelare lo stratagemma usato per gli omicidi dal clan è stato Giuseppe
Manco, “Peppe ‘o mostro” per amici e nemici di camorra, nel corso
dello stesso interrogatorio in cui parlò di un altro accorgimento: quello
per evitare di risultare positivi allo prova dello Stube nonostante si fosse
sparato. Era il 19 maggio 2009 quando fu raccolto il verbale.
«Ai killer facevamo indossare i guanti in lattice quando si trattava di persone
che potevano allontanarsi da Napoli. Quando invece era commesso
da gente che aveva l'obbligo di dimora utilizzavamo un prodotto tipo
spray, come una schiuma, che cospargevamo su mani, braccia e viso. Poi
facevamo una doccia. Le bombolette le aveva Gaetano Cervone che aveva
due cartoni con 24 bombolette ciascuno. Con questa sostanza si evita
il riconoscimento di Stube, perché funziona da isolante».
Il clan Aprea la scorsa settimana ha subito un durissimo colpo con l’arresto
di capi e gregari, anche grazie alle rivelazioni dei fratelli Manco:
Salvatore, più grande di Giuseppe. A cominciare da diversi fatti di sangue
riconducibili alla guerra con gli “scissionisti” Celeste-Guarino. Come
l’agguato nei confronti di Raffaele Guarino, che segnò per gli investigatori
e gli inquirenti l’inizio dello scontro interno al cartello malavitoso
di Barra Aprea-Cuccaro-Alberto. Con il tentato omicidio del ras si manifestarono
apertamente le tensioni che già da tempo agitavano il superclan
di Barra e la vittima fu scelta proprio perché era considerata uno
dei esponenti di spicco degli “scissionisti” capeggiati dai Celeste. Ecco
come ha ricostruito la vicenda il pentito Giuseppe Manco nell’interrogatorio
del 12 maggio 2009, con la premessa che le persone tirate in ballo
devono essere ritenute assolutamente estranee ai fatti narrati fino a prova
contraria.
«Pasquale Aprea, tornato a casa dal colloquio tenuto con Vincenzo Aprea
al carcere di Tolmezzo dov’era stato dato l’ordine di eliminare Raffaele
Guarino, parlò con me, con Vincenzo Salzano e con Vincenzo Acanfora di
tale decisione. Nell’occasione egli però non riferì nulla a Giovanni Aprea
(il boss soprannominato “Punt e’ curtiello”, ndr) perché sapeva che questi
non avrebbe condiviso la decisione».
Dunque, all’interno del clan Aprea alcuni tra i ras volevano tentare ancora
la via dell’accordo. Ma ebbe la meglio l’idea della forza e partì l’attacco
agli “scissionisti” con una trappola a Raffaele Guarino: era il 2005.
Come ha confermato Giuseppe Manco (detto “’o mostro”) sempre nell’interrogatorio
del 12 maggio 2009. «Fu pianificato pertanto l’omicidio di
Raffaele Guarino ad opera di Pasquale Aprea con la complicità di Lena
Aprea, Ciro Prisco, Vincenzo Salzano e Lorenzo Acanfora. La decisione fu
di Pasquale Aprea e Vincenzo Aprea. Lorenzo Acanfora fu incaricato da
Pasquale Aprea di fare da specchiettista insieme a Ciro Prisco in quanto
dovevano avvisarlo dell’arrivo di Raffaele Guarino”.

Carcere duro al figlio del ras Bosti

È accusato di essere il mandante dell’omicidio di un rapinatore di 17enne assassinato
perché non voleva piegarsi alle leggi del clan e perché aveva “sgarrato”
non versando la parte di un bottino di un colpo. Da ieri però Ettore Bosti
detto “’o russo”, figlio di Patrizio, boss dell’Alleanza di Secondigliano, è
stato trasferito al carcere di Tolmezzo al regime del 41 bis. Non ha condanne
per camorra, né condanne da scontare ma secondo la Procura potrebbe
gestire la cosca anche dal carcere se fosse ancora detenuto al regime ordinario.
Per questo il trasferimento al quale la difesa, sostenuta dagli avvocati
Michele Cerabona e Raffaele Chiummariello, ha già presentato ricorso in
quanto ritiene che non ci siano i presupposti per il trasferimento al carcere
duro del giovane. In cella dunque con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio
del 17enne Ciro Fontanarosa. Fu arrestato all’aeroporto di Capodichino
appena sceso dall’aereo arrivato da Madrid, dove aveva trovato riparo
da qualche tempo. Il rampollo di camorra era in attesa del bagaglio
quando i militari dell’Arma del nucleo investigativo di Napoli entrarono in
azione e lo fermarono. Poche settimane prima era stato scarcerato facendo
piombare una “bufera” sugli uffici giudiziari di Napoli, finanche con l’invio
degli ispettori da parte del ministro Alfano. Il pregiudicato era finito in carcere
l’8 marzo sulla scorta delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia
Vincenzo De Feo, imparentato con un boss del clan Contini, e di alcune intercettazioni
telefoniche. Il Tribunale del Riesame di Napoli, accogliendo le
tesi dei difensori di fiducia del rampollo di camorra, lo aveva scarcerato dichiarando
l’ordinanza nulla per un difetto formale. Ovvero mancavano le bobine
delle intercettazioni telefoniche che la Procura, nonostante le richieste
della difesa, non aveva provveduto ad inviare in tempo per l'udienza. A quel
punto la Procura corse ai ripari e prima ancora che l’uomo potesse lasciare
il carcere, aveva emesso un nuovo decreto di fermo bloccando Bosti nel penitenziario
di Asti. In sede di convalida del fermo, però, la difesa sollevò nuovamente
la questione delle intercettazioni e nonostante una copiosa relazione
della Procura che attestava la presenza presso gli uffici del pm di tutte
le bobine originali il magistrato lo scarcerò rendendo la misura inefficace.
Contro Bosti ci sono le accuse di De Feo, un uomo affiliato al clan che per amore
ha scelto di cambiare vita e di pentirsi. «La sera prima dell'omicidio - raccontò
De Feo ai giudici - ci fu una riunione e la sera prima ancora Ettore Bosti
aveva saggiato la mia disponibilità ad una azione violenta nei confronti
di Ciro Fontanarosa avendone risposta positiva da me; tuttavia mi disse, e
c'era anche Gaetano Esposito con noi, che l'indomani mattina avremmo parlato
meglio e ci saremmo organizzati. Dopo di che Ettore Bosti mi chiede il
favore d andare a prendere la sua amica Rosa e di portarla nella casa du Capodichino
dove si incontrarono. Dopo aver svolto questo servizio, io, in un ultimo
tentativo di salvare la vita al mio amico Fontanarosa, sono andato a cercarlo
e l'ho avvisato di non uscire di casa il giorno successivo. Lui capì la
sincerità del mio gesto e mi abbracciò ma non era spaventato».

Killer dal barbiere, ucciso pregiudicato

Come in un film di gangster
anni ‘30: i killer fanno irruzione
dal barbiere e sparano ad un uomo,
uccidendolo sul colpo, non curanti
della presenza di altri clienti.
È quanto è accaduto ieri pomeriggio
a San Giovanni a Teduccio, alla
periferia della città dove sembrano
riaccendersi le ostilità, mai spente,
tra i sodalizi criminali che si affrontano
da anni per la gestione dei traffici
illeciti: i Rinaldi-Reale contro i
Mazzarella-D’Amico. La vittima si
chiamava Carmine Marigliano, di
36 anni, che inquirenti ed investigatori
avvicinavano alla cosca dei
D’Amico, con roccaforte in via Villa
San Giovanni, dove viveva il pregiudicato,
meglio conosciuto negli
ambienti della malavita locale come
“qua qua”. Un “fedelissimo”, sempre
secondo gli “007” di polizia e carabinieri
su cui il boss Luigi D’Amico
avrebbe sempre potuto contare.
Secondo una delle prime ipotesi
avanzate dai carabinieri della compagnia
Poggioreale (al comando del
capitano Massimo Ribaudo) che indagano
sull’omicidio, si potrebbe
trattare di una spedizione punitiva,
una “vendetta” per l’assassinio di
Patrizio Reale, boss dell’omonimo
clan, con base operativa nel rione
Pazzigno, ferito mortalmente l’11 ottobre
2009 (è deceduto il giorno dopo
in ospedale) sull’uscio della sua
abitazione al corso San Giovanni a
Teduccio. Naturalmente, è solo una
pista e non si esclude che possa esserci
un altro movente dietro l’agguato
stile Chicago: tra questi anche
un’esecuzione decretata all’interno
del cartello criminale per uno
sgarro commesso dal pregiudicato.
Secondo una prima ricostruzione
eseguita dagli uomini dell’Arma, il
raid di morte è avvenuto poco prima
delle 17,30. Scena del delitto il
salone da barbiere “Ciro Pizzano”:
Carmine Marigliano era entrato da
poco ed era seduto su una delle poltrone,
con al suo fianco il titolare del
locale. Nel salone avrebbero fatto irruzione
in tre, con il viso coperto, armati
di pistole. Il pregiudicato aveva
intuito che quelle persone che si
erano appena fermate davanti al negozio,
al corso Protopisani, numero
civico 42, erano giunte li per lui.
Tant’è che, rapidamente, Carmine
Marigliano si è alzato dalla sedia
cercando di ripararsi in uno stanzino,
adibito a bagno. Bloccato il barbiere,
i sicari hanno iniziato a fare
fuoco sparando, almeno, cinque colpi
che hanno raggiunto alla schiena
il loro bersaglio, il quale si è accasciato
sul pavimento, ucciso all’istante.
Poi, la fuga: probabilmente,
i killer si sono divisi, salendo a
bordo di due scooter, una dei quali
trovato bruciato in via Comunale Ottaviano,
poco distante da dove abitano
i Reale e i Rinaldi. All’esterno,
secondo alcune testimonianze raccolte
c’era un quarto complice che
attendeva alla guida di uno dei mezzi.
Scattato l’allarme, su segnalazione
della Sala operativa del comando
provinciale di Napoli, sono
arrivate le prime “gazzelle”. Poco dopo,
corso Protopisani è stata chiusa
al traffico per evitare intralci al sopralluogo
da eseguire sul luogo dell’omicidio.
Prime fasi delle indagini
che sono state fatte sotto gli sguardi
attenti di numerosi curiosi. Durante
l’ispezione eseguita nel salone
i militari hanno individuato e repertato
cinque bossoli calibro 9x21. Nel
frattempo, è giunta anche un’ambulanza
del “118”, ma ormai non
c’era più nulla da fare per Carmine
Marigliano.

martedì 26 ottobre 2010

«Trovammo anche la fossa per Capasso»

Vincenzo Capasso, che secondo i pentiti di Barra aveva ammazzato
Francesco Celeste “’o figlio d’o roce”, sapeva benissimo di essere finito
nel mirino del clan Aprea per “una guardata di zizze”: una vicenda
di gelosia che abbiamo raccontato nei giorni scorsi. Ma poi, spinto
dalla necessità di danaro e convinto di poter avere salva la vita, era
tornato a Napoli dopo un periodo trascorso nel Nord Italia. Così, il 4
aprile 2008 andò a Barra, nel bunker della cosca per un chiarimento.
Ma era armato e non avendo sparato per primo, trovò la morte. Ecco
quanto avvenne prima del duplice omicidio (quella sera fu ucciso anche
il fratello 17enne Mariano che lo aveva accompagnato) nella ricostruzione
del pentito Giuseppe Manco, con la
consueta pemessa che le persone citate devono
essere ritenute estranee ai fatti narrati fino
a prova contraria.
«A novembre 2007 a Vincenzo Capasso fu sequestrato
un motorino e lui diede mille euro a
Gennaro Ambrosanio per pagare la sanzione.
Ma questa non fu pagata e i soldi ce li mangiammo
noi del clan Aprea, compreso Vincenzo Capasso, in quanto andammo
tutti al ristorante. Ovviamente Capasso non sapeva che stavano
mangiando i soldi suoi. Questo comportamento non fu casuale,
ma fu fatto di proposito in conseguenza della decisione che Vincenzo
Aprea aveva preso sulla sorte di Vincenzo Capasso. Infatti, al colloquio
con Pasquale Aprea e Lena Aprea, aveva detto che Vincenzo
Capasso “doveva essere atterrato”. Ne conseguì che, essendone stata
decretata la morte, era inutile pensare di restituirgli i mille euro. Pasquale
Aprea e Gaetano Cervone ebbero l’idea di andarceli a mangiare
nel senso letterale del termine e, a sfregio, vollero far partecipare
al banchetto anche lo stesso Vincenzo Capasso. Essi si comportarono
così perché la decisione di ucciderlo era un fatto d’onore per la
famiglia Aprea».
Dopo il pranzo, secondo il collaboratore di giustizia, il clan organizzò
il delitto. «Una volta decisa l’uccisione di Vincenzo Capasso, Pasquale
Aprea andò da Massimo Russo, fratello di “Peppe o’ padrino”, per
individuare il posto in cui sotterrare Vincenzo Capasso. Furono organizzate
due auto: su una si sistemarono Pasquale Aprea, Gennaro Ambrosanio
e Vincenzo Capasso; sull’altra Ciro Matrullo e Ferdinando
Liccardi. Ma giunti su un cavalcavia, sito qualche
uscita prima di Casale, essi videro i lampeggianti
dei carabinieri e fu fermata l’auto su
cui viaggiavano Liccardi e Matrullo. Questi ingaggiarono
un breve inseguimento durante il
quale riuscirono a gettare fuori dal finestrino
una delle pistole, ma poi furono bloccati e arrestati.
Vincenzo Capasso allora cominciò a
capire di essere in pericolo per cui fuggì prima a San Giovanni a Teduccio
e poi nel Nord Italia».
I due fratelli Capasso furono poi assassinati davanti all’abitazione di
Ciro Prisco da quest’ultimo e da Giuseppe Manco, il cui racconto da
pentito è servito a ricostruire nei dettagli la sparatoria scaturita da
una violenta discussione. Vincenzo pretendeva la resituzione dei mille
euro, ma trovò la morte.

Carcere a vita per Luciano, boss che non si è pentito

È l’unico della famiglia Sarno a non aver scelto di effettuare il
“grande salto”: nessun cedimento, nessun ripensamento, nessun
rimpianto. Luciano, a differenza degli altri fratelli e degli altri
sodali, è l’unico a non essersi pentito. Non ancora, almeno. Anche
per questo per lui, dopo l’arresto era stato predisposto il carcere
duro. Il famigerato 41 bis, un tipo di detenzione che lascia
pochissima libertà personale, che non permette contatti con gli
altri detenuti, che ne permette pochissimi anche con i familiari più
stretti, e che starebbe stretta a chiunque, anche a un eremita. A
dirla tutta, però, se è vero che Luciano Sarno è stato l’unico, fino
ad oggi, a non essere sceso a patti con la giustizia, è vero pure che
un altro della famiglia di Ponticelli non è più tra le fila dei
collaboratori dello Stato. La “sorpresa”, perchè di questo si è
trattato, era arrivata in un’aula di Tribunale, nel bel mezzo di
un’udienza. La voce con la quale è stata pronunciata la fatidica
frase «non ho più intenzione di collaborare», è quella di Giuseppe
Sarno, cugino di Ciro Sarno (nella foto), alias ‘o sindaco. Giuseppe
Sarno, detto Caramella era stato arrestato, dove stava
festeggiando il suo compleanno in un ristorante. Un passo
indietro, il suo, che a dire la verità non ha stupito più di tanto gli
007, che a dirla tutta, non avevano mai creduto fino in fondo nel
pentimento di Giuseppe Sarno.
L’annuncio del suo pentimento
fatto un mese dopo l’arresto
indusse il figlio Antonio a
minacciare di morte la stessa
madre per dimostrare la sua
fedeltà al clan. Un irriducibile,
insomma, per quanto riguarda la
volontà di non collaborare con
la giustizia, e così anche a costo
di beccarsi l’ergastolo, Luciano
Sarno non intende pentirsi,
almeno non l’ha ancora fatto.

Omicidi del clan Sarno, 13 ergastoli

Nessuna clemenza e davvero poche attenuanti. Dei ventuno imputati del
clan Sarno per gli omicidi nella faida con i Panico di Sant’Anastasia arrivano,
infatti, in corte di Assise ben tredici ergastoli, molti dei quali associati
ad alcuni mesi di isolamento per mandanti ed autori degli omicidi avvenuti
nel 2004 nella lotta con la famiglia vesuviana. Solo quattro, infatti, sono gli
imputati assolti con formula piena. Il carcere a vita è stato deciso per Luciano
Sarno che dovrà inoltre scontare sei mesi in isolamento, per Eduardo Troiano,
fedelissimo dei Sarno secondo l’accusa, più tre mesi di isolamento; medesima
pena anche per Fabio de Michele, Francesco Di Grazia, Paolo Di Grazia,
Giovanni Panico, Giancarlo Gallucci, Mario Sacco, Gerardo Perillo, Ciro
Perillo, Salvatore Coppola e Salvatore Circone, Giuseppe Piscopo con sei mesi
di isolamento. Decisioni meno severe, invece, per Pasquale Sarno, il collaboratore
di giustizia è stato condannato a 24 anni, Paolo Di Grazia, 23 anni,
Luciano Cantone che dovrà scontare sei anni, il pentito Giovanni Messina,
21 anni e Francesco Pacconi, 3 anni. Le assoluzioni sono invece arrivate
per Maria Musti, Antonio Piccolo, Francesco Piccolo e Francesco Ranieri,
questi ultimi due difesi dal penalista Antonio Abet insieme al collega Rosario
Arienzo per quanto riguarda Piccolo. Gli appartenenti al clan Sarno, infatti,
sono stati per diversi motivi condannati in secondo grado per gli omicidi di
Luigi Amico, Gustavo Viterbo e Ciro Coppola. Gli imputati furono arrestati nel
corso di un blitz che non solo riuscì a fare piazza pulita di tutti i boss che dominavano
l’area vesuviana per anni e anni ma anche a fare luce su una lunga
scia di sangue dovuta ad una lotta tra due clan, i Sarno e i Panico. Il boss
Luciano Sarno solo per l’omicidio di Luigi Amico, mentre per quello di Gustavo
Viterbo non c’era stata la richiesta di estradizione e quindi il gup lo ha
prosciolto. I clan si combattevano con azioni di fuoco continue: l’obiettivo
era uno, conquistare sempre più spazio, riuscire a gestire quanti più traffici
illeciti. Non importava che per farlo occorresse passare sui cadaveri dei luogotenenti
avversari. Il clan Sarno, con il boss Luciano Sarno, lanciò la sua offensiva,
il segnale alle 23,45 del 20 marzo del 2004 nei pressi del bar “Dei Nobili”
di Sant’Anastasia. Gustavo Viterbo fu crivellato di colpi nel suo feudo.
Morì nell’ospedale di Pollena Trocchia poche ore dopo. A fare luce sull’episodio
e sui presunti carnefici e mandanti dell’omicidio è stato per primo Paolo
Di Grazia. Forti condanne che sono arrivate, quindi, nonostante la confessione
di essere stati loro ad ammazzare Gustavo Viterbo. Due degli assassini
erano loro: Francesco Di Grazia, cugino del pentito Paolo ed Eduardo Troiano,
fedelissimo del clan Sarno. Lo dissero in un’aula affollata di avvocati difensori
e alla presenza del pubblico ministero Vincenzo D'Onofrio. La confessione
dell’omicidio arrivata nel corso del processo celebrato in Corte d’Assise
puntava probabilmente a non essere condannati all’ergastolo.

venerdì 22 ottobre 2010

Una lite per una donna diede il via alla sanguinosa faida

Fu in particolare un litigio
con due esponenti dell’”Alleanza
di Secondigliano” da parte
dei Celeste a provocare la scissione
con gli Aprea. Inutilmente
si cercò una mediazione, il ras Ciro
“’o dolce” e il figlio Francesco
la rifiutarono e così scoppiò la
guerra a Barra. Parola di Giuseppe
Manco, che lo ha raccontato
ai pm antimafia. Il verbale è agli
atti dell’ordinanza di custodia di
custodia cautelare costata le manette
o la notifica in carcere a 6
fratelli Aprea (Vincenzo, Rosa,
Patrizia, Pasquale, Lena, Giuseppina)
e ai ras Gaetano Cervone
detto “Bibì”, Gennaro Ambrosanio
“’o nonnetto” e Ciro Prisco.
«I Celeste», ha messo a verbale
“Peppe ‘o mostro”, come viene
soprannominato il pentito, «avevano
avuto un “problema” con il
clan di “Mimì ‘o ‘mericano” e di
“Paoluccio “’o infermiere” (Paolo
Di Mauro, ndr), gruppo che faceva
riferimento all’Alleanza di Secondigliano,
in particolare al clan
Bocchetti. Fummo convocati attraverso
“zì Menuzzo” per decidere
il da farsi. Pasquale Aprea
mandò me e io mi incontrai con
“Mimì ‘o mericano” e suo nipote,
tale Peppe, di corporatura alta
e massiccia. Era quest’ultimo
che aveva avuto il “problema”
con i Celeste a causa di fatti di
donne. Questi mi chiesero la testa
dei Celeste e il “Menuzzo” si
offese perché alla sua presenza
bisognava fare sempre la pace e
mai chiedere la guerra. Presi
tempo, dicendo che dovevo riferire
a Barra. Partecipai proprio
con Ciro Celeste a un nuovo incontro
tenutosi lo stesso giorno
(era maggio o giugno 2003) in
cui, alla presenza del “Menuzzo”,
fu sancita la pace, Nonostante
ciò, Ciro Celeste dopo poche ore
andò con il figlio Francesco con
due moto a sparare contro l’abitazione
di “Mimì ‘o mericano”.
Ciò rappresentò un vero e proprio
affronto a tutti coloro che avevano
sancito la pace. Per cui, il giorno
dopo, Salvatore De Francesco,
sempre su disposizione di “’o
Menuzzo”, venne dagli Aprea per
sottolineare che “Paoluccio ‘o infermiere”
si era offeso. Pasquale
Aprea capì che doveva dare una
lezione ai Celeste, per cui decise
in accordo con Vincenzo
Acanfora, che entrambi i Celeste
dovevano essere ammazzati, e al
più presto, per mano di persone
del clan Aprea».
Giuseppe Manco ha poi continuato,
nell’interrogatorio del 19
maggio 2009, a riferire circostanze
relative a quel periodo.
«Pasquale Aprea invitò a casa
sua Raffaele Guarino e Salvatore
Petrone, proponendo loro l’omicidio
dei Celeste. Poco dopo
Guarino, andò a riferire a Ciro Celeste
del piano di Pasquale Aprea
per toglierlo di mezzo. Fu così
che si saldò l’alleanza tra i Celeste
e i Guarino, che fu evidenziata
con una sparatoria contro
la casa di Lena Aprea e con l’incendio
dell’abitazione di Enrico
Veneruso..

«Dammi 10 giorni e ti regalo Ponticelli»

«Vincenzo Aprea promise
a Ciro Sarno che gli avrebbe “regalato”
Ponticelli. “Dammi dieci giorni
di tempo”, disse».
Per Giuseppe Manco, pentito cardine
dell’ordinanza di custodia cautelare
che ha colpito l’altroieri 20 indagati
del clan Aprea, il retroscena
della strage al bar “Sayonara” (sette
morti ammazzati, tra cui un fedelissimo
di Andrea Andreotti detto
“’o cappotto”) starebbe in quella
promessa del ras di Barra a colui che
sarebbe stato poi soprannominato
“o sindaco” di Ponticelli. Ecco quanto
ha dichiarato il collaboratore di
giustizia il 12 maggio dell’anno scorso
ai pm della procura antimafia, ai
quali ha indicato alcuni dei presunti
esecutori della strage. Tutti naturalmente
da ritenere estranei al fatto
fino a prova contraria, tenuto anche
conto che il terribile episodio è
finora rimasto impunito non sono
mai stati emessi neanche avvisi di
garanzia. Era l’ottobre del 1989.
«Vincenzo Aprea promise a Ciro
Sarno: “dammi dieci giorni che ti
regalo Ponticelli”. E così fu. Infatti,
egli dette ordine,
dopo un
colloquio in
carcere (se
non erro, era
detenuto a
Fossombrone) di eliminare diversi
esponenti del clan Andreotti nonché
il capo detto “Andrea Cappotto”.
Partì un commando di circa dieci
persone da Barra dirette al bar
“Sayonara” di Ponticelli, luogo di
abituale ritrovo degli affiliati al clan Saluti e baci a Lena Aprea dalla folla di amici e parenti
Mastellone, commesso da lui e da Andrea Andolfi detto “’o
minorenne”, assunse il ruolo di capo. Già nell’anno ‘91 è
diventato un capo. Infatti, quando fu fondato il clan Aprea, egli
era detenuto per rapina e dal carcere si affiliò. Uscitone,
commise un omicidio e pertanto assunse il ruolo di capo. Come
regalo, ricevette la costruzione dello stabile in cui attualmente
abita. In quanto capo si occupava anch’egli di tutti gli affari
illeciti del clan, compreso il settore della droga e delle
estorsioni. Ogni mattina tutti i responsabili del clan si
incontravano a villa Aprea e pianificavano la giornata nei
diversi settori lavorativi». lusa
LE COSCHE DELL’AREA EST.
L’ATTACCO AGLI “SCISSIONISTI” ATTUATO
SENZA INFORMARE GIOVANNI “PUNTA ‘E
CURTIELLO” CHE SPERAVA IN UN ACCCORDO
Andreotti. Al commando parteciparono
quanto meno: Giovanni
Aprea, Gaetano Cervone, Salvatore
Donadeo, Pasquale Palombo, Michele
Alberto, Umberto De Luca
Bossa. Come copertura ovvero per
disfarsi delle armi e delle tute da
meccanico utilizzate nell’occasione,
parteciparono: Luigi Alberto
detto “’o pesantone”, Antonio De
Luca Bossa detto “’o sicco”, Ciro
Aprea. Tutti, dopo la strage, se ne
andarono a Milano, dove c’era Giuseppe
Vilmi che stava per aprirsi
una zona di controllo criminale».
Poco prima della strage, avvenne un
altro grave fatto di sangue riconducibile
alla guerra di camorra dell’area
orientale di Napoli: l’omicidio
del 6 ottobre del 1989 davanti al negozio
di articoli sportivi gestito dalla
vittima, Vincenzo Duraccio. Fu
l’agguato che precedette a Ponticelli
la strage di
San Martino, davanti
al bar di via
Ulisse Protagiurleo
e in cui furono ammazzati
sette persone,
tra le quali un presunto fedelissimo
del “cappotto”: Antonio Borrelli.
Per l’omicidio di Vincenzo Duraccio,
va sottolineato, è stato assolto
con formula piena già in primo grado
Andrea Andreotti.

«Così tentammo di uccidere Guarino»

Il tentato omicidio di
Raffaele Guarino segnò, per gli
investigatori e gli inquirenti, l’inizio
della faida interna al cartello
malavitoso di Barra Aprea-Cuccaro-
Alberto. Con l’agguato al
ras si manifestarono apertamente
le tensioni e i contrasti che già
da tempo agitavano il superclan
di Barra e la vittima fu scelta proprio
perché era considerata uno
dei esponenti di spicco degli
“scissionisti” capeggiati dai Celeste.
Ecco come ha ricostruito
la vicenda il pentito Giuseppe
Manco nell’interrogatorio del 12
maggio 2009, con la premessa
che le persone tirate in ballo devono
essere ritenute estranee ai
fatti narrati fino a prova contraria.
Tanto più che per il grave
episodio nessuna contestazione
specifica è stata fatta con il provvedimento
restrittivo eseguito
mercoledì mattina.
«Pasquale Aprea, tornato a casa
dal colloquio tenuto con Vincenzo
Aprea al carcere di Tolmezzo
dov’era stato dato l’ordine di eliminare
Raffaele Guarino, parlò
con me, con Vincenzo Salzano e
con Vincenzo Acanfora di tale
decisione. Nell’occasione egli però
non riferì nulla a Giovanni
Aprea (il boss soprannominato
“Punt ‘e curtiello”, ndr) perché
sapeva che questi non avrebbe
condiviso la decisione».
Dunque, all’interno del clan
Aprea alcuni tra i ras volevano
tentare ancora la via dell’accordo.
Ma ebbe la meglio l’idea della
forza e partì l’attacco agli “scissionisti”
con una trappola a Raffaele
Guarino: era il 2005. Come
ha confermato Giuseppe Manco
(detto “’o mostro”) sempre nell’interrogatorio
del 12 maggio
2009. «Fu pianificato pertanto
l’omicidio di Raffaele Guarino ad
opera di Pasquale Aprea con la
complicità di Lena Aprea, Ciro
Prisco, Vincenzo Salzano e Lorenzo
Acanfora. La decisione fu
di Pasquale Aprea e Vincenzo
Aprea. Lorenzo Acanfora fu incaricato
da Pasquale Aprea di fare
da specchiettista insieme a
Ciro Prisco in quanto dovevano
avvisarlo dell’arrivo di Raffaele
Guarino. Questi era stato attirato
da Lena Aprea presso la sua
casa con la scusa di ricevere un
bonus (una somma ulteriore di
guadagno sulle sue competenze
in occasione della maggiore vendita
di droga nelle festività natalizie)
e ivi si era recato unitamente
a Vincenzo Salzano, che
era a conoscenza del piano. Avevo
scommesso due torte con Vincenzo
Acanfora sulla buona riuscita
dell’omicidio. Effettivamente
Raffaele Guarino cadde
nella trappola. Pasquale Aprea
gli sparò diversi colpi ma questi,
pur essendo stato colpito per ben
cinque volte, si dette alla fuga da
corso Sirena al corso Bruno Buozzi
percorrendolo nel senso contrario
a quello di marcia. Infine,
Guarino riuscì addirittura ad affrontare
Pasquale Aprea tirandogli
una sedia addosso e schiaffeggiandolo.
Nella circostanza
Pasquale Aprea fu poi colpito da
un secchio d’acqua gettatogli
addosso dal titolare di un negozio
di giocattoli sito al corso Bruno
Buozzi, ad angolo con via Domenico
Minichini».
Secondo Manco, da quel momento
ci fu il riavvicinamento
dei Cuccaro agli Aprea.

Il compenso per il killer? Un intero stabile dove vivere

«Commise un omicidio e come regalo, ricevette in
dono la costruzione dello stabile in cui attualmente abita tutta
la famiglia Cuccaro». È stato sempre Giuseppe Manco, pentitosi
dopo essere stato arrestato per il duplice omicidio dei fratelli
Capasso, a lanciare gravi accuse nei confronti di Michele
Cuccaro della famiglia dei “Cuccarielli” di via Giovanbattista
Vela. Anche in questo caso, come è ovvio, vale il principio per
cui le persone tirate in ballo dai collaboratori di giustizia
devono essere ritenute estranee ai fatti narrati fino a prova
contraria. «Michele Cuccaro inizialmente era un affiliato e dopo
l’omicidio di Giuseppe Testa avvenuto tra il 1991 e il 1992 in via

Mastellone, commesso da lui e da Andrea Andolfi detto “’o
minorenne”, assunse il ruolo di capo. Già nell’anno ‘91 è
diventato un capo. Infatti, quando fu fondato il clan Aprea, egli
era detenuto per rapina e dal carcere si affiliò. Uscitone,
commise un omicidio e pertanto assunse il ruolo di capo. Come
regalo, ricevette la costruzione dello stabile in cui attualmente
abita. In quanto capo si occupava anch’egli di tutti gli affari
illeciti del clan, compreso il settore della droga e delle
estorsioni. Ogni mattina tutti i responsabili del clan si
incontravano a villa Aprea e pianificavano la giornata nei
diversi settori lavorativi».

mercoledì 13 ottobre 2010

Preso 'o sbirro, il reggente dei Casalesi Nel covo i libri della Capacchione e Saviano

 Francesco Barbato, 31 anni, è stato fermato dalla polizia a Castelvolturno, nel Casertano. Barbato, irreperibile da mesi è stato fermato in base ad un provvedimento emesso dal Pm della Direzione distrettuale antimafia per associazione camorristica. L'indagato viene ritenuto dagli investigatori il 'luogotenente' di Nicola Schiavone, arrestato nei mesi scorsi e ritenuto a lungo il reggente dell'omonimo clan diretto dal padre Francesco, detto 'Sandokan' in carcere da 12 anni. Barbato è stato fermato dalla polizia casertana mentre si trovava nell'abitazione di un amico, incensurato come lui.
«La cattura di Barbato, è un altro colpo durissimo al cuore dell'organizzazione che sta subendo un'offensiva dello Stato senza precedenti». Lo dice il ministro dell'Interno Roberto Maroni, congratulandosi con il capo della Polizia prefetto Antonio Manganelli, per l'arresto del boss Francesco Barbato eseguito dalla Squadra mobile di Caserta.


Nel nascondiglio di Castelvolturno Francesco Barbato, trascorreva il suo tempo tra il computer e la lettura. E tra i libri acquistati di recente, 'Gomorra' di Roberto Saviano e 'L'Oro della camorra' di Rosaria Capacchione, giornalista del quotidiano Il Mattino sotto scorta. Sono stati gli uomini della squadra Mobile di Caserta a trovare i testi nel villino dove si rifugiava. Barbato quando si è accorto che gli agenti della Mobile casertana, guidata dal vice questore, Angelo Morabito, avevano circondato il villino non ha tentato di fuggire e si è lasciato ammanettare come aveva fatto alcuni mesi fa il suo capo, Nicola Schiavone, il primogenito di uno dei boss storici dei Casalesi, Francesco detto Sandokan

Il personaggio. Francesco Barbato, soprannominato 'o sbirre', secondo le indagini coordinate dalla Dda partenopea, dopo l'arresto di Nicola Schiavone e di altri elementi di spicco dell'organizzazione, era divenuto il principale referente della fazione dei Casalesi facente capo alla famiglia Schiavone. Aveva trovato rifugio in un'abitazione di un incensurato, a Castel Volturno, sul litorale casertano. Dell'uomo si erano perse le tracce il 15 giugno scorso, dopo l'arresto di Nicola Schiavone, figlio del boss Francesco, detto Sandokan, in carcere da anni con condanna all'ergastolo. Il primogenito di 'Sandokan' fu arrestato perchè ritenuto mandante dell'omicidio di tre affiliati alla cosca, Francesco Buonanno, Modestino Minutolo e Giovabattista Papa, uccisi nelle campagne di Villa di Briano per uno sgarro all'organizzazione.


Nel corso di un'altra operazione, all'alba di questa mattina, la Squadra Mobile della Questura di Napoli, al termine di un'indagine coordinata dalla locale Dda, ha arrestato per associazione di tipo mafioso due imprenditori edili affiliati al clan camorristico Zagaria aderente al cartello dei Casalesi. Si tratta dei fratelli Luigi Abbate, 46enne, e Vincenzo Abbate, 55enne. Nell'ambito della stessa indagine, militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Napoli e dello Scico, hanno sequestrato imprese edili, immobili e disponibilità finanziarie per un valore complessivo di circa 7 milioni di euro riconducibili agli imprenditori arrestati.

martedì 5 ottobre 2010

Attirato in trappola e ucciso dal suo clan

Chissà se il cognome avrà influito sulle scelte di Pasquale Malavita, il 43enne
napoletano di Miano ammazzato ieri pomeriggio nella zona della famosa
rotonda “Maradona” tra Giugliano e Villaricca, nel territorio di quest’ultima
cittadina. Aveva precedenti per droga ed era uno di quelli, secondo gli investigatori,
che avevano scelto di passare con gli scissionisti dopo aver gravitato
negli ambienti del clan Di Lauro. Ma almeno per ora, nessuno tra gli uomini
dell’intelligence partenopea ritiene che l’omicidio segni una ripresa della
tremenda faida del 2004-2006. Quasi tutti ritengono molto probabile invece,
che si sia trattato di una punizione interna al clan Amato-Pagano per uno
sgarro. Lo stesso scenario della morte violenta di Francesco Attrice, trucidato
l’11 agosto scorso, al quale la vittima di ieri era molto legato. Entrambi
sarebbero stati attirati in trappola da uomini dei quali si erano fidati.
Pasquale Malavita è stato ucciso alle 20 di ieri in via Consolare Campano, all’incrocio
con via Firenze, nei pressi di un supermercato, circostanza che ha
creato un po’ di panico tra i clienti. Era da solo in sella a una motocicletta
“Sh 300” quando i sicari, due su uno scooter, lo hanno affiancato aprendo il
fuoco. Il sicario seduto dietro ha materialmente eseguito l’omicidio, centrando
il bersaglio designato alla testa e al torace con quattro proiettili. Il
43enne (che avrebbe compiuto 44 anni il prossimo 9 ottobre) è morto sul colpo,
candendo insieme al mezzo pesantemente al suolo.
Sul posto si sono precipitati i carabinieri della compagnia di Giugliano (agli
ordini del maggiore Andrei), che insieme ai colleghi del nucleo investigativo
di Napoli (guidati dal maggiore D’Aloia), di Castello di Cisterna (con il colonnello
Cagnazzo) e del Cis (Centro investigazioni scientifiche) hanno compiuto
i rilievi e cercato eventuali testimoni. Alla fine dei primi accertamenti,
nonostante la consueta omertà registrata in zona, la dinamica dell’agguato
è stata ricostruita con una certa precisione. Pasquale Malavita è rimasto vittima
di un omicidio pianificato a tavolino. I killer infatti, non a caso sono entrati
in azione alla rotonda di “Maradona”: un luogo soprattutto di transito, non
frequentato abitualmente da persone a piedi. Erano sicuri di non sbagliare
bersaglio e questo significa che lo stavano seguendo, naturalmente senza
farsene accorgere. Pasquale Malavita abitava in via Vittorio Emanuele, nel
quartiere napoletano di Miano. Ma era un abituale frequentatore dell’area di
Melito e giuglianese, che sono sotto l’influenza del clan Amato-Pagano. Condannato
in primo grado dopo l’arresto per traffico di droga risalente all’8 febbraio
2006, da tempo era libero e non era finito più nel mirino degli investigatori.
La sua presenza alla rotonda di “Maradona” non ha meravigliato i carabinieri:
pur frequentando in particolare la zona delle “case celesti” a Secondigliano,
aveva amicizie in quella parte della provincia. Ma la pista più seguita
è quella di un appuntamento-trappola.

Torna libero il ras Paolo Pesce

Il boss Paolo Pesce, considerato un esponente di spicco della camorra dei Quartieri Spagnoli, è stato scarcerato pochi giorni fa. Il ras, dopo essere stato clamorosamente assolto da un omicidio durante la faida tra i Mariano e gli scissionisti, era dentro per scontare otto mesi di reclusione per violazione della sorveglianza speciale. Nello scorso aprile fu scoperto mentre camminava con alcuni esponenti di spicco del clan Elia del Pallonetto di Santa Lucia, anche loro pregiudicati. Nel corso del processo per direttissima patteggiò la pena a otto mesi e ieri dopo sei mesi di reclusione è tornato libero tra i vicoli dei Quartieri. Dopo l’assoluzione dall’accusa di aver ucciso Ciro Napolitano e ferito Vincenzo Romano, insieme con il coimputato Paolo Russo, Paolo Pesce aveva scontato un breve residuo di pena per un’altra vicenda. Poi la notifica della misura di sicurezza e il nuovo arresto per la violazione.

Omicidio Ambrosio, ergastolo ai tre killer

 Il pm aveva chiesto un ergastolo e due condanne a 26 e 24 anni e mezzo di reclusione. Ma i tre accusati dell'omicidio dell'imprenditore Franco Ambrosio e della moglie Giovanna Sacco, avvenuto nella loro villa di Posillipo nell'aprile del 2009, sono stati invece condannati tutti all'ergastolo. Il pm ha ricostruito in aula le fasi di un delitto agghiacciante, che sconvolse la città per la crudeltà con cui era stato commesso oltre che per la notorietà delle vittime. I tre imputati, Marius Vasile Acsiniei (nella foto), che aveva lavorato nella villa come giardiniere, Valentin Dumitriu e Calin Petrica, dopo aver bivaccato in giardino entrarono nell'abitazione per rubare. I rumori svegliarono Ambrosio e la moglie, che furono massacrati di botte. Giovanna Sacco, in particolare, venne lasciata agonizzare per ore e presa a calci perchè rantolava. Dopo aver commesso l'assassinio, i tre si fermarono ancora nella villa per rubare denaro e oggetti preziosi, mangiare e bere. La dinamica del duplice omicidio è stata ricostruita grazie alle intercettazioni e alle dichiarazioni dei tre imputati, che si accusano a vicenda. Secondo il pm le responsabilità maggiori sono di Valentin Dumitriu, per il quale ha chiesto l'ergastolo: fu il "regista" del duplice omicidio. Ventisei anni era la richiesta per Marius Vasile Acsiniei, 24 anni e sei mesi per Calin Petrica, che era all'esterno dell'abitazione mentre l'imprenditore e la moglie venivano uccisi.