ritagli di sport

7 marzo 2006

La zona uccide Nedo Ludi, stopper darwinianamente fuori moda /1

Filed under: books,futbol — filnax @ 7.26 PM

Anno 1989, Nedo Ludi, stopper comunista, va in crisi di identità. A 28 anni s’inerpica su un crinale politico-sportivo da cui non può scendere. Lui, difensore di vecchia scuola, cresciuto con i dogmi rossi del babbo operaio, smarrisce tutti i punti di riferimento. Nel suo club, l’Empoli, arriva un allenatore fedele alla nouvelle vague zonista di Arrigo Sacchi. Uno dalla rivoluzione tattica e semantica. Niente più respiro sul collo all’avversario e il compagno sulla fascia non è più un terzino ma un esterno. Nessun libero dietro di te pronto a spazzare via quando ti perdi il centravanti. Non conta il singolo, ma il gioco sincronizzato del collettivo.

Dopo vane cure rieducative, il nuovo allenatore lo bolla come darwinianamente inadatto alla zona. Ludi è nel periodo peggiore, un’età di mezzo. Troppo giovane per smettere, troppo vecchio per evolversi da stopper a centrale. Non si scoraggia però. Non va in analisi neanche quando Achille Occhetto, in una domenica di pausa del campionato, seppellisce il Pci, la granitica certezza paterna. È solo una questione nominativa, ribatte qualcuno. Già, ma proprio il suo nome, Nedo Ludi, non può non legarsi a quel Ned Ludd operaio stopper nella rivoluzione industriale inglese. Il giocatore acquista improvvisamente una nuova coscienza di sé e organizza la rivolta degli esclusi, dei borderline, di tutti quei calciatori spazzati via dal nuovo verbo sacchiano.

Il mio nome è Nedo Ludi” (Baldini Castaldi Dalai) è il primo romanzo del quarantenne Pippo Russo, noto all’ambiente giornalistico sportivo per la rubrica “Pallonate” che curava sul Manifesto. Lasciato il quotidiano comunista, Russo scrive per l’Unità, il Messaggero e GQ, oltre ad insegnare sociologia all’università di Firenze. Per l’autore “la storia di Nedo Ludi e di tutti quelli come lui è un frammento di quell’autobiografia minima e diffusa di un paese che nessuno vuole andare a cercare. Un paese che ha smesso di essere una terra di stopper nel momento in cui ha cessato di cercare risposte. E di porsi domande”. Russo richiama alle memoria un’Italia grassa e ambiziosa, che sognava di scalzare la Gran Bretagna come quarta potenza industriale mondiale, che si pavoneggiava nella preparazione dei mondiali di calcio. Ma con l’insuccesso della squadra di Azeglio Vicini inizia il tracollo nazionale, non solo in senso sportivo. Si perdono pezzi di industria, si smarrisce memoria e dignità, e il passaggio da una Repubblica all’altra avviene per convenienze di bottega. Sedici anni fa anche il football era un’altra cosa. I protagonisti della domenica venivano ancora considerati atleti e non velini, non c’erano cerchietti né cellulari negli spogliatoi. Si giocava con i due punti per la vittoria e l’imperativo era il rispetto della media inglese: baldanzosi in casa, guardinghi in trasferta. Gli stranieri erano solo un’aggiunta, tre, pochi e selezionati. Da soli due anni il campionato di serie A era passato da sedici a diciotto squadre.

Un romanzo gustoso che si legge tra una domenica di campionato e un turno infrasettimanale. Ma al di la dei cambiamenti di costume – nello sport come nella società – siamo sicuri che il calcio dei tre punti, della zona, dell’addio al fattore campo rappresenti una involuzione?  

Filippo Nassetti

(Il Foglio, 7 marzo 2006)

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