Intervista a Luciano Murru, operaio italiano nella Berlino divisa dal Muro

Luciano Murru è nato e cresciuto fino a 16 anni a Lunamatrona, in provincia di Medio Campidano, in Sardegna, dove da ragazzo inizia ad intraprendere disparati mestieri. Da apprendista panettiere ad apprendista cuoco. Poi la decisione di trasferirsi a Biella dove suo fratello si era stabilito come cuoco e cameriere. Lì frequenta corsi di filatura inserendosi nel ramo tessile, dove lavora tra il ’58 e il ’66, anno in cui si trasferisce a Berlino, dove tutt’oggi vive. È felicemente sposato, ha due figli, uno di 31 e l’altro di 37. L’attuale moglie era giunta a Berlino negli anni ’70 dalla Jugoslavia per lavorare ai nastri di montaggio della Telefunken. In un’interessante intervista mi ha raccontato la storia della sua vita a Berlino: i primi giorni, le baracche dove venivano ospitati gli operai, la comunità italiana e gli aneddoti sul Muro legati ad essa.

Luciano, ti manca la Sardegna?

È la terra dove sono nato, dove ho forti legami, perché lì ho ancora dei familiari. Adesso, però, per me conta Berlino, la Germania, la mia famiglia. Anche se c’è sempre stato il desiderio di tornare.

Luciano Murru appena giunto all'aeroporto di Berlino

Cosa ti è piaciuto di più dei tedeschi?

La correttezza, il rispetto delle regole e la gentilezza dei miei superiori sul posto di lavoro. In Germania, un operaio, per qualsiasi problema, poteva rivolgersi direttamente al direttore, di solito molto disponibile e alla mano, e non come in Italia che dovevi ricorrere dapprima solo a degli intermediari come il caporeparto. L’ordine e questa chiarezza sulle cose è stato ciò che mi è piaciuto di più.

Che impressione hai avuto del Muro? Ha giocato un ruolo nella vita degli italiani?

Mi ha fatto un’impressione tremenda. Da una parte del Muro c’era una sorella, dall’altra parte un fratello. O la madre di qui e il padre di là. Ognuno aveva una reazione personale. Lentamente però ci si abituava. Nella parte est c’erano le lunghe fila d’attesa davanti ai negozi. Non solo davanti alla macelleria e alla frutteria, persino nei panifici. Anche se in molti oggi lo negano. Ho sentito parlare d’italiani che avevano doppie famiglie: una a Berlino est, l’altra a Berlino ovest. Naturalmente quando il Muro è caduto sono stati scoperti.


Luciano Murro in fabbrica a Berlino

Com’era allora la comunità italiana a Berlino?

Era una comunità molto unita, coesa. Oggi ci siamo dispersi. Nella strada “Falsburger Strasse” c’era una chiesa italiana che offriva persino molti svaghi. Lì si poteva giocare al calcio balilla e si potevano leggere i giornali in lingua italiana. Ci si incontrava anche semplicemente per chiacchierare. Ricevevamo aiuto a fare la dichiarazione dei redditi, perché molti di noi non sapevano il tedesco. Nella strada “Fasanenstraße” c’era la Dante Alighieri con sale da lettura e dove si organizzavano festicciole. Altri punti di ritrovo erano la “Gelateria Italiana” e il “Bar Roma” in via “Uhlandstraße”. Negli anni ’70 erano frequentati anche la “Rusticana” e la “Costa Esmeralda”, di proprietà di due sardi.

Quando hai deciso di partire per la Germania e quali sono i tuoi ricordi del viaggio di allora?

Io sono partito con l’aereo il 10 giugno del ’66, un giovedì o un venerdì, e non ho dovuto passare frontiere e subire i controlli della polizia di frontiera della DDR. Sono stato accolto da connazionali, amici miei, che mi hanno aiutato nei primi giorni con le pratiche burocratiche. Debbo ringraziare soprattutto un altro sardo Salvatore Stella. Berlino è una città molto estesa e per spostarsi, con i mezzi di trasporto, da un ufficio all’altro, per fare tutte le pratiche necessarie, s’impiegava circa una mezz’ora. Allora la metropolitana non era ancora terminata e per recarsi, ad esempio, presso la stazione di polizia che era all’aeroporto di Tempelhof, c’era da fare un giro lungo e difficile. L’edificio mi ha impressionato molto. Era composto da corridoi di circa 200m e, a destra e a sinistra, c’erano solo porte che davano in differenti uffici. Mi sembrava di trovarmi in un carcere. Il personale, però, è stato gentilissimo. Poi il lunedì stesso ho iniziato a lavorare. Non sono giunto in Germania già con un contratto di lavoro, come per la maggior parte degli emigranti, non ero legato a delle clausole, potevo sempre rientrare in Italia, a Biella, perché lì avevo un’occupazione ben remunerata e potevo essere sempre riassunto. Mi ero specializzato nelle filature nel ramo tessile. A Berlino, invece, mi sono specializzato nel settore metalmeccanico, lavorando in un’attrezzeria meccanica come rettificatore, smerigliatore. Nelle grosse presse idrauliche facevo stampi per macchine e per elettrodomestici. Nel febbraio del ’74, la fabbrica è andata in fallimento. 400 persone hanno perso il loro posto. Sono rimasto 10 giorni disoccupato prima di essere assunto presso la Mercedes come tornitore, dove vi ho lavorato fino al raggiungimento della pensione il 31 dicembre 2003.

Luciano Murro nelle cosiddette "Baracche" degli emigranti

Esistevano le baracche a Berlino? Se sì, com’era viverci?


Si parla di baracche ma erano delle case vere e proprie. Erano sì costruzioni in legno, però c’era tutto e si stava benissimo. Erano a due piani, ognuno dei quali aveva 5-6 camere. Ogni camera era per minimo due persone ed avevano i riscaldamenti. La cucina era in comune. I servizi igienici erano fuori ed erano forniti di docce e lavandini. Venivano fatti pulire ogni giorno. Io abitavo nelle “baracche” del quartiere di Reinickendorf in via Freiheitsweg, che ospitava prevalentemente operai della Siemens. Due anni più tardi, nel ’68, mi sono trasferito nelle “baracche” di Wedding, che in realtà erano parte di uno studentato. Sia gli studenti che gli operai celibi avevano stanze singole, mentre gli operai con moglie avevano camere doppie.

Mi descriveresti la vita di un giovane operaio italiano nella Berlino degli anni ’60-’70?


La vita a Berlino era molto bella. Eravamo molto giovani e pieni di entusiasmo. Andavamo regolarmente in discoteca. Sia italiani che turchi andavano spesso il fine settimana nella parte est della città, perché i locali erano economici. Se poi si riusciva a cambiare in nero i soldi nella valuta della DDR alla stazione “Bahnhof Zoo”, si poteva entrare nei locali più esclusivi e si poteva ordinare una bottiglia di spumante, che lì era un prodotto raro e costoso. Le ragazze di Berlino est erano più libere e più facili da avere.

Anche tu, insieme alla classe operaia berlinese, hai partecipato alle manifestazioni sessantottine?


Verso il ’68 a Berlino c’erano sempre delle manifestazioni, ad esempio, contro lo Scià di Persia, Reza Pahlevi, contro la guerra in Vietnam, a favore di Che Guevara. Noi operai siamo stati coinvolti dagli universitari che abitavano nel nostro stesso edificio a partecipare a molte dimostrazioni. Più si era, meglio era. Ci incontravamo nel caffè degli studenti e parlavamo della necessità di migliorare il sistema in cui vivevamo. Al centro delle discussioni c’era sempre una migliore qualità dello studio e di risolvere il problema della casa. A quei tempi, per gli studenti, era difficilissimo trovare un alloggio decente. Ecco perché in molti abitavano in case condivise, che era la soluzione più frequente. E poi gli universitari protestavano anche per migliorare le condizioni di lavoro degli operai, dei lavoratori. Ricordo ancora la manifestazione contro lo Scià di Persia il 2 giugno del 1967. I dimostranti si sono divisi in due grandi gruppi. Uno che partiva dal viale “Ku’damm”, dove c’ero anch’io, e l’altro dalla via “Bismarkstraße” per poi riunirsi presso la “Deutsche Oper”, dove si trovava lo Scià. Eravamo in migliaia e la polizia ha fatto di tutto per disperderci e per non far riunire i due gruppi. A noi ci hanno incanalato verso “Adenauerplatz”, dove ci hanno malmenato. I poliziotti erano a cavallo e dall’alto in basso ci prendevano a manganellate. Tra le sei e le otto di sera ci è giunta la notizia dell’omicidio di Benno Ohnesorg (1), sparato da un ufficiale di polizia. Si è scatenato un putiferio. Abbiamo tentato inutilmente di rompere le catene della polizia, che alla fine è riuscita a diramarci.

Luciano Murro, oggi, pensionato nella sede dell'Associazione Malaparte a Berlino - Foto: Emilio Esbardo

Hai aneddoti personali legati al Muro da raccontarmi?

Sì. Un berlinese aveva una cugina dall’altra parte del Muro che si voleva sposare a Berlino est e le voleva regalare l’abito da sposa, le scarpe e la borsetta. Essendogli vietato di attraversare il confine aveva pregato mio fratello, con cui lavorava alle poste, di recapitargli i doni. Mio fratello, che non se la sentiva, mi chiese se avessi potuto farlo io al posto suo. Mi sono recato così con il pacchetto e con 200 marchi in tasca a Friedrichstraße. Sono passato per il “Tränenpalast”, dove mi hanno chiesto 120 marchi per la dogana. Le guardie di frontiera mi hanno consegnato la ricevuta e mi hanno fatto proseguire per Berlino est. Dopo un’attesa di circa due ore, la ragazza non si era presentata ed io decisi di ritornare a casa. Ai controlli però mi hanno chiesto di pagare nuovamente 120 marchi, per poter riportare anche il pacchetto indietro con me. Era una cifra che non avevo e sono stato rispedito a Berlino est. Ho cercato di liberarmi di questo pacchetto, tentando di buttarlo nel cassonetto dell’immondizia. Mi è stato impossibile perché la Friedrichstraße era controllata massicciamente dai temuti VoPos, la polizia popolare. Anche se non li vedevi, erano sempre lì. Molti, infatti, erano in borghese. Quando andavo ad un cassonetto, mi si avvicinava qualcuno che mi chiedeva cosa stessi facendo. Io rispondevo che facevo una passeggiata e mi allontanavo. Poi mi è venuto in mente che nella stazione c’erano le cassette di sicurezza per i bagagli, che funzionavano a gettone. Dopo aver infilato un marco ho messo il pacchetto dentro ed ho chiuso con la chiave, dove vi era segnato il numero della cassetta e stampato l’emblema della DDR. Poi ho nascosto la chiave nella tasca piccola del jeans. Ai controlli sono stato fortunato e non mi hanno scoperto. A casa mia ho trovato mia cognata che piangeva a dirotto. Ho consegnato la chiave a mio fratello affinché la desse al suo collega. Non so come poi sono riusciti a recapitare il regalo alla sposa, che non si era presentata all’appuntamento perché si era ammalata.

Hai conosciuto italiani che sono riusciti a far scappare persone dalla DDR?


Walter, un mio amico e collega di lavoro, aveva la ragazza a Berlino est. Nessuno di noi aveva idea che avrebbe voluto farla fuggire dalla DDR. Una volta si è portato via dal magazzino della fabbrica delle pinze grandi e delle tranci. Alla stazione di Friedrichstraße vi erano delle porticine in ferro, chiuse con il lucchetto, che portavano direttamente nella parte ovest della stazione. Il giorno successivo ha attraversato la frontiera e si è recato, dove c’era una di queste porticine da dove ha fatto scappare la sua ragazza e i suoi suoceri. Sui giornali abbiamo appreso poi tutti i dettagli dell’accaduto: Walter aveva osservato a lungo i movimenti dei Vopos e i loro cambi di guardia. Con gli strumenti della fabbrica era riuscito a spezzare il lucchetto e a dileguarsi nel treno della parte ovest della stazione.

di Emilio Esbardo

(1) L’uccisione di Benno Ohnesorg ebbe una forte eco nell’opinione pubblica ed una vigorosa influenza sul movimento studentesco tedesco del ’68.

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