Discussione su A un vincitore nel pallone. 1

 

A un vincitore nel pallone. 1

LO SPORT: VIGORIA, GLORIA O RIMEDIO? Spunti di riflessione da una lettura di G.L.

Di Loretta Marcon e Giuseppe Pilumeli

“Ho voluto che lo studio sia breve, ma assolutamente quotidiano, né interrotto da vacanze o autunnali, o carnevalesche, o ebdomadarie, eccettuate quelle delle Feste. Ne ho ottenuto che i figli sono cresciuti colla idea che lo studio sia la occupazione connaturale dell’uomo, e che non vi hanno mai mostrata la menoma avversione. Li ho divertiti con ogni genere di proporzionato sollazzo domestico, li ho premiati con quanto ho potuto immaginare che gradissero, li ho animati colla pubblicità dei saggi, delle conclusioni e della stampa, ma tenendoli severamente lontani dal Teatro, dai Pubblici Spettacoli e dalla compagnia di altri giovani, li ho avuti affezionati alla casa e non distratti da desiderii e pensieri che potessero alienarli dalla applicazione”[1].

Questo stralcio di una lettera  che il padre di Leopardi scrisse al cognato è non poco rivelativo riguardo il tipo di pedagogia con il quale fu educato il giovane Giacomo. La lontananza e l’isolamento erano, negli intenti del padre, indirizzati a  far sì che i figli non si distraessero da quello che egli stesso considerava lo scopo dell’uomo nobile: l’erudizione e la conoscenza.

In realtà, poiché l’infanzia è di tutti, i tre ragazzi Leopardi ritagliavano ampi spazi  per il gioco, con l’approvazione del padre che vedeva, evidentemente, di buon occhio i sollazzi che “rimanevano in famiglia” e comunque rafforzavano gli studi classici che andavano facendo. Si trattava, per la massima parte, di giochi epici, di battaglie romane condotte con le carriole usate a guisa di bighe, che vedevano sempre il primogenito in veste di capo sul carro del vincitore.

I giochi ma, forse questo in particolare, assumono una rilevanza considerevole se si pensa al “sommo desiderio di gloria”[2] che suscitarono nel piccolo Giacomo; un desiderio questo, che lo accompagnò per gran parte della sua vita. Pur timido e introverso, il fascino esercitato dal mito dell’eroe era forte a tal punto che leggendo Omero e della “lode e la fama” [venute] a quei grandi uomini grazie al loro coraggio e al loro eroismo, sorgeva il lui, in modo del tutto naturale, il desiderio di imitarli[3].

Egli, infatti, più tardi, nelle sue riflessioni osservava che, contrariamente a quanto si pensa, i timidi sono “coraggiosissimi” e che, anzi, la virtù del coraggio viene rafforzata dalla “timidità”[4]. Nelle sue convinzioni i timidi “non solo sono capaci di non temere né fuggire il pericolo, il danno, il sacrifizio, ma eziandio di cercarlo, di desiderarlo, di amarlo, di bramar la morte, di proccurasela colle proprie mani”[5].

Giacomo dunque amava la gloria, era attirato dalla fama che un uomo coraggioso può conquistarsi a dispetto della sua timidezza e, probabilmente, sperava per se stesso un’esistenza diversa e quella vigoria fisica che sempre ammirò negli eroi che costellavano i suoi studi classici ma, non solo. Probabilmente c’erano altri “eroi” nei suoi pensieri, anche se diversi e suoi contemporanei.

Quando esattamente egli abbia iniziato a frequentare “pubblici spettacoli” e assistere ad avvenimenti sportivi non è dato saperlo ma sembra certa  la notizia che fu proprio il fratello Luigi ad offrirgli l’occasione per svagarsi e uscire dal clima soffocante di casa, perché, infatti, il giovane era dedito a quello sport allora largamente diffuso che è il gioco del bracciale. Fu proprio dopo una partita che Luigi, allora ventiquattrenne, si sentì male e, successivamente, morì. [6]

Appare utile, per il nostro discorso, una piccola digressione che offra qualche cenno relativamente a questo gioco. Il gioco del pallone col bracciale fa parte degli sports sferistici, ovvero, quelli in cui è la palla l’elemento indispensabile e determinante. Si sa che le origini del gioco della palla sono remote e si perdono nella notte dei tempi, ma si può ricordare che era già praticato presso i Greci, in una gamma che andava da un gioco piuttosto tranquillo e senza gran movimento fino a forme violente e maschie che per il loro dinamismo e carattere agonistico possono essere confrontate con i giochi di oggi. Nel ‘500  i giochi con la palla erano in piena fioritura anche in Italia ma, soprattutto, nella forma più nobile del pallone col bracciale. Non c’era manifestazione né spettacolo che non comprendesse la partita di questo sport. La popolarità di questo gioco si mantenne alta tanto che tra il ‘700 e l’’800  dovettero essere costruiti numerosi sferisteri, tra i quali spicca quello di Macerata per la sua grandiosità[7].Tanti autori, con la loro opera[8], hanno cantato il gioco del pallone col bracciale ma fu proprio Giacomo Leopardi, nel 1821, a renderlo immortale con la canzone A un vincitore nel pallone[9]. Questo gioco era popolare nelle zone del Piceno fin dal XVI secolo ma non era considerato come un semplice sport, bensì come un’occasione di sfida dove erano in palio l’onore e il prestigio,


[1]  Lettera a Carlo Antici, Roma del “lì 17 del 1815”, in Il  Monarca delle Indie – corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, a cura di G. Pulce – introduzione di G. Manganelli, Adelphi, Milano 1988, pp. 297-8.

[2]  Ricordi d’infanzia e di adolescenza, in Tutte le Opere, a cura di W. Binni e coll. di E. Ghidetti, Sansoni, Firenze 1989, vol. 1.

[3]  Zib. 124, 12.6.1820. Tutte le citazioni sono dall’edizione dello Zibaldone di Pensieri, a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1991.

[4]  Zib. 3489-90, 21.9.1823.

[5]  Zib. 3492, 22.9.1823.

[6] Si veda la lettera di Monaldo e Carlo Leopardi a Giacomo del 16.5.1828 nella quale viene comunicata la morte di Luigi e le seguenti con la risposta e i sentimenti di Giacomo, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998. Secondo il Damiani (All’apparir del vero, vita di Giacomo Leopardi, Mondadori, Milano 1998, p. 344) Luigi si sarebbe sentito male dopo la partita; il malessere, inizialmente, sembrava limitato ad un raffreddore complicato da febbre, ma, successivamente, subentrarono delle gravi complicazioni che portarono alla tisi senza possibilità di cura.  Alberto Meriggi, invece, (Il pallone col bracciale a Treja, Litotipo S. Giuseppe, Macerata, p. 57, nota 11) sostiene che il giovane Leopardi “morì in seguito ad un incidente accadutogli durante una partita di bracciale”.  

[7]  La prima pietra fu posta il 2° ottobre del 1820 ma la costruzione procedette molto lentamente, tanto che poté essere ultimato solo nove anni dopo l’inizio dei lavori (Meriggi, Il pallone…, cit., p. 29.

[8]  Tra gli autori più recenti si ricordano, ad es., Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Renzo Balbo, Giovanni Arpino.

[9]  Il documentato lavoro del Meriggi, cui abbiamo attinto, sottolinea che nel 1921, a Treja, fu organizzato un torneo di bracciale proprio per ricordare il centenario della Canzone leopardiana.

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