5 maggio 2011

Etnografia della via Padova

Ciao a tutti,
vi posto l'articolo come concordato a lezione.
Cercate di isolare quegli elementi/spunti che pensate sia interessante utilizzare ed approfondire etnograficamente attraverso gli strumenti audiovisivi e postateli sotto forma di commento e/o post con la seguenti etichette(tag): "laboratorio antropologia visiva II", " Etnografia della via Padova".
Cercate di svilupparli - a livello immaginativo - visivamente e di postare e/o commentare una bozza pratica di esplorazione del contesto in oggetto.
N.b. le note non sono presenti, vi fornirò una fotocopia dell'articolo nella prox lezione.

Articolo:
Titolo: Etnografia della via Padova



Titolo: Etnografia della via Padova

Camminare è il processo indefinito dell’essere assenti e in cerca di uno spazio proprio. L’erranza che accorpa e moltiplica la città ne fa un’immensa esperienza della privazione di luogo”.
Michel De Certau[1]

Abstract

Con il presente articolo si propone una sintesi di un lavoro di ricerca nella disciplina antropologica, finalizzato alla tesi di laurea, svolto tra il settembre 2001 e il giugno 2002 nella città di Milano in una via urbana, la via Padova. Verranno qui discusse ed analizzate le diverse attribuzioni di significato che la pratica immigratoria genera nel contesto locale, le narrative di contatto e la costruzione ed il mantenimento di spazi  di socializzazione tra cittadini immigrati a partire dal loro inserimento all’interno di una cornice storica di riferimento. L’interesse nella proposta di questo articolo risiede infatti nella possibilità che questo offre di problematizzare la rappresentazione mediatica su scala nazionale degli episodi di violenza e conflittualità sociale che hanno interessato recentemente la via Padova.

Introduzione

La rappresentazione di un sito complesso, qual è quella di una via urbana, richiede un’attenta riflessione e solleva una questione circa la delimitazione del campo di ricerca.
Nelle pratiche di ricerca l’assunzione della strada quale punto di riferimento utile all’analisi ha significato sia prestare una particolare attenzione alla costruzione e al mantenimento di contesti materiali e simbolici tali da rendere possibile la produzione e la riproduzione della località[2], che analizzare la strada in quanto sistema di comunicazione e di circolazione aperto.
Se infatti da un lato la strada offre un’immagine in grado di organizzare lo spazio e il tempo in una forma rappresentabile, dall’altro, in quanto strumento e mezzo di comunicazione, è metafora di attraversamenti e spostamenti difficilmente circoscrivibili.
La strada è ciò che connette e, al tempo stesso, disgiunge un luogo da un altro. E’ un sito di partenze e di arrivi; una traccia visibile del nostro tendere a un altrove. La strada concentra e al tempo stesso disperde. I segni presenti lungo il suo percorso connettono spazi, tempi e luoghi.  Questi segni vengono a loro volta tradotti in geografie e immaginari di mobilità geografica, economica e sociale.
I monumenti, gli avvenimenti storici locali e le biografie dei tragitti ne fanno un luogo di memoria. Ma, come rilevava De Certeau, la strada è anche il “nonluogo” dell’erranza.
Risulta qui utile assumere la distinzione operata da De Certeau tra spazio e luogo per la rilevanza che questa assume, in termini esplicativi, nell’analisi delle pratiche quotidiane.
Con la nozione di luogo l’autore definisce un ordine di distribuzione degli elementi entro rapporti di coesistenza; una configurazione istantanea di posizioni che implica un’indicazione di stabilità.
Con la nozione di spazio, all’opposto, De Certeau definisce “l’effetto prodotto dalle operazioni (individuali e collettive) che lo orientano, lo circostanziano, lo temporalizzano e lo fanno funzionare come unità polivalente di programmi conflittuali o di prossimità contrattuali.” [ pag.176][3]
L’interesse principale che qui riveste tale distinzione sulla nozione di spazio e su quella di luogo, risiede nella possibilità che questa offre di un’interpretazione significativa delle narrazioni da me raccolte sulla e nella via Padova.
De Certeau interpreta infatti tali narrazioni nei termini di azioni narrative – pratiche – che organizzano e attraversano dei luoghi: i racconti, da questa prospettiva sono fattori fondamentali di spazio.
Questi racconti eseguono un lavoro di trasformazione degli spazi in luoghi, e viceversa, organizzandone i rapporti variabili che li caratterizzano e che vanno “ dall’instaurazione di un ordine immobile e quasi mineralogico (“luogo”), fino alla successione accelerata delle azioni moltiplicatrici di spazi (spazio)”. [Pag. 177][4]
Abbiamo quindi da un lato dei luoghi ordinati da differenti istanze, quali possono essere quelle delle istituzioni (per esempio la divisioni amministrativa locale) e, dall’altro, degli spazi attraversati e significati dalle azioni effettuate dai soggetti (per esempio camminare, fare conversazione in attesa dell’autobus, entrare in un negozio per guardare la merce esposta tra gli scaffali, etc.).
L’analisi delle descrizioni orali del campo di ricerca, la via Padova, ha rivelato due operazioni differenti che possono essere compiute nello e sullo spazio considerato. Queste operazioni compiute nei luoghi e negli spazi corrispondono alla distinzione definita da De Certeau tra due tipologie di descrizioni orali, la mappa e il percorso, i cui indicatori sono rispettivamente il vedere e il fare (ed i loro rapporti).
Nelle descrizioni da me raccolte questa distinzione si presenta piuttosto come “un’oscillazione tra i termini di un’alternativa: o vedere (è la conoscenza dell’ordine dei luoghi) o andare (sono azioni spazializzanti). O presenta un quadro (“c’è”) o organizza dei movimenti (“entri, attraversi, svolti…”). [Pag.178][5]
Nei frammenti di storia locale che emergono dai racconti di coloro che vivono e lavorano nella via da lungo tempo, lo spazio è un luogo praticato di memorie di un passato recente che riaffiorano nella narrazione rendendo conto dei profondi cambiamenti che hanno interessato l’ambiente circostante e le forme dell’abitare. In questi racconti sono presenti le tracce di emigrazioni interne, di riferimenti scomparsi che il ricordo attualizza e di una conoscenza che si potrebbe definire multisensoriale del territorio[6].
A partire dall’analisi del contesto storico locale, l’articolo si propone di analizzare e di comprendere le narrative di contatto, tra italiani e cittadini immigrati,  raccolte durante la fase di ricerca.
Si tratterà quindi di collocare le percezioni locali circa la via Padova all’interno della congiuntura storica e politica in cui si è venuta a trovare l’Italia a partire dagli anni ’90 ed ai cambiamenti locali dovuti a processi globali che hanno interessato il territorio.
Un’attenzione specifica sarà infine posta nell’analisi delle forme e delle modalità dell’aggregazione tra cittadini stranieri ed alla produzione dei nuovi vicinati che tali aggregazioni comportano.

1. Contesto storico locale
Ora da dieci anni a questa parte la via sta morendo
Non c’è più niente, è sparito tutto
La via si sta spegnendo[7]

Queste percezioni di perdita, scomparsa, chiusura e annullamento fanno da contrasto all’estrema vitalità ed eterogeneità che caratterizza, da più di un secolo, la zona urbana che la via Padova attraversa fino ai confini est della città.
E’ almeno dalla fine del diciannovesimo secolo che il territorio, composto da una serie di borghi che ancora non facevano parte della città di Milano, è stato interessato da intensi processi di mobilità geografica e sociale da parte di soggetti in cerca di occupazione nel nascente settore industriale.
L’apertura della Breda, della Pirelli e della Falck e, successivamente nel 1917, quella della Magneti Marelli posta al centro di un percorso antico che congiungeva il Borgo di Sesto con quello di Crescenzago, furono uno dei fattori centrali nell’attrazione allora esercitata dal territorio.
Parte delle preesistenti abitazioni rurali furono riutilizzate dalla nuova popolazione mentre in contemporanea iniziarono a sorgere nuove costruzioni che occuparono lentamente gli spazi disponibili con una logica di insediamento che traeva vantaggio dai percorso lineari, quali quello istituito dalla via Padova, più che dai tracciati irregolari che connettevano gli antichi centri.
In quegli anni fiorì una ricca cultura associativa che si espresse attraverso la formazione di cooperative, associazioni, case di mutuo soccorso, circoli e case del popolo. Solo nel 1923 i comuni autonomi che componevano il territorio vennero annessi alla città attraverso un decreto di Mussolini.
Le vicende connesse con l’allargamento della città di Milano sono molto lunghe e complesse[8]. L’annessione definitiva dei Corpi Santi alla città non risale che al 1875[9].
Durante il governo fascista molte realtà di aggregazione vennero chiuse e sostituite dai nuovi gruppi rionali fascisti, uno dei quali venne aperto in Via Padova. La spinta aggregativa non scomparve però del tutto, molte esperienze di aggregazione continuarono ad operare durante la guerra e, nell’immediato dopoguerra, si ricostituirono formalmente.
Prima del secondo conflitto mondiale e durante tutta la guerra il flusso di popolazione proveniente da tutta Italia fu costante.
Ha scritto G.P. Semino in proposito:

“ Nel nostro territorio, non più campagna e non ancora città, dove la mano pubblica interviene con qualche scuola o al massimo con le case e i servizi che avviano l’urbanizzazione di Via Palmanova, regna un laisser faire da frontiera. Non stupisce che più facilmente vi trovino ricetto le ondate immigratorie che dapprima dalle campagne lombarde, poi dal Veneto e dal Mezzogiorno, si riversano in prossimità dei posti di lavoro offerti dall’industria di Milano e Sesto.[10]

La ricostruzione si svolse come impresa collettiva alla quale parteciparono con entusiasmo gli immigrati dal nord e dal sud creando sinergie laddove esistevano distanze e incomprensioni. La contiguità fisica tra le varie popolazione provenienti dalle diverse regioni italiane, all’interno dei centri industriali, agì da collante tra realtà assai diverse contribuendo significativamente a dare forma e sostanza all’idea di Unità nazionale.
Risulta a questo proposito molto significativa la documentazione raccolta, e in parte pubblicata, dal centro culturale situato nella sede storica di una ex sezione di partito, la Mantovani- Padova[11], che  prese vita il 25 Aprile del 1945. Una delle sue pubblicazioni, in particolare, offre un materiale prezioso per la comprensione dei vissuti connessi al periodo bellico, a quello della ricostruzione e agli anni che seguirono[12]. La stessa sezione e il centro culturale che ne prese il posto, hanno rappresentato in quei decenni un punto di riferimento centrale per gli abitanti della zona.
Come ho sopra accennato, la via Padova era situata a poca distanza da Sesto San Giovanni, un contesto industriale dove avevano la loro sede  la Breda, la Falck e la M. Marelli, ma anche vicino all’azienda tranvieri di Via Teodosio e al deposito di Via Leoncavallo.
Queste realtà industriali e di azienda si configuravano come nodi centrali nelle geografie di mobilità geografica, sociale ed economica italiane e definivano la conformazione prevalentemente operaia degli abitanti di quest’area urbana.
Dal dopoguerra fino agli anni 80 si assiste allo sviluppo progressivo di un tessuto urbano estremamente complesso e discontinuo in contemporanea all’apporto di popolazione proveniente da tutta Italia, dal sud Italia in particolare.
La divisione/raggruppamento amministrativo della città è stata modificata nel 1999 con il passaggio dalle 20 alle attuali nove zone. La zona 2, di cui la via Padova fa parte, è stata formata aggregando la precedenti zone dieci, due e tre.
I tracciati irregolari che connettevano gli antichi borghi non sono del tutto scomparsi con la loro integrazione al comune di Milano e con il progressivo sviluppo delle direttrici lineari (via Padova, Viale Monza, Via Palmanova), ma sono sopravvissuti grazie soprattutto alla divisione territoriale delle parrocchie nella diocesi di Milano il cui criterio di orientamento e di individuazione ha origini antiche.
Sebbene ora i confini tra le parrocchie siano conosciuti da pochi, essi hanno rivestito a lungo un’importanza fondamentale della quale si conservano ancora oggi le tracce nei racconti degli abitanti anziani nel territorio.
Quando negli anni ’50 venne stabilito il criterio minimo di una parrocchia ogni 15.000 abitanti sorsero nuove chiese che richiesero una  ridefinizione dei luoghi di culto corrispondenti alle varie parti del territorio. E’ ciò che avvenne, per esempio, con l’edificazione della chiesa del Rendentore alla fine degli anni 50 che coinvolse gli abitanti dei civici dal 3 al 79 della via Padova.
Questa ridefinizione dei centri di culto competenti, unita alla riconfigurazione del territorio istituita dalla crescita e dallo sviluppo dei percorsi  lineari, costituisce una delle ragioni principali della difficoltà, da me riscontrata,  nell’individuazione dei differenti quartieri che corrisponderebbero alla via.
Il nome attribuito dagli abitanti ai quartieri che attraversano lateralmente la via Padova è rimasto, anche per questa ragione, quello precedentemente posseduto dai Comuni autonomi: Turro, Casoretto, Precotto, Crescenzago, etc.

1.1Questa via è lunga 4 Km. E’ una città nella città. Dopo il ponte è tutta un’altra storia
Risulta più semplice comprendere l’importanza assunta da questi elementi se, ai fini dell’analisi, si prova a focalizzare l’attenzione su una parte limitata della via, quella che parte da Piazzale Loreto e arriva fino al ponte della ferrovia all’altezza del civico 90.
Quando la chiesa ha deciso di dividere i fedeli io ho scelto in base alle amicizie che avevo. Mio padre è morto nel 51 e il funerale l’hanno celebrato nella chiesa di Turro. A Turro sono stata battezzata, ho fatto la comunione, la cresima e mi sono sposata. Non me la sentivo di spostarmi.”

Nella percezione degli anziani abitanti locali il ponte rappresenta una discontinuità in termini spaziali, un confine ben delimitato tra due realtà sociali pensate come differenti tra loro.
Mentre gli anziani vissuti nel quartiere di Turro sostenevano l’appartenenza di questa parte della via al loro, quelli del quartiere di Casoretto la sostenevano invece come appartenente a quest’ultimo. Una differenza significativa si riscontrava invece in riferimento agli abitanti dei civici della via Padova stessa che ne sostenevano piuttosto l’autonomia, dalle citate realtà di quartiere, e ne accentuavano il carattere di frammentazione e dispersione.
La parte che dal ponte va fino a Piazzale Loreto non era parte di un quartiere. Io la chiamava la seconda sala d’aspetto dopo la Stazione Centrale. L’ho sempre vista come zona di transito. Al giovedì era il giorno dei traslochi, c’era una ditta molto grande davanti al Piazzale Loreto. Era un quartiere popolare, pieno di operai, c’erano le fabbriche e tante attività. Dopo la costruzione della metropolitana hanno iniziato con le vendite frazionate. Chi poteva comprare comprava. Gli altri dovevano andarsene. Si facevano delle battaglie tremende. I proprietari si mettevano a vendere gli appartamenti in un camper davanti alle case ( …)”.

La testimonianza qui inserita ci consente di individuare un importante elemento di continuità storica in riferimento alla via presa in esame e, in particolare, di connettere in modo significativo le memorie e i racconti sulla mobilità geografica, sociale ed economica nazionale e transnazionale dei suoi abitanti e/o di coloro che vi lavorano.
Se la presenza di cittadini stranieri interessa da qualche anno la via Padova nel suo complesso, la parte della Via che da Piazzale Loreto arriva fino al Ponte è stata la prima ad essere  interessata dall’inserimento di cittadini stranieri e quella in cui lo spazio preesistente ha subito riconfigurazioni più profonde.
Sebbene il processo di emigrazione transnazionale sia un fenomeno recente che interessa la zona in misura significativa solo dall’inizio degli anni ’90, i processi di mobilità geografica, sociale ed economica nazionali interessano l’area da più di un secolo e hanno inciso profondamente nella conformazione di quest’area.
La tensione tra la dimensione dello stare e dell’abitare e la dimensione del muoversi e del circolare caratterizza storicamente quest’area urbana.
Le memorie, i saperi e le tradizioni di mobilità qui rinvenibili ci consentono di considerare le dimensioni del muoversi e del circolare come costitutive e non sussidiare rispetto alle dimensioni dello stare e dell’abitare.
L’assunzione della mobilità quale elemento costitutivo e caratteristico di questa parte di territorio urbano ed è un aspetto fondamentale, tuttavia sistematicamente trascurato, per la comprensione delle conflittualità che periodicamente interessano il luogo.
Un’attenzione mirata e costante a questo elemento potrebbe agire positivamente quale elemento coesivo in termini culturali.

2. La produzione dell’oggetto: stranieri e confini

Il sovrainvestimento di senso che ha interessato la categoria di “straniero” è connesso direttamente alla crisi che ha colpito e colpisce la formazione Stato – Nazionale a livello globale quale istanza legittima dello spazio politico fondato sul principio di territorialità. E’ una categoria la cui densità semantica è pari alle diverse utilizzazioni che ne vengono fatte.
Si potrebbe pensare a tale categoria come ad un prodotto culturale mobile e inafferrabile, in quanto non nasconde nessuna essenza, nessun sé e, nel contempo, come ad una modalità di rappresentazione e di attribuzione di significati che permette di delimitare, di dividere e di suddividere, spostando il limite di ciò che è interno o esterno al sistema (noi/altri).
Bisogna a mio parere distinguere i contenuti manifesti e/o latenti attribuiti a tale oggetto, dalle pratiche che lo producono. In generale si dà per scontato che esista questo oggetto  nella sua unicità e, quindi, dei discorsi che lo affrontano da differenti angolazioni. La condizione  di estraneità è invece costituita, come diceva Foucault in riferimento alla malattia mentale:
Dall’insieme di ciò che è stato detto nel gruppo di tutti gli enunciati che la nominano, la delimitano, la descrivono, la spiegano, ne raccontano lo sviluppo, ne indicano le diverse correlazioni, la giudicano ed, eventualmente le prestano la parola articolando in nome suo dei discorsi che devono passare per suoi.[13]

L’unità non è dato riunendo sotto lo stesso termine (“straniero”) tutti i discorsi che a questo si riferiscono, piuttosto la condizione dell’oggetto è, secondo questo autore, costruita attraverso le pratiche che lo fanno emergere, in quanto oggetto, nominandolo e descrivendolo.
E’ significativo osservare che in genere viene applicata l’operazione inversa. Passando dall’auto evidenza della categoria “Straniero” ai problemi che questa pone, la si fonda quale condizione a partire dalla quale possono essere poste una serie di questioni: linguistiche, pedagogiche, psicologiche, culturali, sociali, economiche e politiche.
Con questo non voglio certo dire che il silenzio sia preferibile alle pratiche, né che gli argomenti trattati nelle scienze sociali siano privi di senso o inutili ma, piuttosto, che l’oggetto non è ciò a partire dal quale si sviluppa il discorso ma ciò che è prodotto da quest’ultimo.
Parlando della formazione degli oggetti Foucault scriveva:
L’oggetto esiste nelle positive condizioni di un complesso ventaglio di rapporti. Queste relazioni si stabiliscono tra istituzioni, processi economici e sociali, forme di comportamento, sistemi di norme, tecniche, tipi di classificazione, modi di caratterizzazione; e non sono presenti nell’oggetto. Non ne definiscono la costituzione interna, ma ciò che gli permette di apparire, di giustapporsi ad altri oggetti, di situarsi in rapporto ad essi, di definire la sua differenza, la sua irriducibilità, ed eventualmente la sua eterogeneità, insomma di collocarsi in un campo di esteriorità.” [pag. 61/62][14]

2.1Da qualche anno a questa parte la zona è cambiata. Ci sono troppi stranieri”.

Nel ripercorrere il materiale raccolto durante i mesi di ricerca la ricorrenza di questo enunciato è tale da richiedere un’attenzione ed una trattazione specifiche. Si tratta infatti di un “ritornello” che circola costantemente per la via producendo spazi di alterità, dei contesti, dei confini e delle solidarietà di categoria. Molti dicevano /dicono di sentirsi minacciati dalla presenza di questi corpi “ estranei ”[15] di cui non si sa nulla ma di cui si continua a parlare come se l’evidenza del visibile, che permea tali parole, avesse bisogno di essere continuamente confermata e detta.
Questi discorsi producono ciò che viene comunemente definita come minaccia dell’invasione, tali pratiche discorsive istituiscono il corpo “ estraneo” quale segno visibile di una minaccia alla propria integrità fisica e umana[16].
Più che il contenuto di tali credenze è interessante l’energia di tali affermazioni, il modo in cui istituiscono un certo tipo di realtà e la confermino attraverso la visione. Come osservava W.I.Thomas,“Se l’uomo definisce la situazione come reale essa sarà reale nelle sue conseguenze”[17].
Le statistiche demografiche della popolazione straniera residente nel territorio milanese mostrano chiaramente come la percezione dei numeri a livello locale subisca delle alterazioni. Le statistiche non risultano efficaci nel ribaltare la percezione di sé in quanto minoranza e riconoscere ad essa un carattere immaginario non ne diminuisce gli effetti discorsivi o meno.
La costruzione della figura del clandestino quale soggetto non tanto privo di permesso di soggiorno, quanto dedito ad attività illecite, risulta utile alla produzione di questa formazione discorsiva.
Basta poco perché, dalla vetrina di un negozio alla fermata dell’autobus o mentre si beve un caffè al bar, i corpi “estranei” diventino significanti di stabilità per il sé in cerca di un oggetto in cui riflettersi. In questo sguardo voyeuristico si legge il desiderio di fissare la differenza in un oggetto visibile e per questo dominabile[18].
Nel materiale di ricerca raccolto le endodefinizioni ricorrenti degli e sugli stranieri ci consentono di isolare una serie di routine discorsive che definiscono la differenza e la fanno emergere. Citerò qui solo le più rilevanti allo scopo di evidenziare le strategie discorsive che istituiscono localmente  un confine tra il “noi” e il “loro”. Lo stereotipo, in quanto forma di conoscenza e di identificazione, è ciò che consente la formazione di queste narrative di contatto il cui effetto generale di ridondanza deriva dalla loro continua ripetizione e circolazione.
K.H.Bhabha parlando dello stereotipo come di una forma di rappresentazione paradossale, scrive:
“ Lo stereotipo non è una semplificazione perché è una modalità falsa di rappresentazione di una realtà data; è una semplificazione perché è una forma fissa, bloccata, di rappresentazione (…)” [pag.110][19]

-       La sporcizia, il disordine. 
-       Il corpo improduttivo: lo straniero deve essere un corpo produttivo, la sua presenza è accettabile solo nella cornice del lavoro. Non deve farsi notare in alcun modo altrimenti diventa causa ed effetto del discorso che lo emargina e ne fa l’esempio di un uso improprio dello spazio.[20] La distinzione tra corpo produttivo e improduttivo autorizza il discorso alla costruzione di indici di gradimento / disistima delle differenti popolazioni presenti sul territorio.[21]
-       Il coprifuoco[22] quale scenario privilegiato di costruzione dell’alterità.
-       Svalutazione della via[23] : svalutazione economica e culturale della via in riferimento alla percezione di un pericolo diffuso e incombente dovuto alla microcriminalità presente a livello locale. Le attività illegali vengono  ricondotte alla presenza di “stranieri.
-       La formazione di nicchie economiche chiuse e settoriali che bloccherebbero l’economia.[24]

L’inserimento dei soggetti in categorie già date e pronte all’uso permette di fissare un confine tra il “noi” e il “loro”, dove il “noi” può rimanere implicito a fronte di un eccesso di alterità attribuito al “loro”. E’ in questa forma, per esempio, che i corpi in attesa dell’autobus – una delle scene più ricorrenti in questa produzione di alterità – dimostrano la verità dell’invasione da parte di un “troppo” che può essere rappresentato da chiunque abbia un colore o una fisionomia del volto differente dalla “nostra”. Ma la categoria omnicomprensiva di “stranieri” perde immediatamente la sua trasparenza nel momento in cui, riconoscendo ai soggetti la possibilità di non essere identici, si sente la necessità di definirli a partire da coordinate di conoscenza che hanno come criterio di definizione una serie di comportamenti disapprovati socialmente e non una qualche differenza ricavabile dal diverso luogo di provenienza dei soggetti. La microcriminalità, o l’illegalità più in generale, la sporcizia e il disordine, non sono attributi culturali di nessun gruppo in particolare.
Il loro utilizzo quali attributi discriminatori tra il sé e gli altri rivela i limiti di un tale discorso. Anche quando l’origine è assunta banalmente come luogo a partire dal quale è possibile dedurre alcune caratteristiche, è evidente che i criteri in base ai quali risulta possibile attivare una discriminazione positiva sono interni al nostro sistema e non hanno nulla a che vedere con l’origine dei soggetti.
Se alcuni di loro possono essere definiti come buoni produttori e consumatori allora sembra rendersi necessario specificare la loro distanza rispetto a tutti coloro che non fanno parte di questo insieme. Ma se in prima analisi i criteri in base ai quali vengono prodotti i summenzionati giudizi positivi sembrano essere quelli del lavoro e della capacità di acquisto, ad un esame più attento emerge spesso che l’invisibilità sociale e la possibilità di una retribuzione più bassa siano le ragioni che consentono di comprendere le preferenze accordate.
Il valore del denaro non è uguale ovunque, a parità di stipendio la capacità di acquisto varia in riferimento ai valori di cambio delle differenti monete. E’ evidente come questo possa incidere in misura variabile sulle scelte che riguardano il lavoro, in particolare sulle scelte delle retribuzioni dei lavoratori senza contratto. Quando si parla di lavori umili che gli italiani non vogliono più fare, spesso ci si riferisce non solo a specifiche occupazioni ma soprattutto a certi tipologie di retribuzione in rapporto all’orario di lavoro.
Risulta infatti fondamentale sottolineare l’importanza dei fattori economici e la loro incidenza sulle definizioni e sui giudizi di valore che vengono espressi.
Come cercherò di esporre nel prossimo paragrafo, fattori di tipo economico sono entrati in campo ed hanno interagito con altre variabili altrettanto significative nella formazione e nel mantenimento di una specifica solidarietà di categoria: quella dei commercianti italiani.
Questi ultimi hanno avuto una posizione di primo piano nella produzione a livello locale della categoria “stranieri”e nella percezione di sé in quanto minoranza a rischio di “estinzione”. Cercherò di dimostrare come tale rappresentazione, basata in primo luogo sulla contrapposizione sé/altro, è fuorviante e oscura e pone in secondo piano processi globali effettivamente operanti.

2.2 Una mappa di lettura
Se partendo da piazzale Loreto si inizia a camminare lungo la via Padova una prima osservazione sarebbe senz’altro relativa alla presenza di diversi esercizi commerciali dalla cui insegna e dai prodotti esposti in vetrina si evince che appartengano o siano gestiti da cittadini provenienti da altri paesi. Questa è sicuramente una delle ragioni per cui molti classificano questa strada come multietnica. L’emergenza, a livello locale, di queste attività ha avuto inizio verso la fine degli anni ’90 e si è progressivamente accentuata nel decennio 2000 – 2010: negozi di generi alimentari asiatici e sudamericani, macellerie islamiche, call – centers e internet points, agenzie di invio di denaro all’estero, ristoranti tipici classificati in genere come etnici, parrucchieri cinesi, Kepab e videoteche indiane, centri di massaggi; per citare solo gli esercizi più diffusi.
La progressiva comparsa di queste attività e la corrispondente scomparsa dei precedenti esercizi commerciali e attività artigianali gestite da cittadini italiani è stata una questione molto dibattuta dai proprietari di esercizi commerciali e dagli abitanti della zona.
Sono qui dall’88, sono passati 13 anni. C’erano tanti negozi e tante attività, adesso stanno chiudendo tutti. Man mano che chiudono i negozi italiani aprono gli stranieri e danneggiano gli italiani. Se uno abita qui e vuole fare una passeggiata non la fa. Quando io e il macellaio chiudiamo la zona sarà in mano agli stranieri, è un mondo che sta scomparendo. Quando finiremo noi finirà tutto”.

Dal punto di vista di un commerciante in possesso di un piccolo esercizio di prodotti alimentari non è una questione priva di fondamento o inutile.
Come lo stesso ebbe modo di rilevare nel corso dell’intervista, il settore del commercio al dettaglio degli alimenti freschi o confezionati rischia di scomparire sommerso dai grandi centri commerciali che praticano una politica dei prezzi altamente concorrenziale che il piccolo commerciante non è in grado di fronteggiare.
 I supermercati, il ruolo della donna, il cambiamento dei gusti alimentari e dei tempi dedicati alla preparazione dei cibi, sono tutti fattori che hanno inciso profondamente sul consumo e sulle scelte di acquisto dei soggetti.
Noi siamo gli stoppa buchi dei milanesi” è una felice espressione utilizzata da un commerciante che lavorava sulla via per significare tali processi.
La connessione tra questi processi globali e quello della migrazione transnazionale è minima, ma mentre la visibilità dei primi è deduttiva, la presenza degli stranieri e la corrispondente emergenza di negozi che rispondono ai bisogni e alle aspettative è immediata.
Quando ho comprato 13 anni fa era una buona zona commerciale, ora è diventata una via un po’ bislacca. Commercialmente la via è scesa di molto. Ci sono troppi stranieri. I musulmani aprono le loro macellerie e qua sono rimasto solo io. Loro vendono un po’ di tutto, come un bazar. Non hanno la stessa carne. Loro non mangiano come noi e macellano la carne in modo diverso.”

Il rischio di “scomparire” è motivato da fattori effettivamente operanti.
La sostituzione di una mappa di lettura locale alla moltitudine delle storie particolari che vivono, attraversano e sostano nello spazio equivale all’imposizione di un ordine in cui la visione sostituisce il dialogo o comunque lo rende superfluo.
Il tempo presente che caratterizza gli enunciati qui presentati contribuisce alla fissazione dell’oggetto impedendone lo sviluppo e la trasformazione. Il sapere organizzato da queste narrative di contatto autorizza il potere di definire l’altro e di assegnare a questo una posizione marginale all’interno della struttura delle relazioni sociali.
Prendendo in esame le modalità attraverso le quali questi racconti orali circolano a livello locale tra la categoria presa in esame, è possibile rilevarne i luoghi elettivi di produzione, di trasmissione e di riproduzione. I bar disseminati lungo il percorso sono, a questo proposito, luoghi privilegiati in cui ne avviene la socializzazione.
Questi possono essere concettualizzati quali nodi che collegano tra loro una serie di singoli punti vendita e che costituiscono il supporto fisico e materiale alle reti di relazioni che sostengono la formazione e il mantenimento della solidarietà di categoria qui analizzata. Trattandosi di soggetti che abitano lo stesso spazio/ tempo le relazioni e lo scambio dei significati avvengono attraverso interazioni faccia – a – faccia[25].
Il livello di convergenza e congruenza dei significati qui analizzati è molto alto in quanto coloro che partecipano alla rete condividono sia la professione che lo spazio locale. Giorno dopo giorno, incontrandosi, i commercianti danno forma al loro vissuto spaziale sottoforma di racconto. Quest’ultimo, in quanto prodotto collettivo, organizza l’esperienza costituendo una prospettiva specifica a partire dalla quale tale versione della realtà circostante può agire come paradigma personale di azione. Da questa prospettiva il racconto (i contenuti e le forme degli scambi comunicativi ) crea un campo per l’azione e la circolazione dei significati che lo producono e che, a loro volta, il racconto produce. Ecco che aprire il discorso con il “Troppo” ( “Ci sono troppi stranieri”), chiarisce immediatamente la prospettiva a partire dalla quale si partecipa all’interazione: il “ Noi” come minoranza invasa e minacciata.
Qua è un po’ come una famiglia allargata tra i commercianti che ci sono in zona. I commercianti stranieri non si sono inseriti tranne in qualche caso raro.
Quest’espressione (famiglia allargata) utilizzata da uno degli intervistati per rendere conto del tipo di solidarietà esistente tra i commercianti della via, è sintomatica della prospettiva collettiva che, con energia, viene proposta come condizione di ingresso nel gruppo. Il mancato inserimento dei commercianti stranieri è, in questa luce, comprensibile.
Nel prendere in considerazione i materiali di intervista raccolti tra i le attività commerciali gestite da cittadini stranieri che possiedono attività in loco, è interessante osservare come i racconti dello spazio non si discostino significativamente dal canovaccio narrativo fino a qui analizzato.
La contrapposizione sé/altro opera con forza laddove i soggetti stabilitisi in Italia a prezzo di grandi investimenti emotivi ed economici temono di essere confusi con la massa indistinta dei nuovi arrivati. Si tratta di un fenomeno documentato nella letteratura che ha per oggetto il fenomeno migratorio:
Gli individui o i gruppi assimilati si dimostrano sempre suscettibili di vedersi contestare la totale appartenenza fino a che l’opera collettiva dell’oblio non sia intervenuta a loro favore e di coloro che continuano a vederli come “assimilati”. Una delle ragioni delle ostilità degli assimilati rispetto ai nuovi arrivati è rintracciabile nel fatto che la loro presenza, riattivando la distinzione stranieri/nativi ricorda, o rischia di ricordare, al gruppo di accoglienza di non essere neanche essi dei nativi”. [ pag.132][26]

Nel suo studio sull’etnicità e sulle opportunità nell’America del nord urbana U.Hannerz[27], analizzando le questioni della solidarietà e della stratificazione sociale, sottolinea come la posizione occupata nella struttura delle opportunità e le norme di  comportamento associate alla mobilità sociale possano incidere sulla solidarietà manifestata verso il gruppo sociale più ampio. Lo status sociale raggiunto può, da questa prospettiva, spingere l’individuo a ritenere tale solidarietà se non irrilevante comunque contraria ai propri interessi e, di conseguenza, ad accentuare la differenza tra sé e gli strati sociali più bassi fatti oggetto di esodefinizioni denigratorie e stigmatizzanti.
 A circa dieci anni di distanza dalle osservazioni e dalle analisi qui presentate la maggior parte dei commercianti italiani ha venduto o affittato le proprie attività commerciali a cittadini stranieri.
Gli abitanti che possedevano risorse economiche sufficienti si sono spostati verso altre aree urbane che godono di un maggiore prestigio sociale affittando e/o vendendo gli appartamenti ai cittadini immigrati. Gli italiani privi di risorse economiche e sociali non hanno avuto la possibilità di muoversi verso altre aree urbane e la loro percezione di immobilità è un fatto reale.
Data la vicinanza con il centro e la connessione agevole dei mezzi di trasporto con il resto della città, questa zona rappresenta storicamente, come abbiamo visto, una via di accesso alla mobilità economica e sociale nel territorio milanese.
Si potrebbe definirla quale zona di transito se questa definizione non oscurasse le relazioni sociali di vicinato che, in particolare intorno agli antichi quartieri, si mantengono e si riproducono nel tempo e i nuovi vicinati che, intorno alle attività economiche ed associative degli immigrati, sono andate costituendosi negli anni.
A seguito dei recenti episodi di violenza verificatesi dopo l’uccisione di un giovane marocchino, le associazioni culturali che operano da anni sul territorio, e che per questa ragione rappresentano un positivo elemento di continuità, hanno promosso nel maggio di quest’anno un’iniziativa significativamente intitolata “ Via Padova è meglio di Milano”.
L’iniziativa dimostra inequivocabilmente la presenza di un trait d’union tra il vecchio e il nuovo sul quale varrebbe la pena indagare.
Fino a che la storicità di quest’area urbana viene costantemente costruita e rappresentata mediaticamente attraverso gli episodi di violenza, non certo assenti ma senz’altro oggetto di proiezioni e amplificazioni indebite, non ci sarà da stupirsi se importanti esempi e forme di convivenza e solidarietà sociale non costituiranno argomento di discussione e analisi sociale.

2.3 Criminalità e instabilità

Durante il 1999 Milano è stata protagonista di una grossa mobilitazione di massa che ha coinvolto i media, i rappresentanti politici, le associazioni di categoria (prima tra tutte quella dei commercianti), i capi religiosi e l’opinione pubblica intorno alla questione della sicurezza urbana. Coloro che erano presenti in zona con attività commerciali sia prima che durante questo periodo si riferivano spesso a questo per dare conferma alle loro versioni narrative della situazione locale.
Ho aperto nell’87, avevo già un’attività del genere e ho pensato che c’era più passaggio. Siamo a trecento metri dal Corso Buenos Aires ma sembra che siamo a 10 Km. Chiudono i negozi italiani e aprono quelli stranieri. C’è un pezzo in cui ci sono solo cinesi ed egiziani e la gente non passa, pensa a quello che è successo al tabaccaio e al gioielliere. La gente ha paura e perde l’abitudine di passeggiare.”

La formazione discorsiva precedentemente analizzata riprende alcuni dei motivi dominanti di questa mobilitazione, in particolare la richiesta di maggiore controllo e tutela da parte delle forze dell’ordine e l’indebita associazione tra stranieri, clandestini e criminali che ha prodotto un’immagine dell’immigrazione come problema sociale e fonte di disordine e di degrado ambientale.
All’inizio del gennaio 1999 i media iniziarono a dare risalto ad alcuni omicidi e a diversi crimini minori avvenuti in città. La circolarità allora istituitasi tra invasione, richiesta di protezione e controllo del territorio fu il risultato di questa campagna mediatica e dei contrastanti interessi in gioco. Una sorta di causa comune che alla base si nutriva, come si nutre tuttora, di una sfiducia diffusa nei confronti dello Stato e del governo.
Non a caso il controllo del territorio fu il collante che tenne unite opinioni per altro divergenti.
Il luogo in cui si abita e/o si lavora esce dal frettoloso anonimato che caratterizza molte delle relazioni interpersonali nell’ambiente urbano per diventare risorsa identitaria. Questi vicinati sono nella maggior parte dei casi lo scenario costruito attraverso le solidarietà reattive alla paura e alla minaccia poste in risalto da un’informazione mediatica sommaria.
Alcune delle tragedie avvenute durante il Gennaio 1999 interessarono dei commercianti locali. Mi riferisco all’uccisione senza motivo apparente di un edicolante in Piazza Esquilio, alla rapina e al ferimento di un tabaccaio in via Ponte Seveso ed alla morte a seguito di una rapina a mano armata di un altro tabaccaio in via Derna. Quando nel febbraio dello stesso anno un’altra rapina a mano armata provocò la morte del gioielliere Bartocci in via Padova, quest’ultima divenne il simbolo indiscusso del disordine e del degrado ambientale.
I commercianti sono stati una forza molto attiva nella protesta spontanea sorta in clima di emergenza. L’attenzione che questi sono riusciti a catalizzare intorno alla questione definita con il termine “microcriminalità” ha ampliato la percezione di paura e pericolo e contemporaneamente la riserva di notizie dalle quali attingere per la creazione dei servizi giornalistici e televisivi che hanno contribuito alla costruzione di uno spazio di rappresentazione allarmista.
In questo panorama immaginario costruito ad arte la periferia urbana emerge come lo scenario privilegiato della conflittualità sociale.
E’ infatti soprattutto dalla periferia, dai margini della città, che emerge sulla scena il cittadino/commerciante in quanto attore pubblico riconosciuto. Un’analisi attenta degli articoli di giornale e dei servizi televisivi lo conferma e lo specifica.
Sebbene non sia qui possibile soffermarsi su questo aspetto, risulta comunque fondamentale accennarvi per l’importanza che riveste nella periodica riproduzione di una certa “cosmologia sociale” e per il trattamento di cui è stato oggetto, e continua ad esserlo,  il contesto qui considerato nella rappresentazione mediatica[28].
Risulta infatti fondamentale inserire le narrative di contatto precedentemente analizzate nella congiuntura storica e politica in cui si è venuta a trovare l’Italia a partire dagli anni ’90.
Come ha osservato Dal Lago[29] la strategia della legalità a tutti costi gode di un certo consenso internazionale. In Italia il crollo del sistema dei partiti, che aveva garantito l’equilibrio costituzionale dal dopoguerra agli anni ’90, ha aperto una fase di ricerca di un nuovo ordine repubblicano che non si è ancora conclusa. Non a caso, come ha osservato Schiavone[30], la liquidazione del vecchio gruppo dirigente ha preso la forma di una decapitazione giudiziaria condotta nel nome di una riscossa e di un riarmo morali.
La creazione di minacce è divenuta una strategia ricorrente per creare coesione sociale laddove i sistemi di appartenenza ed i riferimenti collettivi sono in crisi.
Le scelte sia individuali che collettive sono sempre più condizionate da fattori che il proprio bagaglio di conoscenze e di esperienze non sono spesso in grado di comprendere. Si colgono frammenti di mondo ma è sempre più difficile organizzare l’informazione in un’unità dotate di senso. Come ha sostenuto M. Augè, dare un senso al presente è una necessità emergente dovuta alla riconfigurazione su scala globale di cui siamo localmente protagonisti.
Ciò che è nuovo non consiste nel fatto che il mondo abbia poco senso, meno senso o non ne abbia affatto. Il punto è che noi proviamo esplicitamente e intensamente il bisogno di dargliene uno: di dare senso al mondo (…). Questo bisogno di dare un senso al presente, se non al passato, costituisce il riscatto di questa sovrabbondanza di avvenimenti, corrispondente a una situazione che potremmo definire di “surmodernità” per rendere conto della sua modalità essenziale: l’eccesso.” [pag.][31]


Le trasformazioni che investono le modalità del pensare e dell’abitare nello spazio e nel tempo non possono non avere effetti a livello individuale e collettivo, in particolare sui sistemi di rappresentazione attraverso i quali prendono forma le categorie di identità e di alterità collettive.
Se il bisogno di dare un senso al presente è, per riprendere le parole di Augè, una necessità impellente e positiva del nostro presente, il suo rovescio in termini psicologici sembra essere l’ansia. Minacce e paure di ogni sorta segnano il presente come se il consenso, venuto meno a livello ideologico, si fondasse su un modello gestionale che fa della minaccia la sua principale istanza di legittimazione. Uno dei ruoli della “ minaccia” è infatti quello di rinforzare la coesione di gruppo. Una volta materializzata questa acquisisce una sua realtà fisica, diventa informazione e in questa veste circola acquisendo credibilità. Nella maggior parte dei casi non si tratta di verificare l’informazione quanto piuttosto di credere ad una certa interpretazione dei fatti, ad una certa costruzione degli stessi. I “ fatti” di per sé non hanno significato, ma siamo noi ad attribuirglielo. La forza di una certa narrazione deriva dall’effetto strutturante che questa esercita sulle nostre percezioni. Il mantenimento di un clima d’insicurezza risponde inoltre agli interessi congiunturali in materia di politica elettorale.
Analizzando e commentando il canovaccio narrativo che circola tra i commercianti e tra gli abitanti italiani in loco ho cercato di porre in primo piano come, attraverso la sua produzione e la sua riproduzione, fosse possibile al gruppo comunicare il significato da attribuire alla visibilità del “corpo estraneo”.
Il tentativo di stabilizzare una certa versione della realtà sociale e di giungere a questa attraverso un processo di scambio e d’interazione collettiva rivela non solo ciò che bisogna pensare per appartenere a quel gruppo specifico ma soprattutto che la simbologia di tale discorso è indissociabile dalla storia del gruppo all’interno del quale tale immaginario circola. La composizione sociale del gruppo è qui rilevante quanto lo è il contrassegno territoriale.[32]
La presenza di cittadini stranieri e la costruzione del clandestino quale soggetto criminale agiscono come superfici di proiezione per la frustrazione e il risentimento accumulati dai commercianti nel constatare le modificazioni che investono il settore.
Il termine “invasione” rivela in questo caso un profondo senso di disagio e d’insicurezza nei confronti dei cambiamenti che interessano l’ambiente familiare e la società nel suo complesso. La sensazione di “non sentirsi in nessun luogo a casa propria[33] corrisponde alle difficoltà effettive incontrate da molti abitanti della zona, in particolare gli anziani, nel dare un senso e un valore positivo alle discontinuità linguistiche, culturali e religiose che riconfigurano lo spazio sostituendo e/o modificando i riferimenti materiali, valoriali e simbolici che fanno di questo uno spazio vissuto.
Se osserviamo da vicino la via Padova è facile constatare la ricchezza e l’eterogeneità dei punti di riferimento locali, soprattutto per quanto concerne la presenza dei nuovi vicinati che si sono formati a seguito della presenza delle diverse attività commerciali gestite da cittadini stranieri.
Uno sguardo e una breve analisi di questi nodi nevralgici disseminati lungo la via costituirà l’argomento del prossimo paragrafo.

3. Zone di contatto


Analizzando le biografie di migrazione raccolte durante il percorso di ricerca ritengo che la precarietà sia uno degli elementi che maggiormente accomuna il vissuto dei cittadini stranieri presenti nella via. La precarietà, soprattutto rispetto all’alloggio e all’occupazione, richiede loro a una mobilità estrema intesa come bisogno/necessità di spostarsi continuamente nel e sul territorio per garantirsi l’accesso, anche in termini relazionali, alle risorse disponibili nel territorio milanese.  Le difficoltà da loro incontrare spesso si equivalgono sia perché esiste una regolamentazione dei flussi che incide in misura variabile sulla biografia di ognuno, sia perché esistono delle necessità primarie che vanno soddisfatte, mi riferisco in particolare all’alloggio, al lavoro e agli affetti.
Ultimamente il termine “precarietà” è utilizzato comunemente per definire le condizioni  contrattuali dei lavoratori  sorte in seguito a ciò che Harvey ha utilmente definito nei termini di regime dell’ accumulazione flessibile[34].
Si tratta di un fenomeno in espansione che riguarda tutti i cittadini, sia autoctoni sia stranieri, ma è comunque innegabile che la vita di questi ultimi sia segnata, più di altre, dall’esperienza della discontinuità e dalla dislocazione.
Secondo l’antropologo M. Augè, lo spazio è vissuto quando si traduce nella pratica di un luogo al quale si assegna significato e valore, quando un certo numero di soggetti si riconoscono e si definiscono attraverso di esso e sono in grado di leggervi la relazione che li unisce e quando la memoria, in quanto costruzione collettiva del gruppo, produce una storia che si traduce nel sentimento di appartenenza dei membri al gruppo[35].
Se assumiamo che il luogo, così inteso, assolva necessità umane imprescindibili, riveste un’importanza fondamentale l’analisi delle forme di scambio e di interazione che le minoranze sono in grado di organizzare nel quadro di una crescente disgiuntura tra territorio, soggettività e movimenti sociali collettivi.
Se il valore e il significato attribuiti dal soggetto al domicilio e alla tipologia di lavoro (si tratta il più delle volte di occupazioni poco gratificanti e faticose ) possiedono un carattere che si potrebbe definire prettamente strumentale, è spesso il ritorno a casa a costituirsi come punto di riferimento centrale capace di connettere tra loro le diverse temporalità( passato, presente e futuro) di cui è composta l’esperienza di emigrazione.
Nelle storie di vita raccolte la casa e la famiglia sono presentate spesso come il desiderio che ha motivato la partenza dal proprio paese di origine: il racconto si muove circolarmente intorno a questo tema centrale della costruzione della casa configurandola come un luogo il cui valore e significato non è riducibile alla presenza materiale della stessa.
Il riferimento all’altrove permette di trascendere le difficoltà pratiche e concrete della realtà immediata e di dare a queste un senso e un significato condivisibili con altri e un riconoscimento del loro valore sul piano sociale.
La trasformazione dello spazio pubblico in luogo d’incontro è spesso vissuta come atto di forza esercitato dai nuovi abitanti nei confronti dell’ambiente e dei vicinati preesistenti.
Le minoranze che danno forma e contenuto a specifici spazi e luoghi creano vicinati entro cui si realizza in misura variabile la produzione di soggetti locali. Ma la localizzazione dei soggetti nel contesto di emigrazione, che caratterizza la presenza di questi nuovi vicinati, non ha nulla di semplice.
Analizzando alcuni dei contesti prodottisi tra la nuova popolazione urbana, in particolare quella costituita dai cittadini peruviani, ciò che mi pare significativo segnalare è la relazione specifica che si viene a costituire tra il proprio essere qui e il paese d’origine. Se il riferimento all’altrove (reale ed immaginario) è il collante che tiene insieme questi siti di interpretazione multiformi, è altresì importante segnalare che il valore e il significato che rivestono nella biografia individuale dei soggetti in emigrazione è indissociabile dalla temporaneità attribuita al proprio essere qua. Poco importa se durante il percorso il ritorno non si realizza nei tempi stabiliti alla partenza. Istituendo l’altrove (casa, famiglia, affetti) quale punto di riferimento i soggetti cercano, attraverso le relazioni con i propri concittadini, di mantenere questa continuità.  Si tratta di una questione centrale per la comprensione delle modalità attraverso le quali la località viene prodotta e riprodotta nel quadro di una crescente deterritorializzazione. In un testo recente Appadurai parlando della località da lui intesa quale struttura di sentimento, fa notare come questa sia sempre e comunque una conquista sociale in pericolo in quanto intrinsecamente fragile.[36]
L’autore si sofferma sul simbolismo spaziale dei riti di passaggio per rilevare come questi possano essere interpretati “quali tecniche di produzione di soggetti locali, attori sociali che imparano ad appartenere in modo adeguato ad una comunità situata di parenti,vicini, amici e nemici.”[pag.233][37]
M. Augè, parlando del luogo antropologico, osserva come i termini di questo discorso siano spesso spaziali.
Le coordinate spazio temporali, quali dimensioni costitutive dell’identità individuale e collettiva, offrono un’immagine di permanenza e di stabilità ad individui e gruppi e contribuiscono al mantenimento della coesione interna e della continuità temporale[38]. Il linguaggio dell’identità quando la continuità temporale è minacciata, si spazializza[39].
Se prendiamo in esame i luoghi d’incontro e scambio presenti nella via Padova possiamo utilmente applicarvi gli spunti teorici e concettuali qui brevemente esposti.
La produzione e riproduzione di un sentimento di appartenenza è possibile attraverso la condivisione di questi spazi nei quali, attraverso la concretezza delle pratiche quotidiane (linguaggi e gesti), i soggetti vivono l’esperienza del ritorno nell’immediatezza del presente. 
La via Padova è disseminata di questi centri di incontro e di aggregazione periodica. Tali spazi risultano eterogenei  rispetto alla loro composizione, alle modalità dell’aggregazione ed ai tempi di quest’ultima. Queste “zone di contatto” rappresentano per i soggetti dei punti stabili al centro di traiettorie discontinue e mutevoli, una possibilità di mantenersi al centro del proprio vissuto attraverso ancoraggi relazionali che garantiscono una continuità altrimenti difficile da mantenere.
Si tratta il più delle volte di sistemi informali di relazioni che si sviluppano e possono coincidere con luoghi identificabili (per esempio l’alimentari peruviano o il bar gestito dai cinesi) senza però essere riducibili a questi. Possono altresì configurare una serie di riferimenti associativi, più o meno formalizzati, in grado di assicurare una socializzazione dello spazio e del tempo attraverso pratiche consapevoli di rappresentazione, esecuzione ed azione (per esempio il centro culturale islamico). Spostandosi e sostando da un luogo all’altro i soggetti seminano vita sociale riconfigurando lo spazio urbano.
A livello locale i raggruppamenti che si formano sul marciapiede, davanti ai bar e ai negozi, sono spesso percepiti dagli abitanti italiani come appropriazioni indebite dello spazio pubblico.  
Il sentimento d’immediatezza e “intimità” sociale che si crea tra gli appartenenti a queste reti di relazioni non è facilmente condivisibile per coloro che non possiedono le coordinate culturali e i codici comunicativi (non solo linguistici) di riconoscimento reciproco. Questo non significa che i gruppi siano impermeabili ma che l’acquisizione di una familiarità – a vari gradi e livelli - è possibile solo attraverso un investimento personale di tempo.
L’effetto di spaesamento che questo può produrre, in particolare per la popolazione anziana residente, è un aspetto poco trattato nella letteratura che ha per oggetto il fenomeno immigratorio ma che ci consente spesso di comprendere le percezioni negative e le corrispondenti definizioni degli spazi e dei soggetti.
Le minoranze che danno forma e contenuto a specifici spazi esperiscono quotidianamente sia la riduzione delle distanze che la difficoltà di fare del tempo un principio di intelligibilità e ad iscrivervi un principio di identità. Le solidarietà linguistiche, culturali, religiose ed economiche che si costituiscono segnalano la presenza di principi non territoriali di appartenenza. La continuità con il passato non è né semplice né lineare, piuttosto implica continui processi di traduzione che, spesso inconsapevolmente, rimettono in discussione l’idea stessa di omogeneità e linearità.
Nella costruzione e nel mantenimento di ancoraggi relazionali i soggetti rimettono in scena il passato ma lo fanno con uno spirito di revisione, a volte di contestazione, legato direttamente al proprio essere qui e all’apertura verso un futuro possibile che tale presenza comporta.
Scrive Bhabha a questo proposito:
“ Teoricamente innovativo, e politicamente essenziale, è il bisogno di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi su quei momenti e processi che si producono negli interstizi, nell’articolarsi delle differenze culturali. Questi spazi inter-medi costituiscono il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come singoli o come gruppo – che danno vita a nuovi segni di identità e a luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell’atto stesso in cui si definisce l’idea di società” [pag.12][40]

Le esperienze e i vissuti di emigrazione esemplificano molto bene l’istanza di mediazione che tali luoghi operano nell’articolazione sociale delle differenze.
Parlando della posizione intermedia di Chamcha, il protagonista del libro di S. Rushdie “I versi satanici”, Bhabha interpreta in questo modo il problema posta dall’autore del testo rispetto alla condizione marginale dei migranti ( postcoloniali):
“Attraversare le frontiere culturali consente di essere liberi dall’essenza del sé ( Lucrezio) oppure, proprio come la cera, la migrazione non muta che la superficie dell’animo, mantenendo intatta l’identità sotto la molteplicità delle forme ( Ovidio)?” [pag.310][41]

Secondo Bhabha l’esperienza del migrante non consente di risolvere quest’ alternativa in quanto entrambe le condizioni (istanze del passato/ bisogni del presente) si ricongiungono in forma ambivalente nella “sopravvivenza” della vita del migrante.
Con l’espressione “zona di contatto”  l’antropologo J. Clifford ha recentemente definito quegli spazi in cui avviene la compresenza spaziale e temporale di soggetti precedentemente separati da distanze storiche e geografiche e le cui traiettorie ora si intersecano[42].
 Le distanze precedenti ai contatti quotidiani che avvengono nella via Padova non sono solo di tipo storico e geografico ma anche sociali, economiche e culturali.
Sulla via Padova s’incrociano quotidianamente le vite di soggetti che molto difficilmente si sarebbero trovate a condividere lo stesso spazio solo pochi decenni fa.
Trascorrere una giornata intera, dall’orario di apertura ( 9.00) a quello di chiusura ( 23.00) presso uno qualsiasi dei negozi, consente di cogliere la forma fluida e irregolare dei flussi culturali globali che l’antropologo Appadurai ha proposto di rappresentare attraverso l’utilizzo del termine “panorama”.  
A livello mediatico la “cultura” attribuita a formazioni sociali e comunità spesso definite attraverso il solo criterio della nazionalità “etnica” (i filippini, i cinesi, i marocchini, etc.) appare come una sostanza immutabile utile per spiegare i comportamenti e le attitudini dei soggetti, non come qualcosa che deve essere compresa, interpretata e spiegata.
Solo un’analisi attenta può contribuire alla comprensione e al riconoscimento sociale delle dinamiche contemporanee in gioco nella riconfigurazione dei contesti locali.


Conclusioni

Ci troviamo spesso ai margini di una globalità ancora tutta da definire e, simultaneamente, al centro di territori urbani interessati da una profonda riconfigurazione locale, dove l’articolazione sociale della differenza, come dimostrano i recenti avvenimenti che hanno interessato Via Padova, dà luogo a conflitti che assumono forme violente.
Come ha osservato Miguel Mellino[43], il confronto tra le affermazioni di molti autori contemporanei sulle identità deboli, a confronto con situazioni ed eventi sociali come quelli verificatisi recentemente in Via Padova, ci invitano a problematizzare certi assunti e certi presupposti teorici sulle dinamiche delle identità culturali. Se la teoria non deve diventare una forma rinnovata d’ideologia, per quanto eticamente auspicabile, è necessario mettersi in relazione con l’esperienza sociale di soggetti concreti. Scrive Mellino:
“(…) credo che solo la ricerca etnografica possa dirci qualcosa di più sui modi in cui i gruppi e i soggetti vivono le proprie realtà, i propri conflitti, le proprie contraddizioni e il rapporto con gli altri. Solo un contatto ravvicinato può rivelarci qualcosa sull’utopia postcoloniale e sul suo quesito fondamentale: quando e come diventa possibile un’identità culturale che non si tramuti in habitus ?” [ pag. 149 ][44].

La via Padova, come reticolo di percorsi o sentieri spesso alternativi tra loro e convergenti in punti strategici di riferimento, è stata per lungo tempo una strada postale che congiungeva Milano a Venezia passando per Bergamo. Era una via che connetteva Milano al mare.
Nel periodo della dominazione austriaca il percorso acquisì un’importanza congiunturale spingendosi fino a Vienna. Lungo l’itinerario si trovavano le poste per il ristoro dei viaggiatori e dei cavalli. Un grande scalo terrestre dove mercanti, messaggeri, artisti e avventurieri si scambiavano notizie e informazioni sullo stato delle strade, sui governi, i pericoli possibili o immaginari e sugli affari.
Dalle stesse strade potevano giungere in città anche gli eserciti nemici ed è per questo che ad ogni strada principale corrispondeva una porta e un muro difensivo che ne segnava il confine. Nasce forse da questa doppia anima del movimento (interno /esterno ) una certa rappresentazione delle periferie considerate da un lato indicatrici di sviluppo urbano e dall’altro quali fonti di pericolo.
Le porte sono scomparse o trasformate in monumenti ma la funzione di confine tra l’interno e l’esterno che queste rappresentavano ha assunto nuove forme.
Le locande e le trattorie sono state quasi del tutto sostituite da altre attività commerciali che ne hanno assunto la funzione di crocevia – di zone di contatto – dando vita ad un traffico culturale senza precedenti per ciò che attiene alla velocità e all’intensità dello stesso.
Dal 2000 - 2001 alla fine della via Padova, presso Cascina Gobba, che da antico luogo di posta, osteria e locanda insieme, è divenuta l’ultima stazione milanese della linea metropolitana verde, una nuova tipologia di viaggiatori sosta ai margini della città. Si tratta degli immigrati marocchini e dell’est europeo che a bordo di pullman climatizzati partono da Milano e vi giungono.

Scritto da Sara Bramani, Università Milano – Bicocca
sara.bramani@unimib.it
Bibliografia

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W.I.Thomas, On social organization and social personality, a cura di, J. Janowitz, The University of Chicago Press, Chicago, 1966.



[1] M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni lavoro, Roma, 2001.
[2] Il termine “località” è qui utilizzato nell’accezione attribuitagli dall’autore A. Appadurai. Secondo questo autore tale  nozione definisce una forma sociale effettivamente esistente in cui la “località” , in quanto qualità fenomenologica costituita da una serie di legami tra la sensazione di immediatezza sociale, le tecnologie dell’interattività e la relatività dei contesti, si realizza in maniera variabile. A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001.
[3]M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni lavoro, Roma, 2001.
[4] Ibid
[5] Ibid
[6]  Qui c’era il mattatoio con annesso il mattatoio dei vitelli, nel retro ammazzavano e squartavano le bestie. Io ho vissuto qui sempre. Passavo sempre lì davanti perché dalla drogheria saliva un misto di odori, aromi, profumi mischiati. C’erano i sacchi delle spezie sulla strada che mandavano tutti gli aromi dei prodotti. Quando camminavo lì davanti tornavo indietro a quando ero bambina, erano i profumi della mia gioventù. Ora non si sente più niente. E’ tutto chiuso e sigillato, non ci sono più quegli odori.” [6]
[7] Testimonianze raccolte tra gli abitanti locali. Le parti di interviste, colloqui ed osservazioni che verranno inseriti ai fini dell’analisi qui presentata verranno individuati con il corsivo. I nomi non verranno specificati per esplicita richiesta dei soggetti interessati

[8] De Finetti, Milano: costruzione di una città, Etas Kompass, Milano,1969.  E’ interessante osservare come l’autore definisca il processo di annessione dei borghi ( Corpi Santi ) nei termini di un progressivo controllo e dominio esercitato dall’amministrazione cittadina sui territori limitrofi.
[9] Secondo C. Cantù il circondario esterno era considerato come facente parte della città ma l’accordo su questo tema non è unanime, come non lo è sul significato da attribuire al termine “Corpi Santi”. Secondo alcuni il termine deriva dalla presenza dei cimiteri nei quali venivano collocate le spoglie dei santi, per altri dalle processioni che venivano svolte intorno alle mura cittadine e, per altri ancora, il termine sarebbe la traduzione di Lomoreum che significa “lo spazio dopo il muro”.
[10] G. P. Semino, Zona 10: trame della costruzione metropolitana, 1986.
[11] La sezione fu dedicata a Mantovani Venerino, uno dei cinque partigiani che vennero fucilati il 2 Febbraio del 1945 nel campo del Giuriati a Milano.
[11] Via Padova 61, Scoppia la pace, interviste di Fiorella Cosmi e Matilde Lucchini.



[13] M. Foucault, L’archeologia del sapere, BUR, Milano, 1999.
[14] Ibid
[15] Elenco qui di seguito alcune frasi estratte dalle interviste somministrate ad alcuni  abitanti della zona che esemplificano chiaramente questa percezione:“Fino a qualche anno fa eravamo tra noi. Ora non è più così, basta guardarsi in giro per rendersi conto che siamo diventati una minoranza”. “ Noi ci sentiamo un po’ come mosche bianche”. Gli stranieri sono in continuo aumento, tra un po’ gli italiani saranno asserragliati nel centro.” Siamo noi che ci sentiamo all’estero”.
[16]Andavo alla scuola serale e sull’autobus mi sono sentita estranea nella mia città, io lo vivo come un problema. Noi stiamo diventano una minoranza. Quando ci sono incroci noi perdiamo qualcosa di nostro con il tempo. Io sono convinta che ci sarà un mutamento fisiologico. Mi ricordo negli anni ’70 quando giravo con un mio amico giapponese e si giravano tutti a guardarlo perché era una rarità. Ora non se ne accorgerebbe nessuno della sua presenza. “
[17] W.I.Thomas, On social organization and social personality, a cura di, J. Janowitz, The University of Chicago Press, Chicago, 1966.
[18]Parlano nella loro lingua, ti guardano e tu non sai cosa stanno dicendosi e ti viene il pensiero che ti stanno dicendo qualcosa alle spalle”.
[19] K.H.Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma, 2001.
[20]Auguriamoci solo che non arrivino i cileni. Quella è un’altra razza che beve e basta, come i peruviani. Perché se arrivano quelli lì siamo al completo. Ce ne sono già troppi. Adesso ci sono i cinesi, i negri, i marocchini e i peruviani. E’ proprio una brutta razza quella degli immigrati che non lavorano perché non hanno voglia di lavorare. Questi li toglierei tutti. Avevamo anche musulmani. Ne avevamo tanti anche di quelli ma adesso la moschea se ne è andata e loro anche.”
[21]Tu prendi i filippini e gli egiziani, sono gente che lavora. I cinesi sono una razza a parte, è un’ottima razza, si dà da fare. Sono laboriosi, gente che paga sempre nei tempi ”.
[22]Se uno vuole fare una passeggiata qui non la fa. Diciamo che dal ponte a Piazzale Loreto non c’è più vita. Dalle sette di sera in poi c’è il coprifuoco.”
[23]La via ha perso il 50% del suo valore. Gli italiani vendono le case e le comprano albanesi, negri, cinese. Loro si mettono in dieci ha comprare le case e vanno dentro in dieci.”
[24]Una zona di affitti bassi è una zona funzionale, povera dal punto di vista culturale. Sta diventando una strada multietnica. Loro aprono tanti negozi e spendono tra di loro, è logico che devono trovare una forma di sopravvivenza. Si sono creati dei clan”.
[25] Vedi, Ulf Hannerz, La complessità culturale, Il Mulino, Bologna, 1998.
[26] Poutignate, Streiff, Fenart, Teorie dell’etnicità, Mursia, Milano, 2000.
[27] Ulf Hannerz, Ethnicity and opportunity in Urban America, a cura di, A. Cohen, Urban ethnicity, Tavistock Publication, London, 1974.
[28] Inserisco a titolo esemplificativo alcuni titoli di giornale del gennaio e febbraio ’99 raccolti dal quotidiano “ Il corriere della sera” e “ Il giornale”: “Terra di frontiera”,  “Terra di nessuno”, “ Bronx nostrano” , “Ancora sangue nella zona di Via Padova”, “ Via Padova, i delinquenti non cedono”, “Altra sparatoria a due passi da Via Padova”, “ Come il bronx. Anzi, no via Padova basta e avanza”, “ Esplode la rabbia in via Padova: ci promettono sicurezza e continuiamo a morire”.
[29] Dal Lago, Non – Persone, Feltrinelli, Milano, 1999.
[30] Ibid
[31] M. Augè, Nonluoghi, Eleuthera,Milano, 2000.
[32] Vedi Dal Lago, Nonpersone, Feltrinelli, Milano, 1999.
[33]  Brano di intervista raccolto.
[34] D. Harvey,  La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993.
[35] M. Augè, Nonluoghi, Eleuthera, Milano, 2000.
[36] A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001.
[37] Ibid
[38] Vedi M. Halbwachs, La memoria collettiva, Edizioni Unicopli, Milano, 1987.
[39] Risulta molto interessante a questo proposito una rilettura del testo di De Martino, “Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito Achilpa delle origini” in, Il mondo magico, Bollati Boringhieri,Torino, 1973 e 1977.
[40] K.H.Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma, 2001.
[41] Ibid
[42] J. Clifford, Strade, Bollati e Boringhieri,Torino,1999.
[43] M. Mellino, La critica Postcoloniale, Meltemi, Roma, 2005.
[44] Ibid

2 commenti:

  1. Trovo molto interessanti le riflessioni sui luoghi di incontro e scambio, il tema della condivisione degli spazi espresso nelle pratiche quotidiane. Partire da queste "zone di contatto", questi centri di aggregazione periodica per indagare le nuove sintesi,come si realizza la condivisione, appunto, di esperienze di pratiche e storie di vita; rappresentare il meticciato che si sviluppa in questi luoghi di incontro. Penso ad esempio alla clientela di un ristorante etnico, di un kebab, di un negozio , ai momenti di condivisione che nella festa "Via Padova è meglio di Milano" si realizzano negli eventi "danza"; "Arte", "Pranzo dal mondo" ecc..cercando di rappresentare il significato che queste esperienze di incontro, di socializzazione rivestono per coloro che le vivono in prima persona e gli effeti sul contesto.

    Silvia Riva

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  2. Leggendo l’articolo, più volte mi sono soffermata a riflettere sulla dimensione del movimento o, più precisamente , sul continuum che va dalla staticità più radicata al movimento estremo.
    Staticità che per alcuni versi può essere sinonimo di rigidità di pensiero, di paura del cambiamento, di ansia per il non certo e non conosciuto e a cui si trova riparo o conforto nella chiusura, nella delineazione di confini e nella ricerca di ciò che ci è familiare ( abitudini, luoghi e ricordi di cose già vissute e che vorremmo sempre uguali).
    Movimento che può divenire caotico, non controllabile, ma che sempre è indice di cambiamento, di incontri, di volontà di mettersi in gioco e mettere in campo le proprie risorse e che può portare alla creazione di qualcosa di nuovo, più grande ed importante della somma delle singole componenti.

    Un altro spunto di riflessione fornitomi dall’articolo è quello relativo al bisogno maslowniano di sentirsi parte di un gruppo e, dopo la fatica per farvi parte ed essere riconosciuto da esso, la pericolosità che uno straniero può rimandare nel sottolineare la non natività di una grande parte dei residenti. Il pensare che “siamo tutti stranieri, siamo tutti di passaggio” sembra difficile da considerare e sembra che evochi e ricordi difficoltà e tempi bui che è meglio cancellare.
    Alessandra Pozzi

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