venerdì 6 febbraio 2009

Nota sul diritto alla Vita nella Costituzione italiana



La vicenda della Englaro, così come quella del Welby pongono degli interrogativi che esigono delle risposte certe ed inequivocabili soprattutto da parte degli operatori del diritto.
Ossia esiste nel nostro ordinamento giuridico un inderogabile diritto all vita oppure questo diritto, in determinate condizioni umane (malattie terminali, coma...) può essere derogato con una semplice pronuncia del magistrato adito?
Per rispondere a tale quesito occorre partire dalla Legge fondamentale su cui si regge lo Stato italiano.
L'art. 2 Cost. così dispone:"La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale"
Il richiamo a questi "diritti inviolabili" ha la sua radice in una lunga tradizione storica e filosofica che si estende dal diritto naturale fino alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo.
L’idea di fondo é che esistono dei diritti naturali, dei diritti, cioè, che appartengono per natura all’uomo e perciò precedono l’esistenza stessa dello Stato, che, dunque, non li crea, ma, appunto, li deve riconoscere e soprattutto garantire concretamente, specialmente attraverso le leggi ordinarie.
Detto in altri termini: il diritto positivo, l’insieme delle norme poste dallo Stato, deve conformarsi alle norme del diritto naturale che precedono qualsiasi legislazione positiva.
I diritti naturali, proprio in quanto costitutivi della natura umana, non sono legati ad una determinata cittadinanza (italiana piuttosto che francese, tedesca piuttosto che albanese, ecc.).
Non si tratta, dunque, di diritti del cittadino, ma di diritti dell’uomo.
Il riconoscimento é importantissimo perché obbliga la Repubblica Italiana a garantire a tutti, anche a coloro che non siano cittadini italiani, questi diritti fondamentali.
Quali?
Sul piano filosofico le risposte sono state le più diverse.
Sul piano politico e giuridico il riferimento fondamentale è certamente rappresentato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo approvata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, a cui la Costituzione italiana fa riferimento quando parla di diritti inviolabili.
Essa all'art. 3 statuisce che: "Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona"
Da ciò discende che il diritto alla vita è incondizionato, inderogabile ed indisponibile.
Siffata enunciazione normativa pone quindi concretamente:
a) un limite al legislatore, il quale non può emanare norme che scalfiscano l'inviolabilità della vita umana;
b) un limite alla magistratura la quale non può, con sentenza, subordinare l'indisponibilità della vita umana al principio dell'autodeterminazione della persona (ognuno dispone della sua vita come crede!)
Vi è di più.
Secondo qualificata dottrina l'eutanasia, ossia la "morte ex lege" non potrebbe compiersi nemmeno con leggi di revisione costituzionale, atteso che queste leggi incontrano il limite di non poter modificare la forma repubblicana “a disegnare la quale si può dire concorre proprio il principio personalistico” che afferma il primato dell’uomo nei confronti dello Stato e lo colloca al centro dell’ordinamento giuridico (cfr. Palazzo, Delitti contro la persona, in Enciclopedia del Diritto – XXXIII, pagg. 298 e segg., Giuffrè Editore).
Pertanto si può concludere che qualora in Italia ci fossero leggi che regolassero l'eutanasia, queste sarebbero del tutto incostituzionali.
Nemmeno il principio di autodeterminazione personale (...se un giorno entrassi in coma vorrei che mi fosse staccato il respiratore...) potrebbe giustificare il ricorso alla "dolce morte" in quanto nella eutanasia, al contrario del suicidio, la decisione finale sulla morte è rimessa al terzo e non già all’interessato, e non si può quindi consentire che sia trasferita ad altri la disponibilità della vita umana (che peraltro non compete nemmeno alla Stato).
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