CAPITOLO 30

 

 

La mia Africa


 

 

 

 

 

inalmente è arrivata la bella stagione , nei cortili sventolano i panni al sole, le passerine tornano ad indossare T-shirt attillate, a scoprire le gambe e a mostrare generosi decollètè . Ancora qualche giornata grigia poi esploderà la primavera con i suoi colori pastello , il tepore del sole al mattino e il profumo dei fiori . Come sono bucolico. Per me cambia poco. Me ne resterò come al solito gran parte del tempo disegnato dietro questa scrivania per vedere rientrare i figli da scuola e la moglie dal lavoro, accogliendo di tanto qualche imbestialito cliente , esasperato dai tradizionali aumenti e poco incline al perdono.

Non ho ancora deciso cosa fare, d’altronde nel tempo concesso alla mia generazione niente è più definitivo del provvisorio. Tiriamo a campare grazie alla nostra proverbiale ed inesauribile arte di arrangiarci. “Quando soffia il vento fatti canna  recita un antico proverbio, purtroppo , esposta alle intemperie,  anche la canna  si lacera e prima o poi , ho paura , finirà per spezzarsi.

D’altra parte anche per i figli tira una brutta aria.

Dopo il diploma Alessandro è finito, come tanti suoi sventurati coetanei, nell’ affollato limbo dei disoccupati . Non si è perso d’animo , si è dato subito da fare e , dopo qualche incidente di percorso ,  è riuscito a trovare un lavoretto nel solito call center dove firma quei prodigiosi contratti giornalieri che - a sentire i nostri governanti - avrebbero drasticamente diminuito il tasso di disoccupazione.

Stendiamo un velo pietoso su valutazioni tanto balorde . E’ evidente che  se questi traballanti lavori a progetto , retaggio delle antiche corvèe feudali e degni eredi delle collaborazioni coordinate e continuative – i vergognosi Co.Co.Co. – non possono certo garantirti un futuro , ti permettono se non altro di muovere i primi, incerti passi nel mondo del lavoro .

Ieri, al rientro, era malinconico e amareggiato , sembra che qualche gentiluomo che un posto di lavoro l’ ha evidentemente ereditato anni fa - quando questo era possibile – l’abbia schernito e mortificato perché importunato durante il desinare.

Ho idea che questo signore, certamente di censo cospicuo , non abbia prole in età da lavoro, altrimenti comprenderebbe cosa significa per questi poveri ragazzi, che per sbarcare il lunario sarebbero disposti a qualsiasi umiliazione, strappare un ‘ intervista all’ ora di cena .

Dovremmo aiutarli . Concedergli un po’ del nostro prezioso tempo. Se non  per loro sarebbe comunque consigliabile farlo per noi , se vogliamo evitare che prima o poi ci facciano a pezzi.

Già. Mi sembra un’ottima idea. Peccato che , sbronzi di sms e videogiochi, i nostri assonnati rampolli si limitino a scaricare suonerie e rincorrere esotiche griffe.

Una lama di sole ha tagliato la nuvolaglia per centrare i miei occhi , sempre più stanchi , rivolti verso questo luminescente monitor che , bontà sua, è diventato il mio provvidenziale  refugium peccatorum  e  mi tiene in contatto col mondo esterno. 

Il clima è gradevole, grazie a Dio è venerdì , come titolava un vecchio film, ancora qualche ora poi si chiuderà bottega per riaprire lunedì prossimo sempre nella spasmodica attesa del coup de théatre che tarda ad arrivare . Ancora un fine settimana per vagheggiare improbabili palingenesi che dovrebbero cambiarti la vita , peccato non si possa calare la saracinesca anche sui pensieri. 

Avrei un mucchio di lavoro da sbrigare, di tempo ce ne sarebbe  ma quella che mi manca stamattina è la voglia. Fuori il vento si è portato via l’odore della terra smossa dalla pioggia ed è uscito un bel sole, la gente passeggia , va a fare la spesa , si gode il tepore di aprile e il cielo azzurro di Roma. Ancora qualche digressione, qualche perifrasi di riporto poi mi unirò a loro.

Rebus sic stantibus - Non rompete! Per quale cazzo di motivo avrei studiato per cinque lunghissimi anni il latino se non posso neanche infilare qua e là qualche citazione ogni tanto ?  - nonostante le recenti , cospicue prebende intascate grazie alla collaborazione di chi ha avuto la benevolenza di precedermi lungo la rotta che porta al regno dei Cieli, di acquistare un appartamento in zona  non se ne parla nemmeno .

Prima o poi dovrò fare le valigie e dirigermi altrove , mi è sembrato pertanto opportuno effettuare qualche ricerca e accompagnarvi in un affascinante viaggio della memoria lungo le chiassose strade del quartiere nel quale sono nato , cresciuto e , ahimè, ho cominciato a incanutire.

Passeggiando per l’Africano  avrete pronunciato cento, mille volte , il nome di una via , di una piazza , di una chiesa o di una scuola senza domandarvi : “Carneade! Chi era costui?” E’ arrivato il momento di colmare questa gravissima lacuna. 

Già nella prima parte di questo mio lungo lavoro vi ho parlato di come venne su il quartiere – se non ve lo ricordate fate una cura di fosforo e tornate indietro di qualche centinaio di pagine – purtroppo nella fretta ho trascurato tanti dettagli .

Proviamo a rimediare. 

Com’è ovvio troverete soltanto i nomi di vie o piazze che suscitano in chi scrive qualche ricordo , molte,  fatalmente, scorderò di citarle, altre le trascurerò volutamente.   Chi mi ama mi segua. Il resto della milizia potrà prendersi una lunga pausa di riflessione.

Le leggi approvate nel 1919 , presidente del consiglio Giolitti, per risolvere il problema della casa da destinare alle classi popolari davano ai comuni ampia facoltà di esproprio , requisizioni e risanamento di alloggi.  Venne inoltre costituito un fondo speciale per l’edilizia popolare.

A Roma però la febbre del mattone esplose solo a partire dal 1923  con la pressione di una fortissima emigrazione, la liberalizzazione del regime degli affitti e la defiscalizzazione sulle nuove costruzioni. Si mantenne viva fino al’38 e riprese dopo la guerra, con il dilagare del tutto incontrollato della periferia .

L’Africano nacque da una costola del quartiere Savoia istituito con deliberazione governatoriale n° 3554 del 24 Maggio 1926 e mutato nel settembre 1946 in quartiere Trieste , le vie presero nomi da località, città e regioni dell'ex Africa Italiana, e capitali, stati esteri e località ricongiunte alla guerra del 1915-18. Si trattava di un territorio “for de porta” cioè fuori porta Salaria ,  nell’ agro romano.

Girovagando nella rete in cerca di notizie e curiosità , mi sono imbattuto nell’interessante racconto di alcune anziane signore del gruppo degli amici di Santa Emerenziana che descrive come si presentavano i dintorni del quartiere tra gli anni 20 e gli anni 60. Ringrazio Giovanna Botticella e Alessandra Di Pucchio che hanno provveduto a diffonderlo per il curioso popolo dei cibernauti prima che queste preziose testimonianze scivolino via nell’oblio come l’acqua sul marmo.  

“...A piazza Vescovio, prima della guerra, intorno agli anni ’20, c'erano dei palazzi in costruzione, rimasti così per molti  anni. C'era solo via di Priscilla con i suoi bei palazzi antichi e le sue ville da almeno 70 anni.

Via Salaria era più stretta di come è oggi, qui c'era un po' di vita, si potevano trovare dei negozi. Sulla Salaria, all'altezza di via Anapo, si incontra la villa reale. Di fronte all'entrata di villa Savoia c'è un caseggiato vecchio che non è stato abbattuto quando, per allargare via Salaria, hanno buttato giù tante case: dicevano che c'è un appartamento dove il Principe andava quando voleva stare solo. Questa casa oggi interrompe la larghezza di via Salaria e faceva parte di villa Ada.

All’interno di villa Ada c'è una chiesa chiamata “San Silvestro”, infatti la aprono sempre il 31 Dicembre. E’ particolare ed è proprio antica: in piccolo è come Santa Costanza e sotto ci sono le scale per andare alle catacombe.

Di fronte alla Villa Reale, Villa Savoia, c'erano i villini dei ferrovieri, un gruppo di case costruite dai ferrovieri per gli impiegati. Da qui, per andare a scuola, a via Lovanio, si andava a piedi, con il caldo e con il freddo. Man mano che si camminava per via Salaria, i bambini aumentavano fino a formare un gran gruppo.

Piazza Verbano non esisteva. Fino a piazza Quadrata e a viale Regina Margherita era tutto deserto.

A via Lovanio c'era un istituto di suore e, dentro, c'era la nostra scuola, antica, bellissima. C'erano tanti bambini che facevano due turni: uno la mattina, l'altro il pomeriggio.

Dalla scuola di via Lovanio si raggiungeva via Nomentana, dove passava un autobus che portava al centro, a Porta Pia e a Città Giardino.

Via Arno era un paese di baracche fino al quartiere Coppedè .  Era abitato da persone che, non avendo casa, si costruivano una baracca. Uno di loro, con un carretto, andava a prendere l'acqua all'Acqua Acetosa, dove c'era la fonte, e la portava al quartiere gridando: “Acqua Acetosa, Acqua Acetosa”.

Viale Regina Margherita e via Tagliamento erano come adesso. All'angolo tra via Dalmazia e viale Regina Margherita c'è un palazzo dove c'era la caserma con le guardie del re. Da lì uscivano i corazzieri a cavallo e andavano a villa Savoia. Quel palazzo era adibito a stalla e c'erano gli abbeveratoi dei cavalli.

A via Chiana c'era un mercato che, nel 1935, è stato spostato tra via Sirte e via Lago di Lesina; fino a Piazza Annibaliano c'erano tutte bancarelle. Il mercato, successivamente, è stato spostato in altre zone: prima in via Massaciuccoli, poi in un'altra zona fino a quando, nel 1960 o forse nel 1966-67 hanno fatto il mercato coperto che ancora oggi è a Viale Libia.

Questa zona era tutta aperta campagna. Il quartiere ha iniziato a popolarsi pian pianino: con le case dell'Incis è sorta piazza Verbano, vicino c'era la famiglia reale. In questa zona, nel 1929, c'era la guardia del quartiere che conosceva tutti e dava sicurezza, tanto che si poteva uscire anche di notte.

In via Panaro hanno costruito una scuola che si chiama Alessandro Mussolini, in onore del figlio di Arnaldo, fratello del Duce, che era morto in aereo.

Nel 1935 è stato inaugurato il Parco Nemorense, dove c'era un piccolo rudere, di cui però non si conosce la storia, e c'era una guardia che multava chi calpestava le aiuole.

Nella zona di Sant'Agnese e Santa Costanza per arrivare su via Nomentana, era tutto prato e canneti, le case non c'erano, finivano a Piazza Annibaliano. La chiesa di Sant'Agnese è antica e sotto ci sono le catacombe; la chiesa di Santa Costanza che sta nella chiesa di Sant'Agnese la aprono solo a Pasqua, a Natale e per i matrimoni.

Andando su via di S. Agnese si arriva sulla Nomentana dove c'è un antica fontana dove dicono si siano abbeverati i cavalli di Garibaldi. Andando in su, verso sinistra, c'è un gran muro di cinta, lì ci sono le suore: ci sono sempre state. Lì vicino  c'è anche il "mare monti" che era un collegio femminile signorile a pagamento, era un istituto meraviglioso con un bel giardino all'interno, lì c'è una lapide dove c'è scritto che Garibaldi ha soggiornato lì.

Con la guerra d'Africa è nato il quartiere africano, dove le strade hanno nomi africani, come viale Eritrea e viale Libia.

A piazza Annibaliano c'era il cinema Trieste: si pagavano solo 100 lire per vedere due film. In questa zona, prima, non c'era niente, solo prati, fossati e rane, si formava la marana, perché c'era un avvallamento che prendeva l'acqua da tutte queste vie. In viale Eritrea, nel 1932, hanno costruito delle case convenzionate; anche il Vaticano aveva contribuito alla loro costruzione, erano case modeste, non c'era né il bagno, né l'ascensore e neppure i termosifoni, però erano ariose, belle e pulite; queste case ci sono ancora ma sono state ristrutturate, e per prima cosa hanno messo gli ascensori.

Percorrendo viale Eritrea si arriva a piazza Santa Emerenziana, che è stata costruita nel ‘42. Prima della costruzione della chiesa, piazza S. Emerenziana era un prato, aveva una grande fontana con intorno le galline.

Su viale Libia, che viene dopo, c'erano tutti prati fatti a buche, che poi sono state riempite e sono nati i palazzi: questi sono stati costruiti nel '45. In mezzo a questi prati c'era un monumento funebre, la Sedia del Diavolo. Questo rudere ricorda la forma di una sedia e si trova in piazza Elio Callisto, dal nome di un cittadino romano a cui questo monumento è stato dedicato.

La Montagnola era una nota trattoria situata su di un altura in via di Batteria Nomentana, dove da bambini si andava a giocare a nascondino: era un luogo tranquillo, dove si poteva stare fino a tardi e girare tranquillamente. La trattoria possedeva una radio dalla quale fu sentito l'annuncio della guerra fatto da Mussolini.

I nostri ricordi dell’infanzia sono tutti belli a parte la guerra, ma anche in quel periodo da bambini si pensava a giocare.

Quando si giocava nei prati e passavano gli aerei a bassa quota per l'ispezione, erano pericolosi ma non si aveva paura perché non ci si rendeva conto di quello che poteva succedere.

Al primo bombardamento di Roma, quando a San Lorenzo hanno bombardato il cimitero, si sentiva il rumore delle bombe che cadevano sulla stazione di via Salaria e sull'aeroporto dell'Urbe: era una cosa impressionante.

In tempo di guerra le signore cucivano le piastrine ai soldati che appartenevano al gruppo "Roma città aperta". In occasione dell'armistizio dell'8 settembre, questi soldati sono dovuti scappare e passavano nelle case per lasciare le divise e prendere i vestiti. Senza divisa potevano camminare con minor pericolo, altrimenti rischiavano di essere presi e portarti su quei famosi carri bestiame e portati chissà dove…

Con la guerra si era sviluppata una forte solidarietà sia con i soldati che con i civili. Quando i soldati partivano per la guerra si andava sulle linee ferroviarie per portare qualcosa, i soldati si affacciavano dai finestrini per salutare e alcuni di loro davano delle lettere da spedire alle loro famiglie. A scuola facevano scrivere le lettere ai soldati al fronte, per aiutarli moralmente, in modo che si sentissero meno soli.

Allora non c'era molto da mangiare e spesso i bambini dividevano la loro colazione con i bambini che non l'avevano e alcune famiglie più ricche lasciavano dei piatti di minestra sulle finestre per i poveri.

Molte famiglie accoglievano nelle proprie case gli ebrei, davano loro da bere e da mangiare. In questo modo, molti di loro si sono salvati.

Quando sono arrivati gli americani, c'è stata la ritirata dei tedeschi, a piazza Vescovio, sulla via Nomentana e in tutto il quartiere hanno combattuto e ci sono stati molti morti.

Con la fine della guerra tutto è tornato alla normalità.”

Un ipotetico viaggiatore perciò , che si fosse trovato a sorvolare la zona attorno alla metà degli anni ’20 , avrebbe assistito all’alacre lavoro di un piccolo esercito di carpentieri e muratori a torso nudo o in canottiera , sul capo un fazzoletto annodato o una pagina di giornale modellata a forma di barchetta per ripararsi dal sole cocente.

In base a quanto previsto nel piano regolatore elaborato nel 1909 dell’architetto Sanjust di Teulada sotto l’amministrazione capitolina del sindaco Ernesto Nathan , soprannominato il milanese, e al soldo del governatore di Roma Filippo Cremonesi  , questi operai  , armati di pale e picconi e circondati da fango, calcine , tegole e mattoni, si davano da fare per interrare una  marana e farne così l’asse fognario del nuovo quartiere. L’antico nome romano di questo torrente , che sgorgava da un’ altura tra via Salaria e via Nomentana e dove sembra che San Pietro si recasse a battezzare , pare fosse Ostrio. Da qui l’appellativo di cimitero Ostriano dato alla serie di catacombe presenti nel sottosuolo e rimasto nel toponimo di via Ostriana , una traversa di via di Priscilla. Quella marana era tuttavia conosciuta da tutti con il curioso nomignolo di fosso di Santa Agnese.

Era questo un fiumiciattolo che scorreva pigro lungo l’asse che oggi collega Corso Trieste , viale Eritrea e viale Libia e finiva la sua lenta corsa in una piccola valle dove confondeva le sue acque con quelle dell’Aniene,  proprio alle spalle di quel palazzone d’angolo sempre assolato a due passi dal tratto della linea ferroviaria Roma - Orte , tra piazza Gondar e viale Etiopia , che ancora non era stato innalzato e solo alla fine degli anni ’50 avrebbe accolto il sottoscritto appena affrancato da pappe e pannolini .

Già, il fosso di Santa Agnese , un insediamento di casupole senza bagno  e con i tetti di lamiera a ridosso dei nuovi palazzi di periferia , popolato da minacciosi nomadi con nugoli di erculei ragazzini cresciuti a ciriola e frittata da tenere a debita distanza . Uno spaccato di umanità uscita fuori dalle pagine di un romanzo di Pasolini. 

Intorno alla metà degli anni sessanta con quel nome si indicherà ormai soltanto un miserabile accampamento di baracche  in fondo alla scarpata - l’odierna circonvallazione Salaria che si può oggi osservare da via Mascagni - annidato tra rovi e sterpaglie al crocevia tra piazza Gondar e viale Somalia.  La borgata diventerà presto tristemente nota a chi, come me,  crescerà nelle palazzine piccolo borghesi della zona per essere svezzato a buondì Motta e pane e Nutella .

Ora la baraccopoli è sparita, al suo posto le rampe della tangenziale realizzate per i mondiali di calcio del ’90 che collegano il quartiere alla via del Foro Italico comunemente chiamata Olimpica. Nell’ambito degli stessi lavori nel 1990 fu demolito anche il fabbricato della stazione ferroviaria Nomentano con affaccio in piazza Addis Abeba . Il tutto per consentire la costruzione dello svincolo della tangenziale che conduce a viale Etiopia. Al suo posto un misero giardinetto e una squallida scalinata per accedere all’attuale stazione .

Il fabbricato viaggiatori era in asse con la piazza , il magazzino merci sotto il viadotto stradale delle Valli, dove corre un lungo tratto della linea per Firenze, gran parte dei binari è stata poi rimossa per far posto alla Circonvallazione Salaria. 

A cavallo tra le due guerre lungo la Nomentana si sviluppò la destinazione sociale delle aree edificabili. In direzione fuori Roma si istallarono fabbriche e quartieri popolari , sul lato destro ambasciate e villini signorili.

Intorno alla città giardino di Montesacro costruita negli anni venti,  si sviluppò l’accerchiamento intensivo di zone come il Tufello e valle Melaina e , negli stessi anni,  fu dato grande impulso alla costruzione dei quartieri Italia intorno a piazza Bologna e Africano attorno a viale Libia . Solo nel secondo dopoguerra si portò a compimento la saturazione degli spazi rimasti ancora liberi nella zona intorno alla batteria Nomentana e verso l’Aniene.  

In quelle case di frontiera al limite della campagna ci abitavano soprattutto famiglie provenienti dall’Abruzzo , dalla Campania, dal Meridione e dall’Italia centrale in genere. Nelle strade , percorse a piedi o in bicicletta , ancora poco traffico e niente asfalto , solo tanta polvere e mucchi di sassi ai lati. Le pietre venivano spaccate dagli operai con la mazzetta e sparsi nelle  buche formate dalla pioggia. Si compravano le uova e i polli dai contadini della zona e il latte da un campagnolo con un carretto  che annunciava il suo arrivo suonando una trombetta per far accorrere le massaie e frotte di ragazzini. 

Mio padre e mia madre, come ricorderete, si stabilirono nel quartiere,  intorno alla metà degli anni cinquanta, perfezionarono infatti l’acquisto dell’appartamento di via Maestro Gaetano Capocci 24 il 17 aprile 1956.

Si trattava di una zona ancora suburbana , confinante con i quartieri Salario a sud , Nomentano ad est e Trieste a nord , ma  alla gente allora non mancavano né il lavoro né la voglia di lavorare e in poco tempo sviluppo e benessere offrirono loro le opportunità che sono mancate alla mia generazione e, ho paura, verranno ancor meno a quelle future.

Nel 1954 venne eretto in viale Etiopia un unico , orribile condominio di due torri alte 40 metri costruite con l’uso di piattaforme aeree. Pare si trattasse di architettura all’avanguardia per quei tempi , tanto che le tecniche avanzatissime usate allora oggi sono diventate argomento ufficiale nei testi d’ingegneria.

Le costruzioni , compreso il civico 34 che mi avrebbe dato alloggio nei primi anni di matrimonio, proseguirono poi lungo l’arteria estendendosi in direzione via Nomentana e verso il viale Somalia , finché , proprio al crocevia tra quest’ultimo e piazza Gondar , venne innalzato tra il 1958 e il 1959 l’edificio che custodisce l’appartamento dei miei sogni, oggi focolare di zotici barbari sopraggiunti dalla via Tuscolana.

Invidia?  Na cifra.

All’alba dei favolosi anni sessanta  , affacciandosi dal balcone del salone , i miei poterono presenziare ai lunghi lavori in corso per la costruzione di un viadotto di circa 700 metri che da piazza Conca d’Oro sbucava a viale Libia per collegare il quartiere con la zona di Montesacro, quel ponte , una volta ultimato prese il nome di via delle Valli.

In verità i primi germogli di calce e cemento della nuova area periferica erano già stati seminati anni addietro, all’epoca della conquista dell’Africa Orientale,  per dar modo ai dipendenti delle Ferrovie dello Stato di metter su famiglia . Si trattava di grandi caseggiati color ruggine all’estrema periferia della città intervallati da ampie chiazze di terreni erbosi e fanghiglia .

Nella toponomastica della zona , un tempo ai limiti della campagna ed oggi gremito di palazzoni ad otto piani , ritroviamo nomi e luoghi che non ci dicono granché ma un tempo richiamavano alla mente gloriosi fatti d'arme o spaventosi massacri indissolubilmente legati alle imprese coloniali d’inizio secolo , ai fasti del nuovo Impero e al definitivo dissolvimento della chimera del posto al sole alla fine del ventennio. 

Dancalia , ad esempio, è una regione dell’Africa orientale divisa tra Etiopia ed Eritrea ,  Adua una città del Tigrè dove nel 1896 fu sterminato il corpo di spedizione italiano comandato dal gen. Baratieri, Fezzan un territorio desertico della Libia occidentale conquistato dal regio esercito una prima volta nel 1919 e una seconda nel 1929 . Giarabub , un’ oasi libica , tappa obbligata delle carovane dirette verso il Sudan . Venne occupata dagli inglesi nel 1941 nonostante la tenace difesa del presidio italiano.  Tocra, un’ antica città greca della Cirenaica. Ghirza un antichissimo centro libico  impiantato in Tripolitania a difesa del limes romano nel  III secolo d. C. 

Per mio fratello Piero , che abita nella via che da essa ha preso il nome, sarà forse utile sapere che Tembien è una regione dell’Abissinia diventata celebre per la strenua resistenza opposta ai nostri soldati dalle guardie reali del negus Neghesti . 

Il toponimo di alcune vie ricorda cruente battaglie come quelle di Derna e dello Zanzur , svoltasi durante la guerra di Libia nel giugno del 1912, dell’Ogaden, dello Scirè o dell’ Endertà , inaccessibile catena montuosa dove Badoglio nel febbraio 1936 sbaragliò le armate abissine. Qualche strada prende il nome da territori incontaminati come quelli del Lago Tana, il più grande d’Etiopia,  o del Giuba , fiume della Somalia generato dalla confluenza del Doria nel Daua. Altre da bastioni difensivi come il forte di Makalè o di Cheren ai confini della Somalia, e ancora dell’ Amba Alagi e Gimma , ultimi capisaldi italiani difesi nel marzo del 1941  a conclusione della disastrosa Campagna in Africa Orientale e soprattutto, perdonerete la debolezza, di Gondar.

Estrema roccaforte montuosa del nostro esercito a nord del lago Tana, 2.100 metri sul livello del mare , difeso da circa 40.000 uomini agli ordini del generale Nasi, il presidio di Gondar sembrava ormai prossimo alla resa,  resistette invece ancora per molti mesi , fino al 27 novembre 1941 .

Questi i nomi meno noti  che si aggiungono ad altri ugualmente pressoché sconosciuti come quelli di Dessiè, situata 400 km a nord di Addis Abeba,   Senafè , cittadina eritrea 135 Km a sud di Asmara,del Galla Sidama , aspro territorio popolato dalle omonime tribù ai confini meridionali dell’Etiopia , di Adigrat , forte presidiato dal maggiore Prestinari con il suo battaglione di cacciatori sul fronte abissino ,  di Cirene , antica metropoli della Libia, di Gadames città - oasi della Tripolitania libica, e di Dire Daua importante centro amministrativo etiope dove risiedeva una numerosa comunità italiana.

Via Sirte deve invece il nome ad una delle più ampie insenature dell’Africa settentrionale tra Cirenaica e Tripolitania, via Homs ad un sobborgo d’epoca romana, via Sabrata alla cittadina cirenaica fondata nel 1000 a.c. celebre sotto la dominazione degli Antonini e dei Severi, via Barce ad un antico porto libico . Altre vie vengono accomunate ad importanti scali portuali eritrei e somali , stiamo parlando di Massaua, Assab, Mogadiscio e Chisimaio .

Colonie africane come Etiopia, Libia, Somalia ed Eritrea , estese regioni come Cirenaica, Tripolitania, Migiurtinia, e Tigrè  e famose capitali come Addis Abeba, Asmara e Tripoli  completano la mappa del quartiere denominato appunto Africano  . Tuttavia , nel cuore pulsante di questo intricato dedalo di strade e piazze tutte intitolate al continente nero, esiste qualche eccezione . Vediamo quali e perché.

Piazza Santa Emerenziana, al crocevia tra il viale Libia e il viale Eritrea , un tempo sede della rimessa degli autobus del quartiere , porta il nome dell’omonima parrocchia dedicata alla martire , sorella di  latte di Santa Agnese, uccisa a sassate mentre pregava sulla tomba della congiunta e sepolta prima nel cimitero Ostriano , quindi trasferita nella basilica di Santa Agnese .

La chiesa fu inaugurata il 25 novembre 1942 su progetto degli architetti Tullio Rossi e Francesco Fornari con decreto del Cardinale Vicario Francesco Selvaggiani “Ad pastoralis officii” .

Via di Santa Maria Goretti  , situata tra via lago Tana e viale Etiopia, deve invece la denominazione alla chiesa edificata il 1° giugno 1953 in onore della dodicenne che il 6 luglio 1902 , vittima di una crudele aggressione, preferì morire piuttosto che perdere la sua verginità.

Edificata su progetto di Tullio Rossi con decreto del Cardinale Clemente Micara  in “suburbana regione” , fu consacrata dall’arcivescovo titolare di Palestina il 15 maggio 1954 ed affidata al clero diocesiano di Roma.

La piazza Elio Callisto , già ricordata nel racconto delle signore di piazza Santa Emerenziana , è così chiamata a causa del sepolcro “a tempio” , costruito sopra una collina lungo la via Nomentana nella seconda metà del II secolo d.c., di un certo Aelius Callistion  , un nobile romano , forse un liberto dell’imperatore Adriano. Non tutti gli storici sono però convinti che il monumento funebre , la cui facciata è interamente crollata mentre si conservano ancora i restanti tre lati , appartenesse effettivamente al nostro uomo . 

Il mausoleo , oggi circondato da automobili e palazzi ma un tempo isolato nella campagna romana , era ben visibile ai pellegrini del medio evo che,  illuminandolo con i fuochi , trascorrevano la notte tra quelle rovine prima di proseguire per l’Urbe e visitare le tombe dei martiri e dei santi . Quegli stessi viandanti l’avevano chiamato  , data la particolare forma simile ad un trono satanico , Sedia del Diavolo.  Quello stesso soprannome era stato dato anche alla piazza che lo ospita, almeno fino agli anni cinquanta , quando un gruppo di residenti , scontenti di un epiteto che evocava suggestioni diaboliche, non chiese ed ottenne dal Campidoglio di cambiarlo in quello attuale .

Visto che abbiamo già nominato due chiese del quartiere chiudiamo il cerchio accennando alle due rimaste.

La parrocchia della Santissima Trinità a Villa Chigi , consacrata il 4 giugno del 1962 con decreto del Cardinale Micara “Quo aptius spirituali” , e temporaneamente sistemata in una serie di vani piano strada in fondo al viale Somalia, venne affidata alla cura dei padri Stimmatini .

In quei locali, oggi sede di una filiale della Banca Popolare di Sondrio, presi la prima Comunione e confessai i miei primi peccati veniali a Don Vittorino. Vi ho già raccontato la sua triste storia di prete di strada.

Solo il 4 marzo 1979 , dove fino a quel momento esisteva solo un campetto di calcio, venne aperta ai fedeli la nuova chiesa di via Boito e gli annessi edifici parrocchiali.

La chiesa dei Sacri Cuori di Gesù e Maria è già piuttosto fuori mano e soprattutto lontana dagli itinerari della memoria, ma va ricordata se non altro perché è lì che io e mia sorella fummo battezzati e cominciammo quel lungo cammino di Fede in compagnia di Nostro Signore, che , soprattutto per quanto mi riguarda, è spesso stato disagevole e mi ha costretto  ad abbandonare per brevi tratti il sentiero, perdendo così di vista il mio compagno di viaggio.

Eretta il 13 luglio 1950 con decreto del Cardinale Vicario Francesco Selvaggiani “Universo gregi” ed affidata al clero diocesiano di Roma la chiesa è stata consacrata da S.E. Mons. Luigi Traglia, arcivescovo di Cesarea il 18 marzo 1957.  Il progetto architettonico è di Mario Paniconi e Giulio Pediconi. 

Quando ancora portavo i calzoncini corti e i pedalini bianchi calati su tibia e perone , se via Nemorense rappresentava lo steccato del quartiere verso la via Salaria - solo in compagnia dei grandi mi sarei potuto spingere fino a  villa Ada -    piazza Annibaliano custodiva le mitiche colonne d’Ercole oltre le quali cominciava l’ignoto. Quel misterioso luogo ai confini del quartiere Trieste era il limite invalicabile posto da mia madre alle passeggiate solitarie  del sottoscritto.

La grande rotonda che fino a qualche anno fa ospitava l’elegante cinema Triomphe – già Trieste -  oggi sede dell’ennesimo Mc. Donald, prende il nome da  Flavius Hannibalianus , figlio di Dalmatius il censore , che nel 335 prese il titolo di  nobilissimus , impalmò Costantina e governò l'Armenia e il Ponto con il titolo armeno di re dei re. Fu ucciso con il padre, il fratello e altri parenti – un’autentica carneficina -  nel 337 , alla morte dell’imperatore  Costantino.

Proseguendo si raggiunge Corso Trieste, si supera via Arno , s’incrocia viale Regina Margherita e si arriva all’antica porta Salaria, l’odierna Piazza Fiume, ma siamo ormai largamente fuori rotta.

Via via che ci si allontana da piazza Annibaliano  in direzione di piazza Gondar , i palazzi più vecchi di viale Eritrea , quelli che possono vantare un pedigree più prestigioso, perdono gli stucchi e le decorazioni per lasciar posto a costruzioni dalle forme sempre più moderne ed essenziali. Qualche eccezione qua e là per lo stile architettonico di stabili costruiti prima che l’asfalto ricoprisse interamente l’area.  

Giunti al limite nord est del quartiere si possono tranquillamente ripiegare le cartine africane per metter mano agli spartiti, le vie sono infatti tutte dedicate a compositori , noti e meno noti,  di casa nostra .

La più esclusiva ed elegante è via Pietro Mascagni , una strada tranquilla costellata di verde e palazzi signorili , qui io e la mia consorte abbiamo lasciato il cuore sognando a lungo il primo focolare.

Ma ancora una volta torna l’eterna domanda postasi dal pavido Don Abbondio. Se , infatti,  quasi tutti i melomani conoscono “Le quattro stagioni”  di Antonio Vivaldi ,  le liriche del “Mefistofele” di Arrigo Boito , le melodie della “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni  o le arie di “Pagliacci” di  Ruggero Leoncavallo  , molti ignorano le opere di  Alfredo Catalani,  chi fosse Alfredo Casella,  che genere sinfonico prediligesse Giuseppe Martucci  , quali le romanze composte  da Francesco Paolo Tosti, che mestiere facessero Luigi Mancinelli e  Filippo Marchetti,  come sbarcassero il lunario Alfonso Rendano, Luca Marenzio, Giovanni Animuccia, Niccolò Piccinni, Eugenio Terziani e Alessandro Vessella .  Ma soprattutto , e mi rivolgo in particolare ai cuginastri cresciuti in quella piccola via privata a due passi dal Largo Somalia , vi siete mai chiesti in che modo si guadagnasse il pane il fantomatico Maestro Gaetano Capocci?

Niente paura. Con l’aiuto di una piccola enciclopedia appena acquistata in edicola e , dove questa non arriva , dei ragni annidati nei motori di ricerca , penserò io a riempire l’ ennesimo vuoto pneumatico creatosi nell’emisfero destro del vostro  minuscolo cervello , sempre più ipotecato dalla smania di centrare un favoloso sei al Superenalotto  o troppo impegnato a stanare topine seminude lungo gli affollati viali di internet.    

Alfredo Catalani  ( Lucca 1854 – Milano 1893) , valente musicista , introdusse nelle sue opere la lezione del rinnovamento sinfonico e del dramma lirico francese. Insegnò al Conservatorio di Milano.

Eugenio Terziani (Roma 1824- 1899), direttore d'orchestra e compositore  fu attivo soprattutto nella capitale e alla Scala di Milano . Conosciuto e apprezzato anche all'estero, fu capace contrappuntista e si espresse al meglio nelle composizioni drammatiche. Il suo capolavoro è considerato il melodramma L'assedio di Firenze del 1883.

Alfredo Casella ( Torino 1883- Roma 1947) fu compositore, pianista, direttore d’orchestra e grande organizzatore di eventi musicali. E’ una delle figure più rappresentative  nel mondo della musica italiana del periodo compreso fra le due guerre mondiali. Divenne professore di pianoforte all’accademia  di Santa Cecilia a Roma nel 1915, e si adoperò attivamente per divulgare la nuova musica di Ravel , Strawinsky e altri contemporanei nel mondo culturale italiano. Fondò la Società Italiana di Musica Moderna, e, negli anni 30, fu un autentico faro del Festival di Musica contemporanea di Venezia.

Giuseppe Martucci (Capua 1856- Napoli 1909) compositore e pianista, tra i pochi cultori del genere sinfonico nel tardo 800 italiano.

Francesco Paolo Tosti (Ortona 1846- Roma 1916) compositore di celebri romanze come Vorrei morir, Ideale, Mattinata.

 Non le conoscete? Peggio per voi.

Luigi Mancinelli ( Orvieto 1848- Roma 1921) direttore d’orchestra, grande interprete di Verdi e Wagner , autore di opere orchestrali e teatrali.

Filippo Marchetti , compositore, nato a Bolognola (Macerata) il 26 febbraio 1831 e morto a Roma il 18 gennaio 1902, compì i suoi studi musicali al conservatorio di Napoli. Si dedicò soprattutto alla composizione di opere teatrali. Dopo alcuni insuccessi si dedicò completamente all'insegnamento del canto a Roma. Per il teatro La Scala scrisse un'opera che fu rappresentata nel 1869, Ruy Blas, che ottenne un clamoroso trionfo e divenne una delle più popolari dell'epoca. Dal 1881 al 1886 fu presidente dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia in Roma. Sebbene la sua produzione musicale sia oggi del tutto dimenticata, ebbe un posto di rilievo tra gli operisti italiani della sua epoca. È sepolto a Gallarano presso Camerino.

Alfonso Rendano (1853-1931) pianista e compositore, protagonista di rilievo nel panorama musicale italiano a cavallo tra l’ 800 e il 900 , ancora in ombra malgrado la prepotente personalità e il ruolo esercitato almeno nel nostro repertorio strumentale e nello sviluppo e nell'affermazione del pianoforte italiano.

Luca Marenzio nato a Coccaglio vicino Brescia nel 1553 , morto a Roma nel 1599, compositore musicale attivo a Roma, in Polonia e a Venezia fu tra i principali rappresentanti del ricercato madrigalismo tardo rinascimentale. Opera fondamentale è la pubblicazione di 18 libri di madrigali.

Giovanni Animuccia (Firenze 1514- Roma 1571) succedette a Palestrina come maestro della Cappella Giulia a Roma. Le sue Laudi Spirituali preannunciano la monodia accompagnata  e l’oratorio.

Cos’è la monodia accompagnata? So un cazzo! Aspetta che vedo d’informarmi.

Ok!  Pare si tratti del canto a una sola voce che fino al medioevo non prevedeva alcun tipo di accompagnamento strumentale . Pensa che rottura di palle.

Niccolò, o Nicola, Piccinni (Bari 1728 – Passy , Parigi 1800) acquistò fama ed onori nel 1760 con la Cecchina , ossia la Buona Figliola  , una sorta di telenovela musicale , dove le lacrime si sprecavano,  su libretto di Carlo Goldoni. Fu chiamato a Parigi nel 1776 per contrastare il successo di Gluck. Infaticabile compositore firmò la bellezza di 120 opere e varia musica sacra e strumentale .

Il Maestro Alessandro Vessella (Alife, Caserta 1860-Roma 1929) nei primi del ‘900 riformò la strumentazione della banda, mettendo la parola fine agli scheletrici accompagnamenti della vecchia forma dando ad ogni famiglia di strumenti dignità e nuovo vigore  espressivo. Dall’opera di questo caposcuola, la banda iniziò il suo sviluppo artistico.  Il repertorio bandistico di questo periodo consta in prevalenza di opere liriche, di musica sinfonica e da camera dei maggiori compositori, (trascritta per banda da vari direttori), nonché di brani e marce sinfoniche scritte esclusivamente per questo tipo di complesso.

E , dulcis in fundo,  arriviamo finalmente al misterioso maestro Gaetano Capocci. Il più difficile da trovare. Solo grazie ad un sito in lingua tedesca scovato su Google - figuratevi come valorizziamo i nostri artisti  - sono riuscito a pescare qualche notizia sul concertista che ha prestato il nome alla via diventata famosa per avermi dato i natali.

Compositore e professore d’orchestra , nato a Roma il 16 ottobre 1811 e morto  l’11 gennaio 1898, studiò l'organo sotto la guida di Sante Pascoli, organista della basilica di San Pietro e  terminò i suoi studi con Valentino Fioravanti e Francesco Cianciarelli. Nel 1831 gli fu assegnato un diploma come organista dall’accademia di santa Cecilia e, nel 1833, ottenne un diploma nell'arte di composizione. Di lì a poco , nel 1839, diventò l’organista della chiesa di Santa Maria Maggiore . Le sue capacità gli consentirono di essere nominato nel 1855 direttore di maestro nella Cappella del Laterano  dove lavorò per il resto della sua vita. A fottergli lo strumento e lo sgabello da sotto il culo il figlio Filippo che lo sostituì in Laterano .  Votato esclusivamente alla musica sacra , Capocci compose numerose messe. Scrisse inoltre  due oratorio, "Battista" e "Assalonne". Deve la sua fama al  Responsòrio scritto per la settimana santa.

Cos’è il responsòrio? Che razza d’ asini ! Avete presente il canto liturgico intonato dal celebrante con un versetto cui l’assemblea dei fedeli risponde in coro con un ritornello ? Bene. Quello è un responsòrio. Zucche vuote! La domenica, invece di andare a bighellonare , recarvi allo stadio o preparare i panini per la gita fuori porta , andate in chiesa !

Più banali e decisamente meno suggestivi i nomi assegnati alle vie e viuzze alle spalle di viale Libia che si inerpicano sinuose verso il monte delle Gioie fino a raggiungere  piazza Vescovìo e via Salaria . Sono tutte intitolate ai comuni Sabini , con l’eccezione di via di villa Chigi , che fiancheggia l’omonima villa,  e , curiosamente , di via Valnerina . Il motivo per cui questa valle , una delle zone più verdi d’Italia ai confini tra Umbria, Marche e Lazio, sia finito tra i comuni reatini non so davvero spiegarvelo.

Mi sembra di tornare alle elementari per seguire  l’ora   più barbosa : quella di Geografia.  Siete venuti in classe? Non posso risparmiarvi la lezione . Quindi  zitti e braccia conserte.

Ecco un elenco , rigorosamente in ordine alfabetico, delle vie in questione :

via Amatrice, via Antrodoco, via Casperia, via Collalto Sabino – dove abita la mia sorellina con la sua allegra famigliola -  via Fara Sabina – ancora oggi area destinata al grande mercato all’aperto -  Largo Forano, via Frasso Sabino, via Magliano Sabina , via Montebuono, via Orvinio, via Poggio Catino, salita Poggio San Lorenzo, via Poggio Moiano, via Poggio Nativo, via Rocca Sinibalda, via Roccantica, via Scandriglia,  via Selci Sabino, via Stimigliano, via Torri in Sabina.

Spero di non aver abusato della vostra pazienza e di non averne dimenticata qualcuna. Se così fosse me ne scuso. Perché poi? Non vi ho mica obbligato a seguire le mie folli elucubrazioni da paranoico psicopatico. 

In quest’area , sottratta alla vista dal verde di villa Chigi e da eleganti palazzine , si trova la scuola elementare Contardo Ferrini dove  imparai a sedere composto e ad impugnare la prima penna.  A pochi passi i finestroni della scuola media statale  Federico Cesi che ha ormai ceduto le aule ad un istituto di ordine superiore , lì perfezionai i miei studi prima dell’impegnativo balzo verso il ginnasio. Entrambi gli edifici risalgono ai primi anni cinquanta.

Chi erano Contardo Ferrini e Federico Cesi ? Presto detto. Basterà digitare i loro nomi su Altavista.

Contardo Ferrini nacque a Milano il 4 Aprile 1859.  Si dedicò agli studi di Diritto nell'Ateneo di Pavia poi si trasferì a Berlino per perfezionare gli studi di Diritto Romano.  Tornato in patria, occupò la cattedra di Diritto Romano all'Università di Messina nel 1887, e all'Università di Modena nel 1890.  Ritornò a Pavia nel 1894 e vi insegnò risiedendo con i genitori a Milano fino alla morte avvenuta a Suna , in provincia di Novara , il 17 ottobre 1902.  Votatosi al celibato cristiano, a chi gli proponeva vantaggiose possibilità di matrimonio rispondeva: "lo ho sposato la scienza!" Contento lui.... All'impegno nella cattedra, il beato Ferrini unì una intensa produzione scientifica: a più di duecento ammontano infatti i suoi scritti che vanno dalle opere maggiori di edizione critica di preziosi testi giuridici, agli articoli per riviste specializzate, alla compilazione di voci per enciclopedie. 

Federico Cesi era invece il rampollo di una nobile famiglia romana . Nato a Roma nel 1585 manifestò giovanissimo un forte impegno per il rinnovamento della cultura tradizionale. Tale impegno si manifestò soprattutto nella fondazione e nel sostegno che prestò all'Accademia dei Lincei. Fu un grande amico di Galileo al quale prestò notevole sostegno, soprattutto nello scontro dello scienziato pisano con le autorità ecclesiastiche, facendo leva anche sulla sua posizione influente nel patriziato romano. Si dedicò con profitto a studi di botanica e naturalistici in genere. Notevole è anche un suo scritto sulla opportunità di procedere a una radicale riforma del sapere. La sua improvvisa morte portò alla dissoluzione dell'Accademia e lasciò Galileo Galilei solo di fronte alle sovrastanti forze dei suoi avversari. Si deve al Cesi la denominazione di telescopio per lo strumento messo a punto da Galileo. Più tardi (1624), Cesi approverà la denominazione di microscopio escogitata dal Faber per l'occhialino inventato da Galileo. Morirà ad Acquasparta, provincia di Terni, nel 1630.

Queste le scuole storiche del quartiere o almeno quelle che orbitano intorno al raggio d'azione della mia memoria , tuttavia , a rinfrancare lo spirito e ad allietare le ore di alunni e studenti dell’Africano , non ne mancano numerose altre di edificazione più recente.

L’ elementare Ugo Bartolomei di via Asmara ad esempio, che ospita anche l’istituto magistrale Giosuè Carducci . Poco più avanti , sulla stessa strada, la Massimo D’Azeglio dove i miei primi due eredi hanno conseguito la licenza media. Dello stesso grado d’istruzione la Terenzio Afro di via Mascagni . Recentemente intitolata al compianto maestro Giuseppe Sinopoli, oggi è gemellata con la Massimo D’Azeglio e genericamente  identificata con la via dove sorge  .  In via Tripoli l’asilo in cima ad una lunga salita dove , a turno, ho accompagnato prima Roberto poi  Gabriele , e accanto , a pochi passi, il liceo scientifico Avogadro di via Tigrè. All’interno di villa Chigi il nido di via Piccinni dove parcheggiavamo il piccolo Alessandro.  Al civico 43 di via Santa Maria Goretti si trova infine la scuola elementare e materna Ugo Bartolomei , succursale dell’ omonima sede di via Asmara . L’istituto, saltuariamente frequentato , chi prima chi dopo, chi più chi meno, dall’intera discendenza del sottoscritto, divide l’edificio con la Montessori di via Lago Tana.

Tutti noi conosciamo almeno il titolo di una poesia del Carducci ed il ruolo ricoperto nel risorgimento italiano dallo scrittore e uomo politico Massimo D’Azeglio, poco o nulla sappiamo invece su Terenzio Afro ed Ugo Bartolomei .

Sono qui apposta.

Publio Terenzio Afro , liberto nato tra il 190 e il 185 a.c. e affrancato dal senatore Terenzio Lucano, era un commediografo libico - da qui l’epiteto di Afro - che si ostinava a scrivere il latino non sapendo che pochi sarebbero stati al giorno d’oggi quelli in grado d’apprezzarlo. Miglior fortuna ebbe nei secoli passati quando la lingua latina la conoscevano in tanti. Fece infatti da modello alla commedia cinquecentesca ed ispirò autori del calibro di Molière e , più tardi, di Wilder. Se non sapete chi sono andatevi ad accattare un’enciclopedia. Non posso pensare a tutto io. Morì, perché prima o poi capita a tutti, nel 159 a.c.  

Ugo Bartolomei, sottotenente del 1° fanteria decorato al valor militare nella Grande Guerra . era nato a Roma nel 1899 , morì ad appena diciannove anni , nella battaglia della Conca di Alano nell’ottobre del 1918. Campò poco insomma e quel poco  - sprofondato in trincea a sentir fischiare pallottole e leggere testi scolastici -  male. Perché gli abbiano dedicato la scuola lo ignoro.

Ed ora qualche cenno sulle ville e sui giardini della zona.

Il parco Nemorense, prima meta, quando ero bambino, del sabato pomeriggio in compagnia di mamma e papà , rientrava nel programma di realizzazione delle nuove aree verdi promosso dal Governatorato di Roma negli anni venti . Ospitato nell’omonima via, un tempo conosciuto come Virgiliano , occupa un’area di poco più di tre ettari. Venne progettato dall’architetto Raffaele Vico nel 1924 ed inaugurato nel 1930.

Insieme ai miei fratelli correvo tra i tigli del viale principale e i salici del laghetto facendo disperare Fernandella terrorizzata dall’acqua e dalle pietre viscide e insidiose e Walteruccio , provetto fotografo, sempre in cerca della posa giusta per figli tanto irrequieti.

La Villa Chigi , in puro stile settecentesco, progettata dagli architetti Tommaso Bianche e Pietro Camporese il vecchio, non sono mai riuscita  a vederla , è sempre stata chiusa al pubblico.  Pare si trattasse di qualcosa di magnifico : decorazioni pittoriche, paesaggi mistici , pini querce secolari , giardini e viali curatissimi. Fu fatta costruire nel 1781 dal Cardinale Flavio Chigi che nel 1763 aveva acquistato una vigna presso il Monte delle Gioie ampliata poi con l’acquisto di un terreno adiacente .  Questa vigna , diventata col tempo un semplice prato  abbandonato all’incuria dei grandi , diventò il polmone verde della zona e il luogo preferito dai ragazzini del quartiere per pomiciare , giocare a pallone o provare la bici nuova.

In realtà a villa Chigi più che andarci ci venivamo , tra quell’erba   è infatti andata perduta gran parte di quella che oggi sarebbe la nuova generazione del quartiere.  Al principio si trattava per lo più di sporadiche iniziative personali, lavori individuali sulle ali della fantasia e della memoria, tutt’al più frutto di terapia di gruppo. Difficilmente trovavi qualche volenterosa  disposta a darti “una mano”.

Per quanto mi riguarda cominciai molto tardi, la prima , mi sembra, in seconda media , la seconda un nanosecondo più tardi . Da allora cominciò una lunga serie di sessioni molto dure . Almeno un paio al giorno come aveva prescritto il medico. Si dice che un eccesso nella pratica della masturbazione produca danni alla vista, deve esserci del vero considerato che gli ottici della zona hanno sempre fatto affari d’oro. 

Sempre meno frequentato da mamme e marmocchi e sempre più meta di tossici e cani randagi , il parco diventò , prima sede di un condominio e di un asilo nido, poi maleodorante vespasiano per cani e clochard . Solo adesso che devo traslocare – li mortacci loro – i tecnici del Comune hanno deciso  di avviare i lavori per il recupero dell’area e il restauro della Villa.  Per ora si sono però limitati a realizzare al suo interno monumentali scalinate marmoree - probabili foriere di degenti per il reparto ortopedia del vicino Sandro Pertini – che le conferiscono il solenne aspetto di una succursale del Verano .

Epigono della villa , separato da questa da una sottile lingua d’asfalto , la sua naturale estensione verso piazza Gondar , un fazzoletto di terra  e ghiaia dapprima umile campetto di calcio affidato alle cure della parrocchietta , in seguito passabile giardinetto pubblico per il diletto dei più piccoli e le adunate delle comitive di quartiere ed infine deprimente sede di lavori in corso per il prolungamento della linea B e per la costruzione di una serie di box seminterrati di cui si sentiva veramente la mancanza.

Se Parco Nemorense e Villa Chigi sono indissolubilmente legati ai ricordi dell’ infanzia, Villa Ada appartiene invece ad un periodo relativamente più recente della mia vita, quello del liceo e dell’università.  Disteso su quei prati erbosi , gremiti di mimose rosa,  i primi baci - Dio come sono languido! - lungo quei sentieri ombrosi popolati di agili scoiattoli la dura preparazione agli esami di Legge prima e a quelli di Lettere poi .  Dio come sono bugiardo!   

Di proprietà di un collegio irlandese il giardino spunta fin dal tardo ‘600 lungo la via Salaria, la strada che segue il tracciato della Salaria Nova costruita ai tempi dell’imperatore Nerva tra il 96 e il 99 d.c. , per accorciare il percorso dalle mura Aureliane all’antico Ponte Salario grazie al quale la strada supera l’Aniene.

Agli inizi del 1800 il principe Luigi Pallavicini  sistema una parte del giardino in stile inglese finché , nel 1872 , viene acquistata dal sovrano Vittorio Emanuele II , appassionato cacciatore, per adibirla a tenuta venatoria . E’ in questo periodo che vengono avviate le prime costruzioni di immobili tra cui la residenza reale e  una torre in stile neogotico.

Proprio di ritorno da una battuta, nel gennaio 1878, il re contrasse un forte raffreddore che , degenerato in polmonite, lo condusse alla morte il 9 dello stesso mese.  Subito dopo le esequie la villa viene ceduta al conte svizzero Telfner che la dedica alla moglie Ada, da cui il toponimo attuale. Solo nel 1904, riacquistata da Vittorio Emanuele III,  torna nuovamente ai Savoia, stavolta come residenza privata , e nel 1931 viene vincolata a parco privato.  In quella che torna ad essere chiamata Villa Savoia , il 25 luglio 1943 , Benito Mussolini viene ricevuto dal re e arrestato dopo il siluramento della notte precedente da parte del Gran Consiglio del Fascismo . Nel 1951 il Comune di Roma avvia le pratiche per l’esproprio di questa grande villa alla confluenza tra il Tevere e l’Aniene  per farne dono alla cittadinanza , ma la famiglia reale , già defenestrata qualche anno prima dal Quirinale , se la prende a male e inizia una lunga vertenza che si protrae per qualche anno concludendosi infine con la salomonica divisione dei 1800 ettari tra Comune ed ex sovrani . L’Egitto ottiene in concessione l’edificio principale per farne la sua ambasciata nella capitale . Nel 1987 i Savoia  vendono la loro parte ai privati.   

Solo nel 1976 è stata invece incamerata dal Comune Villa Leopardi Dittaiuti , situata tra la via Nomentana e via Asmara , per riservarne una parte  al comando dei pizzardoni del secondo Municipio e un’altra a centro culturale e  biblioteca comunale .  L’area, caratterizzata nell’antichità dalla presenza del percorso dell’Acquedotto Vergine, e nel sottosuolo da antiche catacombe , nel 1989,  dopo la costruzione di una moderna recinzione , è stata  finalmente aperta al popolino. I membri della famiglia Leopardi Dittaiuti, un ramo della famiglia Leopardi di Recanati, acquistarono la vigna allora esistente intorno al 1886 per costruirvi una casa e un capannone dormitorio. Solo nel 1905 fecero edificare uno stabile residenziale al quale aggiunsero nel 1913 una scuderia.

La Villa ,  più che alla mia,  appartiene alla memoria dei miei primi due figli che la frequentarono assiduamente durante gli anni dell’adolescenza  per rincorrersi, dare due calci a una palla e conoscere i primi amici . Quando è stata consegnata alla popolazione ero ormai adulto e quella  macchia scura di fronte a via Makalè , che s’intravedeva attraverso i cristalli schermati dal respiro e da vecchi giornali, si è limitata a fare da testimone ai primi, contorti incontri amorosi verificatisi nell’angusto abitacolo del cinquino rosso con quella che sarebbe diventata qualche anno dopo la signora Tiddi . You remember? Ve ne ho già parlato.      

Visto che ci abito da ormai quasi un decennio mi sembra doveroso spendere due parole su viale Libia, vera arteria commerciale del quartiere.

Infarcita di negozi e locali d’ogni tipo tenta di  ravvivare , ma temo ci riuscirà ancora per poco , un quartiere dove la popolazione diminuisce ed invecchia , i nuclei familiari mutano e si scompongono trasformandosi in famiglie allargate, ricomposte e miste , e i singles diventano la tipologia più diffusa. La maggiore provvisorietà occupazionale causa la lunga permanenza dei giovani nella casa d’origine e tutto questo porta inevitabilmente al declino dell’antica famiglia patriarcale.  E’ un mondo alla rovescia dove i figli fanno da genitori ai loro vecchi malandati in cambio di vitto e alloggio. Un impoverimento progressivo che porterà inevitabilmente al collasso del sistema. Per fortuna a rinfoltire le scuole e dare nuova linfa alla zona gli immigrati del sud del mondo, senza il cui prezioso aiuto ci troveremmo oggi senza un minimo di assistenza per gli anziani.

Fino alla rivoluzione d’inizio millennio il viale era percorribile sia con i mezzi pubblici che con le automobili, ma da quando Francesco Rutelli , il predecessore dell’attuale sindaco Walter Veltroni , decise di farne una sorta di museo all’aperto , chiudendolo al traffico e assegnandogli la palma di strada verde , ha perso gran parte della sua vivacità .

Ho già ricordato i vecchi esercizi commerciali che hanno pian piano chiuso i battenti in quest’ angolo della valle dell’Aniene , che io rammenti sono rimasti aperti soltanto la Upim sotto casa , la discoteca Marcotti e l’ottica Berruti . Forse qualche altro ma al momento non mi sovviene.

Tra qualche decennio, considerati i tempi biblici dell’amministrazione capitolina, dovrebbe arrivare in zona la metropolitana e chi sarà tanto fortunato da essere ancora qui quando questo accadrà potrà forse avvertirne i benefici.

In viale Libia  il terreno era tutta una groviera , c’erano solo grosse pietre e prati pieni di buche che dopo il secondo conflitto mondiale furono riempite perché i palazzinari ci potessero costruire sopra .  A partire da piazza Santa Emerenziana il cemento  ricoprì rapidamente l’intera area fino a raggiungere l’attuale piazza Gondar. Tutti i palazzi  del viale , salvo qualche eccezione , risalgono infatti  al decennio che va dal 1945 al 1955  . Anche il civico che mi dà temporaneo alloggio – si fa per dire visto che tra qualche mese ricorrerà il decennale - fu costruito attorno al ’56  e nel 1957, mentre io aprivo gli occhietti da talpa al mondo , accoglieva , in un appartamentino al quarto piano della scala B,  la vedova di Benito Mussolini.  La chicca l’ho pescata all’interno di un sito che elencava congiunti , amici e simpatizzanti presenti alla traslazione della salma del Duce al cimitero  di Predappio avvenuta in quell’anno. Tra loro c’era ovviamente laSignora Guidi Rachele vedova Mussolini di anni 65 da Predappio Alta, domiciliata a Roma Viale Libia 189”. Ho chiesto al portiere . Mi ha raccontato che fino a qualche anno fa Romano , il figlio minore dei coniugi Mussolini , ancora capitava in portineria di tanto in tanto per ritirare la posta della madre scomparsa nel lontano 1979.

La zona era ancora mal collegata al centro . Nel 1925 , mentre sulle vetture appare la vernice verde ministeriale, l’ATM istalla il binario da piazza Buenos Ayres fino a piazza Verbano attivando , il 3 dicembre , la linea 43. In vista del traffico merci per il trasporto dei materiali da costruzione per le case INCIS da edificare nel quartiere Salario, sono costruiti due tronchi di sosta che dall'anello di piazza Verbano terminano nella adiacente via Volsinio. Sulla  linea si ha anche, probabilmente fin dall'inizio, il servizio di trasporto ortaggi al mercato rionale di via Chiana che durerà fino al 1936 . Nel 1933 la linea 5 prolunga la corsa a piazza Crati. Fino al 1937 la linea del filobus 7 , che partiva da via XX settembre all’altezza del ministero delle finanze , raggiungeva piazza Bologna e percorreva via XXI aprile e via Nomentana per poi spingersi fino a Montesacro , lambiva soltanto l’ Africano  limitando la fermata a Sant’Agnese.  Nel 1938 le linee tramviarie 5 e 5 barrato sono sostituite dal filobus 105, prolungato, rispetto al percorso del tram, dapprima a piazza Acilia e poco dopo a piazza Vescovìo . Nel 1944 per sostituire il 106 inattivo per mancanza di gomme l’Atag costruisce un breve tratto di rotaie che collega viale XXI aprile con piazza Istria passando per via di Santa Costanza. Finalmente , nel 1951, la linea 7 è prolungata fino a piazza Istria . Solo nel 1959 la linea del ”58”  viene prolungata fino a piazza Gondar , allora era un filobus , sarà trasformato in autobus nel  1963 . Nel 1966 spariscono le rotaie e  i tram dal quartiere Trieste . All’alba del 2005 stanno ricomparendo sulla via Nomentana .

Nel giugno del 1967  lo scoppio del conflitto tra Israele ed Egitto che sconvolse anche Tripoli  spinse la comunità ebrea della città libica a chiudersi in casa o a rifugiarsi nei campi di raccolta, ma , considerato il sovraffollamento , alcuni decisero di emigrare in attesa di poter tornare a Tripoli . Gran parte della comunità tripolina partita per Roma  si sistemò proprio in viale Libia e qui , dedicandosi principalmente al commercio di abbigliamento e calzature , tra il ’73 e il ’74 rinunciò per sempre all’idea di rientrare nella capitale libica o partire per Israele e finì definitivamente per stabilirsi. 

Il proseguimento di viale Libia è viale Eritrea . Anche qui i palazzi hanno linee moderne ed essenziali, niente a che vedere con l’edilizia fatta di palazzine signorili immerse nel verde di Corso Trieste del quale , attraverso la tecnica dei saldamenti quartiere con quartiere attuata tra il 1942 e il 1960 per completare i vuoti urbani , viale Eritrea era il naturale prolungamento .

Si trattava di un’edilizia a carattere intensivo, la residenza era mescolata ai servizi, al commercio e alla direzionalità cercando di rigenerare la periferia con la creazione di una nuova centralità. 

Poco lontano , in piazza Trasimeno , il salotto buono della zona , c’è il Liceo Ginnasio Giulio Cesare dove per un intero lustro ho studiato i classici e sudato sette camice per ritrovarmi con un diploma da appendere alla parete dello studio o da eclissare all’interno di un logoro incartamento strapieno di cartacce e ricordi.

L’istituto venne inaugurato il 1° ottobre 1933 con il nome di Regio Liceo Ginnasio Giulio Cesare , la sede centrale si  trovava però in piazza Indipendenza mentre una succursale era ospitata in un palazzo ottocentesco di via Cernaia .

Gli studenti che all’inizio erano poco più di un migliaio si fecero sempre più numerosi creando così non poche difficoltà al primo preside prof. Guido Rispoli. A conclusione di  una fitta corrispondenza intercorsa tra quest’ultimo e i Governatori di Roma,  Boncompagni Ludovisi prima e Giuseppe Bottai poi , il 28 ottobre 1936,  con una solenne cerimonia svoltasi nel cortile dove svetta la statua di Caio Giulio Cesare,  Benito Mussolini assegnò finalmente all’istituto l’attuale moderna sede piantonata  da due eleganti palazzine d’epoca  progettate da Piero Aschieri, la prima in piazza Trento , la seconda al numero 6 di piazza Trasimeno.  Il dittatore non dimenticò inoltre di riservare un locale della nuova scuola alla “casermetta” dell’ Opera Nazionale Balilla. 

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 l’istituto venne occupato prima da un reparto della divisione Piave , quindi dai tedeschi, solo nel 1946 fu possibile riprendere l’attività scolastica.

Nel 1971 approdai sui banchi dell’ampia e luminosa aula riservata al IV° ginnasio della sezione C, nel 1976, dopo aver attraversato l’intero corridoio,  ne uscii con le ossa rotte e il collo indolenzito, erano gli anni di piombo , dei collettivi e delle scaramucce tra rossi e fasci. Ne ho già ampiamente scritto diverse pagine indietro. Sfogliare per credere.

Per finire un ultimo accenno ai cinema della zona oggi scomparsi o tutt’ al più sostituiti da teatri per pochi eletti o sale Bingo per massaie frustrate.

Quando ero ragazzo esisteva la prima e la seconda visione , c'erano poi le sale parrocchiali.

Abbiamo già ricordato il Triomphe , il lussuoso cinema di piazza Annibaliano. Proseguendo su viale Eritrea dopo aver attraversato la strada, seminascosto all’angolo tra via della Marta e via Massaciuccoli sonnecchiava l’Alcione , oggi multi sala Lux, poco più avanti , su via Lucrino,  l’ingresso dell’Eritrea  , la sala parrocchiale della chiesa di Santa Emerenziana. Superando la piazza e giungendo sul viale Libia , più o meno alla metà di questo , trovavi il Mondial , attualmente c’è la Benetton, accanto è rimasto il bar un tempo collegato alla sala. Portandosi sull’altro lato e voltando su via Lago Tana si prosegue verso la parrocchia di Santa Maria Goretti e sulla facciata prospiciente via Tripolitania si scendono delle ripide scalette che un tempo erano gremite di ragazzini scalmanati pronti a sciamare all’interno della sala parrocchiale Libia non appena il sacrestano avesse aperto il portoncino d’ingresso.

Ci sono tornato qualche anno fa , per assistere ad  un’animata  assemblea degli abitanti e dei commercianti del quartiere che cercava vanamente di resistere alla prepotenza della giunta Rutelli fermamente intenzionata a desertificare la zona aggiungendo all’adozione delle famigerate strisce blu la chiusura al traffico dell’asse viale Libia – viale Eritrea . L’hanno fatto . Senza problemi. Mentre i residenti si limitavano a strillare o a nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi, gli ex sessantottini voltagabbana  riuscivano in pochi anni a far chiudere decine di piccoli esercizi commerciali per lasciare spazio agli squali del credito e della grande distribuzione. Inutile stare a rivangare vecchie storie , ho sprecato abbastanza inchiostro sull’argomento appena qualche paragrafo più indietro. 

Bando alla malinconia e proseguiamo la nostra passeggiata.

Da via Tripolitania , voltando su via dei Galla e Sidama ,  sul lato destro , prima di raggiungere la sedia del Diavolo, si può ancora notare un grande locale ormai abbandonato con un‘ inferriata bianco ghiaccio serrata da un robusto lucchetto .  Ospitava il cinema Africa , una seconda visione frequentata dalle coppiette in cerca di un po’ intimità per dare libero sfogo alle tempeste ormonali in corso , stanche di prendersi i reumatismi a villa Chigi. Negli anni novanta, prima della definitiva chiusura, hanno tentato di riaprire la sala elevandola al grado di prima visione . Vanamente, ha resistito qualche anno , poi anche l’Africano ha ceduto le botteghe dei vecchi artigiani ai video noleggio a conduzione familiare e le ampie vetrine delle boutiques più chic ai Blockbuster .

Per raggiungere gli altri due cinema della zona dovevi sorbirti un bel po’ di strada a piedi . Dopo aver percorso per intero il viale Etiopia e il viale Somalia , superavi via Maestro Gaetano Capocci e incontravi il Ritz , oggi sala Bingo.  Era la prima visione del quartiere , quella dove potevi portare una volta ogni tanto , dando fondo all’intera paghetta settimanale , la moretta di turno per fare bella figura  e vedere se riuscivi a strapparle un appuntamento galante. La qualità del film in programmazione era del tutto irrilevante , con la complicità del buio appena rischiarato da un cono di luce proveniente dalla fessura oltre la quale era sistemato l’obiettivo del proiettore , sprofondati in ultima fila nelle morbide poltroncine di velluto rosso,  si limonava furiosamente scuotendo dal torpore il fratellino preferito troppo spesso giù di corda. Alla fine dell’accoppiamento , al posto della sigaretta , panna e cioccolato succhiati via da un gustoso Cornetto Algida miracolosamente scampato alla falcidia del costo del biglietto.

Il civico 10 di via Ruggero Leoncavallo  accoglieva infine il Boito un cinemino a buon mercato per ragazzini squattrinati . Prima di trasformarlo in teatro , l’attuale Greco, hanno tentato di farne un cinema d’essai , l’estrema ratio in uso alla fine degli anni settanta per cercare di salvare le sale cinematografiche in fase terminale . I miei più affezionati lettori ricorderanno quanto ho già scritto su questa scalcinata seconda visione con lo schermo ridotto, gli altoparlanti come casse e i sedili in legno. Chi non è assistito da buona memoria torni a sfogliare la prima parte di questo Diario o resti con la curiosità. Che volete che vi dica?

L’ Africano, un tempo di periferia oggi di levatura medio borghese, non avrà l’inconfondibile stile architettonico del Coppedè ma è il mio quartiere,   spero di restare, se questo non dovesse accadere anche stavolta saprò chi ringraziare.