Libri
del Mese
Miguel Benasayag - Gérard Schmit L'epoca delle passioni tristi Il
libro del mese - Novembre-dicembre 2004 - Adam Vaccaro Uno
dei libri che ultimamente mi hanno più coinvolto e stimolato riflessioni,
sia sulla fase storicosociale attuale, sia sul fare poesia oggi, non è di
poesia.
È intitolato L'epoca delle passioni tristi, è di due psichiatri
francesi (Miguel Benasayag e Gerard Schmit), ed è stato pubblicato da
qualche mese da Feltrinelli1. Una delle idee portanti di questo
libro è il rilievo che l’orizzonte temporale e sociale di questi ultimi
decenni da futuro-promessa si è trasformato sempre più in futuro-minaccia. Sembra
una banalità scontata ed evidente, eppure è uno dei mutamenti epocali, di cui la nostra cultura pare non
abbia colto minimamente il segno e la gravità: ogni “visione
ottimistica è crollata. Dio è davvero morto e i suoi eredi (scienza,
utopia e rivoluzione) hanno mancato la promessa. Inquinamenti di ogni
tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove
malattie, esplosione di violenza, forme di intolleranza, radicamento di
egoismi, pratica abituale della guerra hanno fatto precipitare il futuro
dall’estrema positività della tradizione giudaico-cristiana
all’estrema negatività”, dice in un suo commento al libro Umberto
Galimberti (La Repubblica del 7/8/04). L’attuale
contesto storicoculturale, dai caratteri tragici e grotteschi al tempo
stesso della fase globalizzata dell’estremo sviluppo capitalistico, è
dominata da un potere e un pensiero unico – fondati sull’utile
economico – rispetto ai quali ogni ipotesi elaborata dal pensiero
sistematico occidentale, religioso o laico che sia, appare collassata e
incapace di costruire alternative. La stessa scienza produce continue e
contraddittorie proliferazioni teoriche, di cui resta il trionfo
tecnologico, crono contemporaneo che mangia se stesso e noi in una
incessante e (spesso) insensata frenesia innovatrice. L’incapacità della cultura occidentale di produrre una critica reale
alle dinamiche in atto, non fanno che renderle ancora più angoscianti e
minacciose, considerati i crescenti disegni e stati di guerra senza fine,
la sempre più folle e squilibrata distribuzione della ricchezza tra i
popoli della Terra, le derive apocalittiche annunciate da crepe e disastri
nell’equilibrio ambientale. In
relazione a tutto questo “la nostra società ha prodotto una specie di
ideologia della crisi, un’ideologia dell’emergenza”, che “si è
insinuata a ogni livello, dallo spazio pubblico alle sfere più intime e
private…Questa ideologia di ripiego, però, non è una ‘narrazione’
o una cosmogonia completa…, ma si rivela un ‘patch-work’, una sorta
di stampella che consente di fare ‘come se le cose funzionassero ancora
nonostante la crisi.” E “tra gli ‘ideali patchwork’ che si
sostituiscono alle speranze della modernità e che si sforzano di
nascondere la crisi”, c’è in primo luogo la rimozione di questo
“passaggio dal desiderio alla minaccia”.
Stampelle
o toppe di vario tipo sono di volta in volta proposte da politici,
ambienti scientifici, vari gruppi di base, che tra denunce fondate o
pretese risibili provano a riprendere in mano la coperta a brandelli della
storia contemporanea. Purtroppo prevalgono tendenze disgreganti e
differenzialismi, di parti che pretendono di incarnare il tutto. La
capacità di considerare il molteplice senza subordinarlo agli interessi o
alla visione di una parte, resta utopica. Per cui è facile la ricaduta in
derive ideologiche violente o inconsistenti. Appare
un ribollio che non riduce perdita di senso e paure, che tendono a
produrre in tutti i soggetti – compresi quelli che si occupano di
cultura e di scrittura poetica in particolare – spinte regressive
autocentrante, in cui la pulsione epistemofilica, anziché sviluppare
desiderio di conoscenza del mondo esterno (quella che Freud chiama libido
oggettuale), tende a regredire verso una libido narcisistica. I
corollari sono logiche individualistiche, con chiusure, supponenze, spinte
contraddittorie tra frustrazioni e deliri di onnipotenza, che tendono a
occupare il posto lasciato vuoto da Dio, ma non cancellano quel dolore di
fondo, come dice Duchamp, “degli uomini quando non si sentono adeguati o non vedono concrete
corrispondenze con i propri sogni”. Tutto tende a regredire verso
una cultura (che è sottocultura) della sopravvivenza, con relazioni
basate sullo scontro di tutti contro tutti, anziché sull'incontro,
nonostante i diluvi di discorsi sull'ascolto. Ma il libro non si limita a fare un catalogo apocalittico dei circoli viziosi che le “cose della logica” dominante inducono nella “logica delle cose”. Gli autori commentano a tale proposito che “bisognerebbe forse ricordare il consiglio Karl Marx” (p.72) di non confondere le prime con la seconda. E passa credo da tale lucida distinzione la ricerca di ipotesi di prassi alternative, per resistere alla “tentazione” di “farsi sedurre dal canto delle sirene della disperazione, assaporare l’attesa del peggio, lasciarsi avvolgere dalla notte apocalittica” (p.127). Di qui le proposte, non tanto di soluzioni (che sarebbe risibile), di direzioni verso cui procedere, indicazioni pratiche più che teoriche, a livello singolo e collettivo – dalle prassi cliniche alla rete delle relazioni personali. Che si tratti di sintomi di disagi ordinari relativi al cibo o al sesso (anoressie, depressioni, impotenze), o patologie più o meno gravi (con tendenze autodistruttive, ossessioni paranoiche, stati schizoidi), “la nostra preoccupazione principale non sarà quella di eliminare al più presto i sintomi, ma di tentare piuttosto di comprenderne il senso all’interno della molteplicità della persona”, del posto che in essa “vi occupa il sintomo” (pp.82-83) Gli
autori sono psichiatri, che però non puntano a scorciatoie in pillole,
della felicità (Valium) o dell’ubbidienza (Ritalin) per normalilizzare
o ridurre il disturbo, prima di tutto alla macchina
economico-sociale. La scelta di “passare attraverso il riconoscimento
della molteplicità della persona”
implica muoversi verso una clinica del legame, nella
convinzione che “lo schiavo è colui che non ha legami”, che non ha un
suo posto, che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L’uomo
libero è invece colui che ha molti legami…verso la città e verso il
luogo in cui vive”. (p.101) Molteplicità
e legame implicano un concetto di libertà e autonomia della persona,
opposto a quello fondato “sul dominio”, per il quale “libero è
colui che domina”. Non possono che derivarne solitudini armate,
paure, tristezze e deliri di onnipotenza. La direzione opposta sta in
relazioni che rifondino il senso di una comunità, in cui il rispetto e
l’ascolto siano reali e non solo declamati o strumentali alla propria
affermazione individualistica. Sono tali relazioni che resistono alle
prevalenti tendenze disgreganti, generando pratiche gioiose e rinnovata
energia umana. È
nelle relazioni capaci di tale ri-creazione che sentiamo (prima di ogni
razionalizzazione) la profonda congiunzione di gioia e fragilità con
senso etico, del limite e del sacro, nodi fondati sui nostri limiti, in
primo luogo sul non sapere “mai di cosa è capace un corpo”, come
diceva Spinoza. L’ammissione di “non-sapere” è umus di terreno di
ricerca, bisogno di “tempo condiviso…nel quale tutti dipendiamo dagli
altri”; che “non è una condanna né un limite”, ma “la
base…delle passioni gioiose” (come diceva ancora Spinoza) e
dello sviluppo delle “mille e una potenzialità di ognuno di noi”
(pp.116-117). Non si tratta dunque di concettualizzare un atteggiamento politically
correct o buonista, ma di fare pratiche opposte a quelle derivanti
dall’ideologia imperante dell’utilitarismo e del successo, per la
quale ”la sola cosa sacra è la merce” (p.97). 1
Traduzione dal francese di Eleonora Missana - Titolo dell’opera in
originale Le passion tristes,souffranse psychique et crise sociale.
Èditions La Découverte, Paris 2003 Qualche estensione al fare poetico Se
collochiamo in tale acme storicoculturale anche il fare poetico, si
possono capire meglio alcuni suoi aspetti e limiti, e forse aiutare a
ripensarli e superarli. È utile ricordare che il fare poetico in
origine è congiungere, in primo luogo suono ritmi immagini senso. Il
poeta era colui che dava il nome alle cose, soggetto sociale che riduceva
le distanze tra cose e segni, facendo di essi materia di conoscenza della
realtà e legami tra i componenti di una comunità. Un fare, dunque,
tutt’altro che intimistico e teso ad appagarsi di sé, o di una catarsi
che lascia le cose come sono; che pone il problema della comunità, della
sua qualità, del desiderio di vita e di un futuro meno minaccioso. Gli
sviluppi della struttura del potere e della filosofia rivendicarono la
Verità e del poeta venne fatto un emarginato, un cieco e un folle, un
idiota con senso spregiativo, dimenticando che tale termine ha la stessa
radice di idioma, acqua che lega i soggetti di una comunità e che può
sprigionare la sua energia creativa se ci si immerge in essa con
l’atteggiamento (ecco il poiein) di chi sa che non può avere una
verità costruita a priori. Che, per questo pone domande (più che dare
risposte) e cerca relazioni disarmate, di conoscenza e d’amore,
di prassi gioiosa fuori da ogni logica utilitaria o di potere. La
situazione prevalente, da un lato è frontalmente opposta a tali pretese,
tanto da farle facilmente apparire ingenue, ridicole o fuori dalla realtà;
dall’altro è arrivata a soglie talmente gravi che spiega forse il
notevole aumento nell’ultimo decennio di scriventi poesia – un mare
affollato quanto frammentato e spesso rissoso al proprio interno. È un
intreccio di necessità contrapposte, in cui anche il fare poetico è
spinto in circoli viziosi di logiche autocentrate, di supponenze
ossessionate di sé e della propria visibilità, di circuiti che tendono a
essere autoreferenziali, perché senza una crescita di lettori, chi scrive
è portato ad appagarsi di referenti che sono sostanzialmente altri
scriventi. Lo scambio con l’altro da sé c’è poco, e questo riduce o
finisce per porre su un piano secondario la possibilità di dire il nuovo
che attende di essere messo in comune, da voci capaci di parlare a
scriventi e non scriventi. Per
dire la verità di questo nuovo non basta evidentemente agire sulla
pagina. Questa mette in comune quanto più fa sentire il grido della
mancanza o il respiro di ripresa della nostra globalità, degli attimi
orgasmatici di rinascita, che le relazioni gioiose ci regalano. La loro
memoria ed esperienza sono fonte di poesia-di-carne, che spinge a
inventare parole di un grido che non potrà mai essere tra-dotto senza
essere tradito. È
il nodo del rapporto verità-finzione della poesia, la quale più che
verità stabile o (ricordando Rimbaud) illuminazione di luoghi del
mondo, è testimonianza di un mondo che “rende percepibile
l’irrappresentabile”2, quale è la nostra totalità. È
questo l’indicibile e la verità inseguiti, la realtà che non può
essere rappresentata, ma che chiede di essere. In una forma che
implica qualità non esauribili e definibili solo da un punto vista
letterario. Detto in altri termini, la crisi che viviamo dona a chi la sa
cogliere, la necessità di coinvolgere altre discipline e, pur in modi
nuovi, la responsabilità etico-civile del gesto di scrivere. 2C.
Viviani, Pensieri di poetica, in “Gradiva”, Nr 25,
Spring 2004.
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