Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza
Nella storia dell’uomo è facilmente riscontrabile il tentativo costante di
comprendere la fine, così come il desiderio di raggiungere un fine o un
obiettivo.
Infatti nelle opere di grandi artisti o nelle leggi scientifiche si ritrova
evidentemente l’abitudine di concentrarsi sul concetto di “fine”.
Alla cultura antica ad esempio era caro uno schema di pensiero detto “teoria
ciclica” o “dell’eterno ritorno” secondo cui qualsiasi cosa ha un proprio
inizio, uno sviluppo e sempre ed inevitabilmente una fine.
Questo
modo di pensare, riconducibile al mondo greco, ebbe anche successivamente
importanti sostenitori quali l’italiano Giambatttista Vico o l’illuminista
francese Voltaire, entrambi vissuti nel Settecento.
Anche in ambito biologico
esiste una teoria molto simile a quella ciclica, infatti si dice che un
qualunque organismo che nasce e cresce debba poi sicuramente decadere e dunque
morire. Allo stesso modo in epoca medievale l’uomo ha prestato attenzione alla
ricerca della fine.
In particolare, una forte spiritualità ha motivato la ricerca di un destino
finale.
Ciò è riscontrabile soprattutto in opere artistiche quali “il ritratto del
Cristo di Spoleto” o “il Cristo ligneo” di Cimabue, che vanno interpretate in
chiave escatologica, cioè legate ad un fine ultimo.
Diversamente dai casi già citati, in ambito letterario gli scrittori compongono
solitamente le loro opere non concentrandosi sulla fine ma piuttosto su un
obiettivo preciso e dunque su un fine.
Esso può variare e ne esistono diversi come ad esempio quello didascalico,
ossia di insegnare. Manzoni è un classico esempio di autore che scrive con un
intento, poiché compone la sua opera “Promessi sposi” con obiettivi ben
specifici.
Egli inoltre non si limita ad un unico scopo, ma dal suo romanzo emergono molti
fini: infatti oltre a quello edonistico, ossia di dilettare l’interlocutore, è
presente nell’ opera quello di denunciare l’apparato giuridico e legislativo
seicentesco.
Manzoni inoltre mira alla fruizione di nozioni intrinseche allo svolgimento del
racconto; lega, quindi, al fine edonistico il fine didascalico menzionato in
precedenza.
Dunque come si è detto non compone in modo disattento, ma si prefigge anzi una
o più idee che cerca di trasmettere con il proprio romanzo.
In poesia, invece, famosi poeti si concentrano essenzialmente sul termine della
vita e dai loro versi si desume evidentemente l’importanza che danno alla
caducità dell’esistenza.
Petrarca ad esempio scrive sonetti e canzoni sull’amore, con il quale cerca di
alleviare lievemente la sua preoccupazione costante,
Egli però è assillato da un profondo senso di inquietudine e lo
testimonia quando, ormai giunto verso la fine della vita, analizza quel senso
della caducità che lo accompagna e ne indica le origini in una lunghissima
lettera all’amico di giovinezza Filippo di Cabassole.
Una svolta sostanziale, in
contrasto con le mentalità presentate, si ha invece quando l’uomo, non
riuscendo a raggiungere il proprio obiettivo di trovare e comprendere la fine,
ha pensato di affermare un altro concetto ben diverso: “l’infinito”, ciò che
non ha una fine.
La percezione dell’infinito comunque è prettamente teorica, non esistente nella
realtà; è legata all’algebra e alla geometria oppure a grandezze non misurabili
come l’universo che si ritiene sia in continua espansione.
Insomma, nel corso della storia furono molti gli eruditi pensatori o
letterari che esplicitarono un’accezione del termine “fine”, ma nessuna di esse
è universale, comune ad ogni linea di pensiero.
Quindi ne consegue che questa parola da sola non significa alcunché ma assume
una determinata connotazione a seconda del contesto storico, dell’ambito
letterario o dell’argomento in cui essa è celata.