TI OFFRO UN CAFFE’

– Guarda, mi trovo proprio bene. Il capo ideale.
– Davvero? Dicono sia un – come dire – figliodiputtana.
– Ma va! Gentile, disponibile, sempre presente.
– Ma chi? Galloni? Girano voci… pare che lavorarci sia un inferno.
– Solo invidia.
– Ma tu il colloquio l’hai fatto con lui?
– Sì, certo. Troppo simpatico. Mi ha detto che io ero la benvenuta, ma avrebbe dovuto fare un ulteriore colloquio alle mie tette.
– Per stemperare la tensione.
– Assolutamente. E’ un signore, lui.

C’E’ SEMPRE UN’ALTERNATIVA

Sto mettendo in ordine la documentazione relativa al contratto firmato settimana scorsa, in data 24 maggio 2007. Contratto, allegati, certificati, ecc. Mi ha dato da penare, quest’operazione, problematica, complessa, guasta fin dall’inizio. Soprattutto a causa della stupida arroganza dei clienti. E’ finita, comunque, e non è il caso di intrattenersi con tristi ricordi. Chiusa, archiviata, accantonata.

Sono queste le riflessioni con cui mi trastullo quando mi cade l’occhio sopra l’attestato con cui il cliente dà conto dell’avvenuto pagamento di quanto dovuto in forza del sopramenzionato contratto firmato in data 22 maggio 2007.

Una sottile e gelida serpentina mi risale dal fondo della schiena fin dietro l’orecchio destro, fermandosi a un centimetro dal lobo, dove sento come un affilatissimo spillo incunearsi sotto pelle. Rileggo. Documento, non mentire. Sappiamo entrambi che il contratto è stato firmato in data 24 maggio 2007, non 22 maggio 2007. Era giovedì, non mi posso sbagliare, ricordo che ho passato il giorno ripetendomi “Tieni duro, poi domani è venerdì”. Ricordo che anche il mio compagno di stanza, vedendomi sudare nell’organizzazione del closing a un certo punto ha cercato di incoraggiarmi dicendo “Tieni duro, poi domani è venerdì”. Ho sentito anche Quello Nuovo, al telefono probabilmente con la madre, dire “Tengo duro, poi domani è venerdì”.

Era giovedì sicuramente. Riprendo il contratto e verifico: 24 maggio. Attestato: 22 maggio. Contratto: 24 maggio. Attestato: 22 maggio. Contratto: 24 maggio. Attestato: 22 maggio. Potrei andare avanti ore a muovere la testa come a seguire questo lugubre incontro tennistico tra i documenti, anche solo per posticipare il momento in cui dovrò ammettere a me stesso: c’è un errore. Finché prendo atto che quel momento è giunto ed elaboro la frase, assaporandone ogni amara parola: c’è… un… errore.

Come può essere successo? Ripercorro le fasi che hanno portato alla firma e mi torna alla mente la frase che mi fu rivolta: “Me ne sbatto le palle che è tutto pronto, firmiamo giovedì, ho già parlato io con Howles e dice che a loro va bene”. E’ evidente che ho modificato la data del contratto ma ho dimenticato il documento connesso. Il pensiero immediatamente successivo è: a chi posso dare la colpa? “A nessuno” mi rispondo quasi ipnotizzato “sei tu ad averlo scritto”. E, materno, aggiungo “ma non è poi così grave, dai, è solo una data sbagliata”.

Non serve. Anni di trattamento psicologico finalizzato all’induzione del terrore e della sfiducia hanno già messo in moto la mia mente creativa. Vedo il volto grave del capo, silenzioso, contrito, osservare il documento, alzarsi, girarsi a guardare di là della finestra verso un orizzonte che solo lui può vedere. Torna alla scrivania. “Ora chiami Borghini e gli spieghi la situazione”. Borghini è a capo dell’ufficio legale di […] S.p.A., è quello che se ne sbatte le palle, quello che firma giovedì, quello che ha già parlato con Howles. Borghini dice sempre “è allucinante”. Borghini è un pezzo di merda.

Chiamarlo mi permetterebbe di risolvere il problema e conservare intatti gli interessi del cliente. Ma significherebbe anche una lavata di capo di cui ora come ora non ho voglia. Ci deve essere un’altra soluzione. Posso tacere, nessuno se ne accorgerebbe e se un giorno l’errore verrà alla luce, probabilmente sarà solo oggetto di un buffetto paternalistico da parte del capo. Ancora una volta però, la mia mente creativa mi propone uno scenario di contenziosi milionari, arbitrati, clienti imbufaliti, Borghini indemoniato. “Ma come è possibile? Solo oggi ci si accorge di questo errore? Ma – sorry se lo dico – e che cazzo. Che razza di avvocati siete? E’ allucinante”.

Mi basta. Immaginarlo dire “è allucinante” mi guida verso la soluzione ai miei dubbi. Prendo l’attestato, lo inserisco in una cartellina trasparente e chiamo Valentina, la mia segretaria. “Valentina, metti tutto in un faldone e archivialo. Grazie”. Che buffo. Per un attimo avevo pensato di tutelare gli interessi del cliente.

CONTO SU DI VOI

C’è una cosa che va tenuta in mente. Non siamo individui, stolide creature solitarie, sperduti uomini abbandonati. Quella è la condizione dei perdenti. Noi siamo un TEAM. E un TEAM è più di una squadra tradotta in inglese perché fa professionale e importante. Il TEAM è una strategia, il TEAM è un’attitudine, il TEAM è soprattutto un modo d’essere. Per questo stasera un avvocato di 29 anni, dall’aria postribolare e smarrita, un praticante dagli occhi a palla ed io siamo qui a massacrarci sopra un prospetto informativo che dovrà essere pronto entro domani mattina. Siamo un TEAM e dovreste vedere la solidarietà che ci unisce mentre congiuntamente auguriamo la morte al nostro capo che intorno alle 20.00 si è congedato dal “mio TEAM” per una cena, ahimé, già fissata da giorni, ma voi, ragazzi, non fate tardi, finite il lavoro però, ma non fate tardi. Finite però.

S’E’ FATTA L’ORA

Quando si fa notte fonda lavorando in studio, si comincia a comprendere che Stevenson, dietro la grandiosa metafora di Jeckyll e Hyde, ha nascosto un’angosciante verità: al nostro interno vive un’entità malvagia che in determinate circostanze prende il sopravvento. Ed io sto per soccomberle. Ho gli occhi stanchi e cattivi, i lineamenti tirati, la pancia gonfia, un principio di gobba e respiro pesantemente. Non sono esattamente io. Mi sto mutando in quell’essenza malvagia che dimora in me. Mi dibatto internamente, sento i miei stessi pugni picchiare all’interno del petto, comincio a girovagare per i corridoi trascinandomi, mi preparo un caffé alla macchinetta, lo rovescio nel cestino, torno alla scrivania. Controllo le e-mail personali. Tra i numerosi rimedi alle mie presunte disfunzioni erettili, vedo un’e-mail di qualche ora fa. “Cena stasera? Te la butto lì. Noi ci vediamo alle 8.30. Fammi sapere”. Un effetto fumo annebbia il mio pensiero e, caduto in una sorta di trance, comincio a visualizzare. Li vedo, li vedo distintamente: in questo momento stanno approfondendo la carta dei dolci, occhi sulla lista mentre il cameriere elenca i dolci del giorno. Sforzandomi un poco, li posso anche sentire: “Io prendo una mousse” “Due” “Tre” “Quante mousse?” “No, io un tiramisù” “Ma ce l’avete pera e cioccolato?”. Io prenderei il profiteroles. Mi piace il profiteroles, morbido, pieno di crema, avvolgente, rassicurante. E anche un Braulio. Oh sì, che buono, con un cantuccio magari, facciamo-due-tanto-sabato-vado-a-correre. Torno a concentrarmi sul lavoro. Penso a quando ero bambino e mia madre mi rimboccava le coperte. Provo odio.

SIGNORSISSIGNORE

In un mondo in cui anche l’ultimo dei camerieri ti prende per il culo se fai un abbinamento cibo-vino bizzarro, l’ultima categoria per cui il cliente ha sempre ragione resta quella dell’avvocato d’affari. Per usare una metafora elegante, è come se il cliente calasse pantaloni e mutande e agitasse il suo dorato pisellone, mentre tutta la categoria professionale si gettasse ginocchioni a bocca aperta, in una lotta senza rispetto e reticenza. Una volta acciuffato l’agognato trofeo è necessario non lasciarselo scappare. Carezzarlo. Coccolarlo. Soddisfarlo. Con precisione e professionalità, con dedizione e amorevole cura. Abbastanza schifoso? Sì, ma necessario. C’è una fila di concorrenti disposti a prendere il nostro posto se non ci si mostra all’altezza. Il cliente è tutto. Il cliente è la moneta. E Dio sa quanto il capo abbia bisogno di soldi. Il Cayenne, la barca, l’appartamento di 167 mq. in Porta Venezia, la collana di perle Tahiti della moglie, pure il bambino nato nella migliore clinica privata di Verona dove alle gestanti è dato di partorire i figli in acqua, tutto questo porta il brand del cliente di turno. Il cliente tutto questo lo sa. Per questo chiama ad ore irragionevoli, pretende lavori irragionevoli, in tempi irragionevoli, con modi irragionevoli. Lo sa e ne gode. Ordina e gode. Si fa arrogante e gode. Vede l’avvocato masticare amaro e gode. Percepisce l’odio e gode. In una spirale di perfidia di cui fatico a capire il motivo. Ultimamente, sempre più spesso, ho delle fantasie. Mi aggiro nelle strade deserte della notte, avvolto in uno spolverino di un paio di misure più grande, bavero alzato, cappello calcato sul capo. Cammino sicuro, il buio mi è amico, la strada vuota non mi fa paura. Da lontano emerge un’ombra. Mi acquatto al muro, nascondendomi nell’oscurità. Quando l’ombra si fa vicina, riconoscibile, mi slancio verso di lei, l’agguanto e la volto violentemente verso di me. Riconosco nei suoi occhi tremuli e spauriti, lo sguardo violento dell’Amministratore Delegato di […] S.p.A. Mi supplica di lasciarlo andare, di non fargli del male, ma io sono senza pietà. Estraggo dalla tasca un documento e gli mostro che la clausola 8.4 del contratto firmato in mattinata contiene una garanzia rilasciata a favore della controparte, da me inserita senza autorizzazione. Lui esplode in un urlo disumano e io scappo ridendo satanicamente. Qualcosa dentro di me deve essere rimesso a posto.

L’AUMENTO PT.2

Non me ne frega niente. Non mi interessa del mio compagno di stanza che non ha fatto che mugugnare dalla delusione per tutto il giorno, stando tuttavia ben attento a dare la colpa al caldo. Non mi interessa dello sguardo divertito e sadico del collega della stanza a fianco al cesso, che ci tiene a far capire che lui è stato ben gratificato. Non mi interessa sapere quanto hanno dato agli altri, quanto di più, quanto di meno. Lo ammetto, stamani, mentre ascoltavo il capo tracciare un veloce e lodevole profilo del mio percorso professionale e finalmente comunicarmi l’aumento, ero soddisfatto di me, fiero, appagato del raggiungimento di un’ulteriore fascia professionale, che comporta sì nuove e maggiori responsabilità, ma anche soldi, euro nuovi di zecca, piccoli campanelli di successo, ciascuno a mormorare “bravo, bravo, ce l’hai fatta, un nuovo passo avanti, tutto bene, tutto bene, lo vedi che non devi avere dubbi, avanti così, ottimo, esemplare, ma non ti fermare ora, nuovi obiettivi, ambizione, ambizione, ambizione, smania, fame, porco giuda!”. E invece, con l’avanzare della giornata, le telefonate, le e-mail, le riunioni, ora dopo ora la sensazione di gioia momentanea che riempiva ogni poro è svanita per lasciare spazio ad un senso di velata oppressione. Forse è solo stanchezza. Mi guardo intorno e tendo l’orecchio ai rumori che provengono dai bui corridoi dello studio. Sento nelle narici uno strano profumo che oscilla, a momenti, tra un fastidioso odore di bruciato e un elegante aroma di zolfo. Una scia che aleggia intorno a tutti noi e che riempie queste stanze ogni volta che si parla di soldi. Mi chiedo: e se l’anima esistesse davvero? Se fosse possibile venderla? Non mi sento forse più leggero? Diciamo di 21 grammi.

IL RISO ABBONDA, ABBONDA….

Mi hanno appena girato una e-mail sugli avvocati. Una di quelle e-mail ironiche ed amare, che dipingono a fosche e paradossali tinte questo mondo professionale, strappando larghi sorrisi ai più, amare riflessioni ai meno. Sono tra i meno, purtroppo. Chi mi circonda pare fare parte della prima categoria.

“Ah ah ah, esattamente così!”
“Ah ah, siamo proprio delle merde, ah ah ah!”
“E il pezzo sulle mogli?”
“Fortissimo!”
“Ragazzi, come la moglie di […], quello del finance”
“E’ vero, tale e quale, ah ah ah!”
“Siete due stronzi, ah ah ah!”
“Tu Duchesne, non ridi? Non l’hai letta?”
“No, bella. Ma… me l’avevano già mandata. Bella però”.