Iconografia e iconometria nell'arte buddhista del Tibet.

L’iconagrafia tibetana è il prodotto di un'evoluzione del Buddhismo iniziatasi in India e proseguita in Tibet in forme originali. Quest’evoluzione comprende sia l’assimilazione di gran parte del pantheon indiano non buddhista e della simbologia propria del Tantrismo, sia l’introduzione di nuovi specifici sistemi simbolici elaborati dalle varie scuole di pensiero e dalle diverse tradizioni monastiche.

Vajravarahi. Pagina disegnata su tela proveniente da un libro di iconometria tibetana in cui sono tracciate in rosso le linee essenziali per la costruzione dell'immagine da rappresentareUn effetto di questi processi è stato la creazione di uno sterminato numero di divinità capaci di dar corpo alla rappresentazione d’ogni possibile sfumatura del pensiero religioso, dalle più elementari concezioni animistiche alle più sottili astrazioni filosofiche. Sono quindi raffigurate nella pittura, nella coroplastica e nella scultura tibetane, creature di mitologie remote come i Nagaraja (re-serpenti signori delle profondità) o i Gandkarva (uomini-uccello che popolano i cieli riempiendoli dei loro canti), mitici eroi degli antichi cicli epici (assurti al ruolo di difensori della dottrina buddhista), buddha e bodhisattva del Mahayana, e dakini detentrici del sapere esoterico che conservano nel loro aspetto teriomorfo la traccia d’antiche credenze sciamaniche.

Il già affollato pantheon buddhista così realizzato è poi accresciuto a dismisura dalla varietà di rappresentazioni adottate per ciascuna divinità con l'intento di significarne la molteplicità di poteri e di funzioni. Di ciascuna divinità esistono forme tantriche con vario numero di teste, braccia e gambe, e di ognuna di loro si danno versioni nei vari colori connessi alla loro assegnazione alle ‘famiglie’ dei Buddha Cosmici nello schema in quinconce secondo il quale il Vajrayana descrive l’emanazione dell'universo a partire dall’Adibuddha.

L’analisi iconografica implica una buona conoscenza dei princìpi del Buddhismo tantrico poiché ogni immagine è un simbolo e ogni particolare figurativo ha un suo specifico significato. Occorre sapere ad esempio che il raggiungimento della liberazione viene concepito come effetto dell'unione dell’elemento maschile rappresentato dai ‘mezzi adeguati’ (upaya) suggeriti dalla ‘compassione’ (karuna) con l'elemento femminile della ‘conoscenza trascendente’ (prajna), e che questo congiungimento è simbolicamente rappresentato dall'unione sessuale, motivo continuamente ricorrente nell'iconografia tibetana.

Altro aspetto tipico di quest’iconografia è la presenza di divinità terrifiche, con aspetti di mostruosa violenza e ferocia. L’introduzione di queste singolari rappresentazioni del sacro può essere generalmente ricondotta all’assimilazione da parte del Buddhismo di divinità originarie d’altre religioni (in particolare dello Scivaìsmo e dell’animismo diffuso nell’area himalayana), piegate tuttavia a nuovi compiti.

Passando attraverso tutti gli stadi della codificazione canonica e della sublimazione simbolica, si approda alla complessità dei màndala, superbe rappresentazioni visive di costruzioni cosmologiche e di itinerari mentali, veri e proprii psico-cosmogrammi atti a guidare l'asceta nel processo meditativo diretto all’identificazione con la divinità nell’estasi (samadhi).

Al confine di ciò che può ancora essere chiamato iconografia sta la rappresentazione simbolica dell’universo attraverso l’uso pittorico dei segni grafici dell’alfabeto tibetano, con sillabe disposte in complicati monogrammi che sono visti come ‘semi’ (bija) da cui scaturisce la realtà e da cui la stessa divinità si origina nelle pratiche di visualizzazione.

Un ruolo crescente nell’arte figurativa tibetana è poi venuto assumendo con il tempo la rappresentazione dei ‘paradisi’ delle diverse divinità, sedi privilegiate della forma gloriosa delle loro manifestazioni. Sono inoltre raffigurate schiere di discepoli, apostoli, maghi, maestri, fondatori di scuole e loro successori. Per ciascuno di questi esiste un corredo di atteggiamenti, gesti, paramenti e attributi la cui corretta lettura è indispensabile per la loro identificazione. L’abito e il copricapo dei monaci consentono di stabilire a quale delle molte sette e tradizioni essi appartengano, mentre le singole figure sono rese con ‘tipi’ fissati dalle scuole pittoriche e fedelmente riprodotti, così che la riconoscibilità delle principali personalità della storia culturale e religiosa del Tibet è assicurata, anche se la fissità ieratica e il disegno schematico non consentono di considerare questi ‘tipi’ come dei veri ritratti.

Vanno citati infine dipinti a carattere descrittivo-narrativo che si riferiscono alla vita del Buddha o di grandi maestri e riformatori religiosi. Famosi cicli di pitture di questo genere sono legati a Sakyamuni, il Buddha storico, a Padmasambhava, il mitico introduttore del Buddhismo in Tibet, o a Tson-kha-pa, l’ispiratore della setta gialla dei dGe-lugs-pa, dominatrice del quadro religioso e politico tibetano degli ultimi secoli.

Lo stuolo delle divinità che s’incontrano nell’iconografia buddhista e la presenza fra di esse delle divinità terrifiche corrisponde all’accettazione da parte del Buddhismo della teoria della ‘doppia verità (assoluta e relativa)’ e al riconoscimento della molteplicità dei cammini che gli uomini possono percorrere per giungere alla liberazione. Va in ogni caso sempre tenuto presente che tutte le divinità di questo pantheon sterminato, le pacifiche come le furiose, non sono per il buddhista altro che creazioni della nostra mente, destinate unicamente a sollecitare la nostra consapevolezza e a promuovere il risveglio.

La folla d’immagini e la congerie di motivi che si addensano nelle opere pittoriche del Tibet eserciterebbero una quasi opprimente violenza visiva sull’osservatore e si tradurrebbero in una sostanziale inaccessibilità delle opere stesse all’analisi estetica e stilistica se non fossero disciplinate e organizzate secondo regole che ne garantiscono l’organica sistemazione in strutture sensorialmente e concettualmente fruibili.

Tali regole investono i due campi della simmetria e dell’iconometria. Per quanto concerne la simmetria il discorso va fondamentalmente affidato all’analisi del màndala nelle sue varie forme, da quella tridimensionale realizzata con statue in creta o in bronzo e rame dorato in alcuni dei maggiori templi tibetani, a quella bidimensionale dei dipinti murali e di molte splendide thang-ka, a quella dei màndala fragili e precari, ma più direttamente immersi nel mondo magico e iniziatico del Vajrayana, che vengono ritualmente creati con sabbie e farine colorate per essere subito dopo distrutti, quasi simbolo dell’impermanenza delle nostre opere e di tutti i nostri raggiungimenti.

Per quanto concerne l’iconometria, va osservato che essa fa parte in Tibet di quei rami della conoscenza che sono oggetto d’attività intellettuale piuttosto che intuitiva, ed è posta sullo stesso piano della grammatica, della retorica, della matematica, della medicina e dell'astrologia. L’iconometria svolge nella pittura tibetana un ruolo di ‘grammatica del disegno’ e di scienza delle proporzioni che ha però uno scopo liturgico e un valore che trascende la pura osservanza di un canone estetico. Il rispetto per le proporzioni canoniche, come quello per le caratteristiche iconografiche, è, infatti, un atto di devozione dettato da valori religiosi.

Analogamente all’iconografia, l’iconometria tibetana si è codificata durante i secoli in schemi ben definiti. I lavori d’iconometria incorporati nel Canone Buddhista Tibetano sono soprattutto traduzioni di trattati indiani (in particolare il Citralaksana e il Pratimalaksana). Artisti ed eruditi tibetani hanno tuttavia contribuito ad arricchire il corpus iconometrico tradotto dal sanscrito con proprii trattati e con proprii importanti contributi originali, quale ad esempio l'introduzione di rette oblique nello schema unicamente ortogonale di derivazione indiana.

Le trattazioni teoriche dell'iconometria sono però generalmente compilate da eruditi con scarsa esperienza diretta dei problemi incontrati dagli artisti nella produzione delle loro opere, e manifestano spesso un gusto letterario per l’ornamentazione e per il simbolismo numerologico che rendono i loro scritti difficilmente utilizzabili a fini pratici. È per questo motivo che un ruolo di gran lunga più importante per i pittori tibetani è stato svolto dalla tradizione orale e dalla trasmissione di modelli: album di disegni iconometrici fanno tuttora parte dell’armamentario professionale di ogni pittore di thang-ka.

Vajrabhairava. Pagina disegnata su tela proveniente da un libro di iconometria tibetana in cui sono tracciate in rosso le linee essenziali per la costruzione dell'immagine da rappresentareÈ qui riprodotto il foglio di un album in cui è visibile il reticolato di linee sulle quali è tracciato il disegno, linee che sono riportate sulla tela per mantenere le proporzioni prescritte dal Canone alla nuova scala richiesta dal committente (vedi a sinistra). È da notare come le linee oblique caratterizzino efficacemente l’inclinazione degli arti e l’atteggiamento della figura, consentendo un’ottima resa degli aspetti dinamici di molta parte dell’iconografia del Buddhismo tibetano, in particolare nelle figure di carattere tantrico e in quelle delle divinità furiose.

Le unità di misura più frequentemente ricorrenti nelle definizioni iconometriche sono: nas (granello d'orzo); rkan, pari a 4 nas; sor-mo (dito), pari a 4 rkan; chag (pugno), pari a 4 sor-mo; thal-mo (spanna), pari a 12 sor-mo; khru (cubito), pari a 2 thal-mo. Ma questi valori si debbono considerare rivolti a definire dei rapporti fra le singole unità piuttosto che ad esprimere delle precise misure di lunghezza aventi valore assoluto.

Poiché molte di queste unità di misura sono tratte dall’anatomia umana, è anzi invalsa nella pratica artistica tibetana l’abitudine di porre in relazione le unità di misura dell’immagine da eseguire con le misure anatomiche reali di singoli individui, specialmente quelle dell’artista o del donatore.

Gli schemi iconometrici usati dagli artisti tibetani possono essere illustrati ricorrendo all’esempio fornito nel 1862 da un pittore dello Zanskar a H. Godwin Austen. Per definire le proporzioni del corpo del Buddha Sakyamuni (vedi fig. sotto) si procede come segue: viene tracciata per prima la verticale mediana A e quindi, in alto, l’orizzontale 1. Su questa orizzontale vengono presi da ambo i lati intervalli di 12, 4, 2, 8 unità. Per i punti individuati da questi intervalli sono tracciate le verticali B, C, D, E, e B’, C’, D’, E’ rispettivamente.

Sulle due verticali esterne vengono misurati intervalli di 4 unità e per i punti così individuati vengono condotte le orizzontali da 2 a 20.

Sulla retta A sono individuati dall'alto in basso i punti d’intersezione P=A4, O’=A5, Q=A7, R=A12, O=A14, e S=A20, dove i numeri in basso a destra denotano l'orizzontale intersecante.

Con centro in O e raggio OP si traccia il contorno dell’aura, con centro in O’ e raggio O’R si traccia il contorno dell’aureola.

Le rette che congiungono S con i punti H=C7 e H’=C’7 individuano, nella porzione compresa fra le orizzontali 15 e 17, posizione e forma della ciotola per le elemosine.

Le intersezioni con l’orizzontale 11 delle rette che congiungono Q con i punti I=C20 e I’=C’20 individuano la posizione dei capezzoli. I due triangoli HSH’ e IQI’ definiscono nel loro insieme forma e posizione nel busto.

Le rette che congiungono O con i punti J=E18 e J’=E’18 definiscono l'inclinazione delle cosce mentre le rette che congiungono I con K’=C18 e I’ con K=C’18 danno l’inclinazione delle gambe. I punti K e K’ individuano la posizione della punta degli alluci.

Altrettanto precisamente definita è la serie di regole che debbono caratterizzare il volto del Buddha (vedi fig. sopra). La costruzione del tracciato iconometrico per le proporzioni del volto avviene con riferimento al tracciato per la figura complessiva, inserendosi nello spazio compreso fra la linea 3 e la linea 8 di quello schema, e procedendo nel modo seguente: sulla orizzontale 3 vengono riportati da ciascuna delle due parti di V=A3 intervalli di 2 unità e per i punti così individuati vengono tracciate le verticali W, X, Y, Z, e W’, X’, Y’, Z’ rispettivamente.

L'intervallo fra le linee 5 e 6 viene suddiviso in quattro intervalli di 1 unità dalle orizzontali a, b, c. I rettangoli individuati dalle verticali Y, Z (e rispettivamente Y’, Z’) e compresi fra le orizzontali 5 e 6 delimitano i padiglioni delle orecchie; quelli compresi fra le orizzontali 6 e 7 ne delimitano i lobi.

Le rette che congiungono V4 con W7, e W’7 delimitano la larghezza del naso, della bocca e del mento.

Le rette che congiungono W7 con Y’5 e W’7 con Y5 definiscono con la loro intersezione il centro della bocca O” dal quale con raggio O”W7 si traccia l’arco del mento.

Le intersezioni con le rette che congiungono V4 con Y6 e Y’6 definiscono la posizione dell'angolo esterno degli occhi.

Gli occhi vanno contenuti entro le parallele a, b. Le sopracciglia stanno sulla linea 16.

Il punto V4 definisce l’inizio dell’attaccatura dei capelli e il punto V5 la posizione dell’uma.

Numerose altre intersezioni nei due reticoli tracciati in questa e nella precedente figura possono farsi corrispondere ad altri punti caratteristici della figura del Buddha Sakyamuni.

Sistemi iconometrici analoghi esistono per ciascuna delle divinità del pantheon tibetano.

Franco Ricca

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La pagina è stata aggiornata nel maggio 2001

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