lunedì 15 aprile 2024

Skrotegaeshi: utili torsioni testicolari per Aikidoka

"Un pizzico di persecuzione... può essere un ottimo segnale!"
[Padre Anthony Elenjimittam, 1915-2011]

L'Aikidoka - per sua natura - ha un certo numero di "giramenti di palle" ai quali fare fronte, diremmo comunemente... anche se è femmina, anche se nel suo percorso sembra andare tutto bene.

Essere consapevoli che le difficoltà che stiamo incontrando sono, in un certo senso, "naturali" e condivise con il resto di quelli su un cammino analogo al nostro... può forse non rendere "i giramenti di palle" una dinamica piacevole... ma crea l'opportunità di utilizzarli a nostro vantaggio e viverli nel modo più sano e proficuo possibile.

Probabilmente, il termine più adatto per un Aikidoka a queste dinamiche potrebbe essere "skrotegaeshi"... parafrasando quella famosa tecnica di solito applicata solo sui polsi, per nostra fortuna.


A - Il luogo per la pratica

Sovente si parte con l'idea di frequentare una disciplina, ma difficilmente avremo la possibilità di trovare un luogo sotto casa, che fa lezione nei giorni e negli orari nei quali siamo più liberi.

Bisogna iniziare un'opera di mediazione... fra lavoro, famiglia, amici... e le proprie passioni.
Di solito qualcuno si scontenterà, perché "da quando abbiamo deciso di giocare a fare i Samurai... le cose non sono più come una volta!".


B - Trovare nuove risorse economiche

Aggiungiamo ai "vizi" che già avevamo, pure quello di frequentare una palestra, un centro sportivo, un Dojo, acquistare l'attrezzatura che utilizziamo durante gli allenamenti, quindi ci servono più soldi di un tempo, oppure dobbiamo distribuire diversamente le risorse che utilizzavamo in precedenza: qualcosa va limitato... le sigarette, la TV streaming on-demand, le serate al pub o al ristorante.

E la cosa non accenna a risolversi dopo che abbiamo trovato le prime quadre: il Sensei magari inizierà a proporci lezioni extra, eventi, seminari, raduni che si svolgono nel week end... alcuni "domestici", altri che necessitano di piccole o grandi trasferte; tutto ciò significa ulteriori soldi da spendere e problemi di logistica familiare, lavorativa, etc.


C - Problemi durante il corso

Non sempre gli esercizi che ci viene chiesto di svolgere ci risultano "facili" da realizzare e questo genera una certa dose di frustrazione
; magari vediamo che anche gli altri compagni talvolta incontrano difficoltà analoghe (dove le troviamo anche noi, o in altri aspetti della pratica), ma intanto ciò non rende meno frustrante il sentirci non all'altezza della nostre aspettative o di quelle del nostro Sensei.


D - Problemi di relazione

Gli scambi umani che inevitabilmente avremo in occasione delle lezioni non saranno tutti uguali
: alcuni saranno da subito positivi ed appaganti, altri apparentemente indifferenti... ed altri ancora particolarmente ostici da vivere.
Persone con le quali non è facile legare, fare esercizi... che sentiamo ostili o sabotanti per la nostra attività.
Le difficoltà possono viversi dentro o fuori dal tatami (ad esempio negli spogliatoi), o magari in entrambi i contesti.


E - Tappe obbligate del percorso

L'avanzamento nella disciplina viene scandito da momenti specifici, nei quali si svolgono esami di graduazione
: questi sono importanti, ma per definizione, non sono momenti facili da vivere.
Ci sarà chi prova paura di non essere pronto, fastidio dovuto alla necessità di essere più presente agli allenamenti o doverne incrementare il numero per prepararsi al meglio.

Si tratta un periodo di intensificazione di tutto ciò che ruota intorno al mondo della nostra pratica, dalla difficoltà alla soddisfazione... però è molto più facile percepire gli impedimenti legati alla prima, poiché la soddisfazione avviene di solito DOPO che si sono superate le difficoltà.


F - Infortuni

Il fatto di praticare fisicamente ci espone alla possibilità di subire infortuni
, di solito per fortuna non molto gravi, ma in grado di tenerci lontani dalla pratica per settimane, se non per mesi (o anni).

La stragrande maggioranza delle persone ha una vita lavorativa e famigliare alla quale non può rinunciare, quindi il problema degli infortuni si specchia anche ben al di fuori delle attività sul tatami. Per un libero professionista - ad esempio - non poter guidare automobile per via di un braccio al collo può generare problemi molto seri di perdita di profitto; per una persona che accudisce i suoi figli infanti si può dire altrettanto.

Molte attività che facciamo si basano sull'essere in uno stato di salute fisica accettabile, ovvero senza grossi impedimenti... che invece emergono prepotentemente nel caso di uno stiramento, una lussazione o una frattura. Lo skrotogaeshi aumenta di brutto se ci facciamo male durante i corsi, specie se per la distrazione nostra o di qualche compagno.


G - Cambiamenti di paradigma

Anche nel caso migliore nel quale la pratica ci accompagni per lunghi anni, è talvolta necessario operare alcuni cambiamenti di paradigma non semplici da accettare: pensiamo alla fisicità che possiamo avere se iniziamo a praticare a 20 anni... e come essa non potrà essere mantenuta fino ai 60.
Il corpo invecchia, si modifica, diventa più legato: se amavamo fare grandi cadute, sentiremo sempre più come non sia possibile continuare a farle cosi anche in futuro. E quindi la nostra pratica dovrà acquisire nuove prospettive, un nuovo senso... oppure magari fermarsi ed arrendersi dinanzi all'evidenza del fatti.


I - Crisi periodiche del percorso

Qualsiasi percorso personale, se preso con serietà ed autenticità, ci porta a vivere una serie ciclica di crisi di varia natura: alcune scaturiscono dal far fronte ai "rompimenti di palle" che ho indicato fino ad ora... altre invece sono di natura più personale, per esempio ci si chiede se praticare ci risulti ancora qualcosa di utile, appropriato, sensato per noi.

Gli ostacoli che siamo costantemente chiamati a superare possono demotivarci, oppure possono nascere nuove fonti di frustrazione inedite, che non c'erano prima ed alle quali ci sembra di non essere preparati a fare fronte. In alcuni casi, si prova semplicemente disaffezione per la pratica, per il nostro gruppo, per il Maestro, etc.


Ecco...
ciò che abbiamo raccontato fino a qui non è sempre facile da vivere, specie se le dinamiche meno piacevoli durano nel tempo, e - in qualche misura - iniziano a divenire ripetitive e/o logoranti.
Un tempo però avrei dato ricette molto differenti da quelle che ho in mente ora per questo tipo di impedimenti e difficoltà.
Più o meno ogni 10-15 giorni c'è un allievo che viene da me presentandomi una di queste istanze, un po' con l'aspettativa magica che io possa trovare una soluzione al suo problema.

Ciò che è forse triste, ma anche vero - però - è che NON è possibile eliminare certe difficoltà che si incontrano: esse hanno un loro preciso senso, significato e "compito"... e la disciplina sarebbe impoverita se non si dovesse trovare il coraggio di stare dentro ad alcune dinamiche, e riuscire anche a risolvere determinati impedimenti che ci si presentano.

Ho imparato che le persone frequentano praticamente TUTTE un corso di Aikido con aspettative più o meno alte: diciamo così, le aspettative sono tutte molto alte... e quando sembra che non lo siano, è perché i praticanti non hanno il coraggio di ammettere che invece lo sono.

Si tratta forse di un'astuta auto-manipolazione psicologica, nella quale l'avere aspettative modiche ci consente di non dispiacerci troppo se poi non dovessimo riuscire a soddisfarle. Ma capite bene che tutti vorrebbero raggiungere le vette di ciò che ancora non si sentono di possedere come piacerebbe loro.

Siamo una specie abituata ad auto-ammaestrarci a non desiderare troppo il successo, a non pretendere l'auto-realizzazione, a non mirare all'abbondanza ed alla soddisfazione più autentiche.

In un certo senso, possiamo affermare quindi che la disciplina ha VALORE proprio perché si devono affrontare e superare certe difficoltà: ciò che ho notato negli anni è che più si è disposti ad affrontare e superare certe difficoltà, più la disciplina ci regala ciò che ci serve e talvolta anche che noi desideriamo.

È come se le difficoltà e gli skrotegaeshi fossero una sorta di "guardiani della soglia"... che determinano chi ha il diritto di passare oltre e chi invece si deve fermare li (sia con se stesso, che con gli altri).

Una difficoltà che si rivela qualcosa di indispensabile quindi?

SI, credo sia necessario questo tremendo cambio di paradigma... poiché dalla pratica aspiriamo ad altrettanti cambiamenti radicali. E, come dicevo prima, è onesto pensare che se desidero ottenere un risultato importante, mi sia anche richiesto di sostenere situazioni importanti a loro volta, e quindi non semplicissime da vivere.

Se così NON fosse, paradossalmente, persone poco motivate, poco costanti ed impegnate... avrebbero la stessa probabilità di raggiungere risultati simili a chi invece è molto motivato, presente ed ingaggiato in ciò che fa. Questo non si verifica, per fortuna, a beneficio del secondo tipo di persone sulle prime.

Coloro che amiamo definire "i grandi della storia" solitamente sono stati capaci di superare notevoli prove ancora prima che ottenere grandi risultati.

Insomma, mentre da tori impariamo a fare un buon kotegaeshi al polso del nostro uke... dobbiamo anche prepari a ricevere alcuni dignitosi skrotegaeshi dalla pratica e dalla vita più in generale.
Ciò fa parte di una dinamica autentica e coerente: non ci accade nulla di malvagio o di veramente ostile... ma qualcosa di completamente funzionale a ciò che stiamo allenando.

Noi stiamo allenando la nostra possibilità di conoscerci e migliorarci... cosa che implica la continua necessità di "morire" a ciò, a chi eravamo per poter "nascere" a ciò ed a chi che vogliamo diventare.

Un guerriero non ha paura delle difficoltà: le utilizza come metro per comprendere se e quanto è disposto a fare per ottenere ciò che desidera.
La disposizione ad avere pochi rompimenti di palle, mi predispone anche ad avere flebili soddisfazioni; l'essere disposto "a fare ciò che bisogna fare", mi rende TOTALE, come serve essere a chi vuole ottenere un risultato TOTALE, su di me e sulla mia vita.

Le torsioni testicolari continueranno a non essere né facili, né piacevoli... ma potranno indicarci che forse siamo molto più sulla buona strada di quanto non osassimo nemmeno immaginare.

Marco Rubatto







lunedì 8 aprile 2024

Le maledizioni dell'Aikido: 5 modi di fare DANni e di essere DANnati

Ci sono molti aneddoti che girano su quali dovrebbero essere le capacità di un praticante giunto ad uno specifico punto del proprio percorso nell'Aikido.

Ci si accorge - dal suo interno - che la famigerata "cintura nera" è tutto meno che il segno di una sedicente maestria di qualche genere... però vorrei quest'oggi tirare una linea più netta possibile su ciò che mi ha insegnato la mia esperienza in merito.

Premetto a quanto verrà che oggi - in Italia almeno - le carriere dei semplici praticanti e quelle di chi desidera fare il docente sono manifestamente e dichiaratamente SEPARATE, mentre secondo la tradizione giapponese questa cosa non avveniva, ne forse ancora non avviene, in determinati contesti.

Questo cambia un po' le carte in tavola, perché - sempre secondo la tradizione - pareva naturale ad un certo punto del proprio percorso tuffarsi nell'insegnamento, come modo di restituire alla società quanto si era appreso fino a quel momento... una sorta di "servizio" da rendere per onorare ciò che ci è stato dato e chi ce lo ha dato.

Beh, qui non è più così... quindi una persona può tranquillamente continuare a praticare per tutta la vita, giungere anche a gradi dan molto elevati, senza porsi proprio il pensiero di insegnare qualcosa al qualcun altro, o avere specifiche forme di responsabilità verso terzi. Bello o brutto che sia, giusto o limitante... è così, e quindi ne prendiamo atto.

Ciò detto, in ogni caso il proprio operato tende ad avere effetti verso terzi, fosse anche solo perché ciascuno ha dei compagni di pratica, rispetto ai quali sapremo essere (o meno) buoni kohai e/o buoni senpai.

Veniamo ora ad una rapida disamina di quali step dovrebbero (o potrebbero) caratterizzare i vari gradi... o meglio "gradini/livelli", come indica il kanji [段] "dan".


初段 SHODAN - 1º dan

Il kanji [初] "sho" indica un inizio, l'essere nuovi a qualcosa... quindi "shodan" è il grado dell'inizio... altro che della maestria!

Si finisce forse di essere "ospiti" provvisori di un Dojo, perché fino a poco prima era in sostanza quello che eravamo e si decide finalmente di entrare a farne parte della famiglia dei praticanti con tutte le scarpe (o gli zoori, o pure ancora più spesso a piedi nudi). Se alla fatidica cintura nera siamo al livello del principio, cosa possiamo dire di essere stati prima?

Technically speaking, lo shodan è il grado nel quale si dovrebbe essere in grado di mostrare un po' tutti i fondamentali tecnici della disciplina (taijutsu, Aiki ken ed Aiki jo), senza cose mirabolanti... una capacità espositiva chiara, di base, lenta e pulita. Non sono i salti che si è in grado di compiere o quelli che si fa fare al proprio uke il focus delle proprie abilità.

Al contrario, essere semplici, essenziali e puliti nei movimenti di base (ad esempio nei più semplici tai sabaki) ritengo sia un grande valore aggiunto, anche ove la pratica avesse ancora diversi aspetti STATICI. Non è questo il grado per mostrare dinamicità a tutti i costi, ma al contrario è il momento di mostrare che c'è stato una progressione strutturante nella tecnica... e più, in generale, nella disciplina.

Ho sentito dire che questo è il livello nel quale un praticante dovrebbe essere in grado di tenere a bada un aggressore NON allenato, senza troppe difficoltà. Mi pare poetica come immagine, ma ne dubito seriamente, poiché un aggressore che ha reale intenzione di ledere, può essere anche poco o niente allenato... ma è vivo, determinato e perciò parecchio imprevedibile. E, secondo me, al livello di shodan corriamo ancora il rischio che ci faccia un cesto di dimensioni bibliche, perché abbiamo a malapena finito di studiare le tecniche principali, in compagnia di un partner collaborativo.
Questo è il livello nel quale "abbiamo imparato bene una poesia" e la ripetiamo, come avremmo fatto davanti alla maestra delle elementari... un po' pappagallando.
A questo stadio ciascuno è ancora parecchio incapace di cogliere le sfumature che esistono fra i vari stili e didattiche, ed è convito di fare l'unico Aikido possibile... il migliore di tutti, ovvero quello del SUO Maestro!

Per coloro che si sentono motivati ad iniziare un percorso di supporto nell'insegnamento del proprio Sensei, la FIJLKAM rende possibile prendere la qualifica di Aspirante Allenatore (1º livello)... ovvero la prima certificazione da Insegnate Tecnico, che però non consente ancora alcuna autonomia nell'insegnamento.

Si può però diventare un prezioso supporto per il Dojo nel quale normalmente pratichiamo, dando una mano al Sensei, aiutando i nostri kohai a preparare gli esami kyu interni, magari anche sostituendo occasionalmente il Docente, in caso di sua assenza, ma senza che ciò comporti una mansione da svolgere con continuità.

Nel mio Dojo, mediamente parlando, questo traguardo richiede circa 6 anni di pratica.


弐段 NIDAN - 2º dan

Ho sempre visto questo livello come una sorta di "shodan BIS", oppure "MAXI shodan"... ovvero il momento nel quale sono sostanzialmente capace di fare ciò che sapevo fare al gradino precedente, ma ora sento tutto un po' più mio: se prima stessi recitando la poesia che qualcun altro mi ha insegnato... ora riesco a dargli anche una mia intonazione, pur attenendomi scrupolosamente al testo originario. Diciamo che conosco così bene la base, che posso permettermi il lusso di iniziare ad interpretarla un minimo, stando attento ovviamente a non snaturane le caratteristiche ed anche a non sentirmi libero di fare il poeta a mia volta.

La solidità della base ovviamente non si disdegna, ma la propria pratica può affacciarsi a livelli più fluidi di un tempo.

Questo dovrebbe essere il livello nel quale è possibile tenere a bada contemporaneamente 2 attaccanti non allenati, ma non ci credo... così come non credevo alla stessa cosa per il grado precedente.

Pur frequentando ancora una didattica specifica, questo potrebbe essere il momento nel quale ci si affacci alla possibilità dell'esistenza di tanto altro Aikido fuori dalla porta del proprio Dojo, che non è detto che sia meglio o peggio del nostro... ma sarà sicuramente DIVERSO.

Per la Federazione italiana, questo è il grado MINIMO per insegnare in modo indipendente, se accompagnato dalla qualifica di Allenatore (2º livello); è possibile iniziare quindi ad creare un proprio gruppo... ma consiglierei vivamente ogni nidan di restare legato molto stretto al proprio Sensei di origine, poiché è presto per dedicarsi SOLO all'insegnamento... la propria strada da praticante è ancora molto lunga.

Un numero indicativo di anni di pratica per raggiungere con maturità questo grado ho riscontrato aggirarsi fra i 9 ed i 12 anni.


参段 SANDAN - 3º dan

Questo è il livello nel quale deve cambiare qualcosa di sostanziale; è anche il gradino dal quale era possibile aprire ufficialmente la propria strada da docente, acquisendo la qualifica di [副指導員] "fuku shidoin", ovvero di Istruttore (relativamente inesperto). É così anche per la Federazione, che dal 3º dan in poi può rilasciare (sempre dopo avere seguito corsi ed aver sostenuto esami specifici) la qualifica di Istruttore (3º livello); a questo punto è possibile insegnare contemporaneamente in 2 Società federali, nel caso in cui fosse necessario. É l'ultimo grado nel quale la competenza per l'assegnazione può essere di tipo regionale.

Ma al di là dell'insegnamento, questo dovrebbe essere il livello nel quale la base è solidamente appresa ed il proprio Aikido incomincia a poter divenire quindi più fluido, continuo e rilassato. É possibile, forse addirittura consigliabile, addentrarsi in tutte quelle pratiche non più considerabili "di base", ma che comunque costituiscono una parte importantissima del proprio percorso. La tecnica a questo punto non può che essere uno strumento per studiare e consolidare i principi in essa contenuti.

Un conto è ripetere ciò che è importante per qualcun altro, un po' a pappagallo... un conto è fare ciò che si è compreso essere importante per sé: ecco, il sandan credo che sia il momento di lasciarci dietro il pappagalleggiamento e mostrare che l'Aikido è qualcosa, in qualche misura, di NOSTRO.

Se proprio c'è un momento nel quale vogliamo "testare" la bontà del nostro livello,  il 3º dan è un ottimo momento per andare a metterci in difficoltà, facendo visita a tatami diversi dal propio di origine, confrontarsi con altre Scuole e didattiche, e scoprire se "tutto il mondo è paese"... oppure no.

In media ci vogliono almeno una quindicina di anni di pratica per arrivare qui, nella mia esperienza.


四段 YONDAN - 4º dan

Il 4º dan credo possa essere definito il livello della maestria vera e propria, nel quale un tempo veniva concessa la qualifica di [指導員] "shidoin" (Insegnante) ed ora è possibile acquisire quella di "Maestro" (4º livello).  A questo punto la disciplina dovrebbe forse più divenire un'espressione della propria natura, oltre che ovviamente un valido supporto didattico messo a disposizione di terzi, qualora si scegliesse la via dell'insegnamento.

Secondo la tradizione, lo yondan era anche l'ultimo esame di tipo tecnico previsto dai vari curriculum, segno che ciò che di tecnico c'è da studiare... si da per fatto al raggiungimento di questo livello, ed in Aikido di tecnica ce n'è veramente tanta!

Oggi non è più così, specie qui in Italia, dove le varie organizzazioni hanno previsto esami tecnici anche per i gradi superiori (almeno fino al 5º dan).

Strano sarebbe anche se la disciplina venisse esperita SOLO fra le quattro mura del proprio Dojo: una persona può praticare con umiltà e dedizione, ma ad un certo punto tende ad incarnare lo spirito della disciplina in qualsiasi luogo si trovi.

Diciamo così: a 1º e 2º dan si portano nel Dojo i problemi del quotidiano; a 3º dan si smette di portare la propria immondizia sul tatami... ed a 4º dan si inizia a portare le proprie primizie, maturate grazie alla pratica, negli altri contesti in cui viviamo. Può non essere sempre una dinamica così matematicamente precisa, ma mi pare una buona rappresentazione del fatto che l'Aikido ci sta cambiando in meglio.

Questo potrebbe essere anche il gradino dal quale tutto sembra di facile esecuzione, ma solo per via della storicità della pratica che ci ha condotto fino a qui... fatta dalla somma di tutti i tentativi, gli sbagli, le crisi che si è stati disposti a superare. Potrebbe essere il livello al quale ci si sente, in qualche modo, consacrati alla propria disciplina, per tanto che vi avremo investito in precedenza (a livello di tempo di impegno, ma anche di energie e di risorse personali).

In Federazione non è possibile raggiungere questo traguardo prima del compiere di 27 anni, presumendo di essere già shodan a 16. A 4º dan quindi la tempistica MINIMA è di 14 anni di pratica... ma è sano arrivarci non prima dei 18-19 anni, secondo me. Per la FIJLKAM questo grado (ed i successivi) può essere conferito solo a livello nazionale.

Lo yondan è uno di quei traguardi che ti bruciano se li tagli troppo in fretta, prima di quando non si abbiano sviluppato le capacità di reggerne la responsabilità... verso se stessi in primis, oltre che verso il prossimo (sia esso anche un semplice compagno di pratica, se non un allievo).

Dal 3º dan in su, infatti, vi è un nuovo pericoloso mostro da affrontare: il propio EGO. Se infatti allo shodan ed al nidan ci si rendeva bene conto di essere Aiki-pippe, quando si sale di grado rispetto alla media, ci si può iniziare a convincere di essere i nipoti segreti di O' Sensei, e quindi si inizia a guardare il prossimo (Aikidoka) con aria di sufficienza, col mood: "Povera creatura, forse un giorno, impegnandoti ancora tantissimo... capirai!".


五段 GODAN - 5º dan

Tradizionalmente questo traguardo poteva venire raggiunto (ed è ancora così in diverse organizzazioni internazionali) solo [推薦状] "suisenjo", ovvero tramite una lettera di raccomandazione.

Ancora oggi l'Aikikai Honbu Dojo conferisce i gradi dal 5º dan in poi solo durante il Kagami Biraki di inizio anno (solitamente il secondo week end di gennaio), e li stampa in un formato cartaceo differente dai precedenti... più ampio e ripiegato su se stesso (mentre i precedenti erano arrotolabili); questa particolarità deriva dal fatto che dal godan in poi il grado non dovrebbe più essere messo in mostra, ma custodito nella confezione nella quale lo si è ricevuto, che porta sopra il [紋] "mon", ossia lo stemma di famiglia in ceralacca.

Il solo stemma dovrebbe di fungere da "garanzia" di qualità del diploma contenuto all'interno della confezione; noi qui siamo un po' diversi ed amiamo ostentare tutto... quindi esponiamo pure i gradi superiori, ma vi avverto che non sarà banale trovare una cornice dalle dimensioni adatte.

La "raccomandazione" che è necessario ricevere dovrebbe testimoniare l'impegno costante che ciascuno compie nella divulgazione della disciplina (ecco perché all'inizio dicevo che un tempo veniva sott'inteso che i dan di rango superiore fossero anche sempre degli Insegnanti; ora ci sono specifici esami tecnici che permettono il raggiungimento di questo grado anche se non si vuole insegnare). Ciò presuppone l'essere notati da gradi ancora più alti e venire "segnalati" all'Ente che emette i gradi: qualcosa di molto tradizionale, ma ben poco comune, controllabile o fattibile ad ogni latitudine del pianeta (infatti ogni anno si vedono cose improbe all'Aikikai, che ancora adotta questa metodologia, chi vuole saperne di più, legga QUI).

Di solito questo è il grado minimo per iniziare ad operare all'interno di un Ente Aikidoistico ricomprendo incarichi di interesse nazionale (in Federazione ora stiamo facendo così), in questo caso quindi è ovvio che il proprio impegno riguardi anche l'interessi di terzi e non solo il proprio.

Io pratico ininterrottamente dal 1992 e, nel mio caso il 5º dan FIJLKAM mi è stato conferito nel 2017, mentre quello Aikikai nel 2019... quindi (in media) dopo 26 anni di Aikido. In giro però si vede un po' di tutto... ci sono persone che hanno lo stesso mio grado, ma possiedono un centesimo della mia esperienza, e quello fuori scala non mi pare proprio di essere io!

Proprio per questa ragione, in generale credo che sia meglio ricevere un grado attendendo più del dovuto, piuttosto che riceverlo prima di quanto non sia congruente con ciò che si è.

Ma parlando più strettamente di Aikido, il godan per me è stato il grado al quale sono avvenute le cose più interessanti, poiché ho incominciato a darmi il permesso e l'opportunità di SPERIMENTARE alcune intuizioni, senza che ci fosse necessariamente un Sensei più titolato di me a tenermi per la manina. Mi pare il livello della completa assunzione di responsabilità rispetto alla propria pratica, nel quale devono cessare le forme di deroga a terzi della propria preparazione; attenzione, ciò non significa che bisogna smettere di avere un proprio Sensei di riferimento (io ce l'ho, e sono contentissimo di continuare ad avercelo pure il futuro)... sto dicendo che è possibile scegliere autonomamente che direzione far prendere alla propria pratica (e pure a quella altrui, nel caso fossimo anche dei Docenti).

Col senno di poi, se iniziassi la pratica oggi, NON andrei più da un Sensei con meno esperienza di quanto dovrebbe averne un godan (indipendentemente da quale certificato abbia appeso al suo muro), solo che queste sono cose che all'inizio nessuno di noi si immagina... e va benone anche così.

Non affermo questo perché ritenga che i gradi inferiori non abbiano nulla di interessante da offrire, anzi... ma solo perché mi consentirebbe di crescere molto più rapidamente di quanto poi in realtà sia avvenuto iniziando la pratica sotto la guida di una brava persona veramente, ma che aveva preso lo shodan da 3 mesi (e portava con sé anche tutte quelle ombre che lui stesso nemmeno si immaginava di possedere).

Trent'anni fa le cose non erano come lo sono adesso: pure io ho iniziato ad insegnare pochi mesi dopo avere ricevuto il nidan... e mi sono trovato "buttato li", alla direzione di un piccolo gruppo, senza ben sapere né dove volessi andare... ma nemmeno dove si potesse andare!

Ora solo mi rendo conto di quanto ho fatto pagare ai miei allievi di allora la mia notevole impreparazione e le mie considerevoli lacune di consapevolezza, nonostante vi assicuro che tentassi di dare il meglio di me ad ogni lezione.


In conclusione...

Mentre è molto complicato definire una persona (e definirsi) con un semplice numero, questa operazione invece ha senso nel momento nel quale diamo valore a chi questo grado ce lo attribuisce.

Quindi ciascuno scelga la persona o l'Ente certificatore che meglio lo specchia; nel Post ho sempre specificato cosa fa la Federazione, perché girando l'Italia vedo cose diversissime fra i praticanti ed insegnanti provenienti dai vari Enti di Promozione Sportiva o Scuole private. I prerequisiti a questo o quel grado dan sono tremendamente differenti, quando non addirittura contrastanti fra loro.

Per gli amanti del Giappone e della sua tradizione è bene sapere che i kanji utilizzati per shodan [初], nidan [弐] e sandan [参], sono differenti da quelli che si usano di solito per i relativi numeri ichi [一], ni [二] e san [三]... e questo per evitare facili falsificazioni sui certificati.

Dal 6º dan in poi non vi dico nulla, perché non è ancora nelle mie competenze farlo: magari un giorno ci arriverò pure io (appartenendo ad una Organizzazione nazionale ad una internazionale fra loro indipendenti, ogni sforzo è sempre doppio e di tempi tendono ad allungarsi in modo notevole)... ma ciò che già ora vi so dire è che non ho per nulla fretta... che credo che certe cose debbano avvenire naturalmente, oppure è meglio che non avvengano proprio...

.. e che se ci sono 6º dan di un Ente che faticherebbero ad arrivare al 3º in un altro (e viceversa) sono problemi degli altri: io vi ho dato una mia visione dei gradi, perché c'è modo e modo di fare DANni e di essere DANnato... e vista la maledizione dell'Aikido che mi ha colpito ormai 32 anni fa, per me ho scelto quella che ritengo la migliore.


Marco Rubatto


 


lunedì 25 marzo 2024

[以心伝心] I shin den shin: il rapporto Maestro-Allievo

Non è per nulla banale descrivere con un minimo di compiutezza il complesso rapporto che esiste fra un Maestro ed un Allievo... ma il fatto che non sia facile, non ci impedisce però comunque di provarci.

Posso sperare di poter cogliere qualcosa di questo rapporto, perché lo vivo da entrambe le prospettive: sono un Maestro di un numero sempre crescente di persone, ma sono contemporaneamente anche un Allievo... e così ho ancora intenzione di rimanere, fino a quando la strada non mi suggerirà qualcos'altro.

Qui in occidente facciamo i corsi di qualsiasi cosa perché pensiamo di imparare delle nozioni specifiche, magari di acquisire delle skills particolari... ma secondo la tradizione in oriente - dove la nostra disciplina è nata - i corsi si frequentavano ben in altro modo e per ben altre ragioni.

Il "Sensei"/mentore è colui che è "arrivato prima" sulla Via che anche noi stiamo percorrendo, quindi ci AFFIDIAMO a lui, perché ci guidi lungo il cammino...

Si, ma quale cammino?

Il SUO o il NOSTRO?

Utilizza il SUO cammino, per aiutarci a percorrere il NOSTRO: se facesse altro, starebbe manipolando il suo allievo/apprendista.

Cosa ci guadagna il Sensei a fare il Maestro?

È un filantropo, che compie la sua opera di insegnamento per motivi esclusivamente altruistici? Manco per il kakkyo!

Un modo che ha il "Maestro" per migliorarsi è quella di SPECCHIARSI nei suoi allievi e - dando se stesso completamente a loro - fa spazio perché qualcosa di nuovo in sé possa nascere e crescere.

Egli si dona, ma ha un suo tornaconto nel farlo... anche se questo tornaconto non lo deve chiedere agli allievi in modo diretto o indiretto, sotto forma di gratitudine, o di qualche forma di riconoscenza.

Ho detto che non lo deve pretendere, non che sia sbagliato che gli allievi provino gratitudine e riconoscenza per il loro Sensei: quando questo avviene in modo spontaneo è qualcosa di nutriente e piacevole, non deve però diventare un nutrimento che viene preteso o dato per scontato.

Ogni tanto accade: diciamo che 2-3 allievi su 10 tendono ad essere spontaneamente riconoscenti, statisticamente parlando.

Il Maestro quindi fa il Maestro perché questo è il modo grazie al quale evolvere.

L'Allievo - d'altra parte - è sulla Via perché ritiene che starci sopra sia per lui meglio che non farlo: anch'egli crede che quello sia il suo modo di evolvere, di fare il prossimo passo nei confronti di se stesso. Di solito si approccia al suo cammino perché vuole risolvere alcuni suoi problemi contingenti e crede che fare un determinato percorso glielo consentirà.

Solo che è un novellino ed è alla ricerca di un mentore che gli possa dare supporto in un cammino denso di parecchio potenziale... ma anche irto di insidie, pericoli e trappole.

L'Allievo quindi comprende che affidarsi ad un mentore diventa una sorta di scorciatoia, che gli consente di non perdere troppo tempo ad imparare dai propri errori... ma facendo tesoro degli errori che ha già fatto qualcun altro prima di lui. In questo modo si sancisce una DOPPIA forma di interesse di queste due figure ad entrare in relazione:

- il Maestro per evolvere ulteriormente GRAZIE al rapporto con i suoi allievi;

- gli allievi per evolvere più rapidamente di quanto sarebbero capaci di fare sono contando sulle proprie forze.

Da ciò che si evince che Maestro ed Allievo si utilizzano a vicenda per ottenere in fondo la stessa cosa... anche se a livelli differenti di consapevolezza e di profondità.

Dovrebbe essere quindi un rapporto WIN/WIN, più che una relazione di origine parassitaria, nella quale l'uno scrocca qualcosa dall'altro...

Trovare un bravo Maestro quindi è qualcosa di molto importante perché il nostro cammino sia proficuo... tant'è che in oriente si dice: "Tre anni spesi a cercare il proprio Maestro, non sono tre anni sprecati".

Quindi ora mi declino nelle DUE prospettive specifiche, per provare a delinearne i tratti.


IO ALLIEVO

Quando sono con il mio Maestro, mi trovo in una dimensione molto particolare, poiché sento di "funzionare" spontaneamente in modo molto più potente di quello normale. In sua compagnia le intuizioni che arrivano sono continue, come in uno stato di "iper stimolazione" della mia intuitività; è come se "mi accendesse"...

Spesso sono anche il suo traduttore (perché parla inglese) e questo mi consente di andare quasi in consonanza di pensiero, in qualche modo di percepire la sua intenzione comunicativa ancora prima di sentire i fonemi che pronuncia. È uno stadio di comunione personale molto intenso ed energicamente molto dispendioso da mantenere per periodi prolungati.

Quando viene a trovarmi per 3 giorni, poi me che ne vanno 10 per riprendermi dalla fatica (che in questo caso è anche organizzativa degli eventi, oltre che psico-fisica): però sono giorni densi, che possono poi essere "spacchettati" per i mesi seguenti... quasi che il nutrimento che ricevo in poche ore poi possa essere materiale sul quale lavorare per un tempo molto più lungo, quando poi saremo di nuovo lontani.

Il mio Maestro abita in Svizzera, quindi di solito ci vendiamo circa 3 volte all'anno, per un totale di 10-12 giorni in tutto. Poi ci sentiamo spesso e restiamo sempre in contatto... ma ogni incontro è qualcosa di particolarmente denso e significativo, qualcosa che "lascia il segno".

Essendo egli deputato ad indicarmi anche i possibili sbagli che sto commettendo, le trappole e le perdite di tempo nelle quali posso perdermi, non è sempre piacevole stare in compagni del mio Maestro, specie quando egli - per suo stesso mandato - deve correggermi e magari rimandarmi le pecche che vede in me.

In passato lo pativo un po', perché prendevo le sue indicazioni, ed anche alcuni suoi rimproveri, come qualcosa di molto personale... qualcosa che avrei desiderato finisse il prima possibile.

Dopo ANNI di rapportazione però ora le cose sono cambiate, ed inizio a comprendere in modo sperimentale l'importanza di quel "i shin den shin" (comunicare da cuore a cuore) che la tradizione giapponese rimanda come ESSENZIALE.

L'unione deve essere pressoché totale, pur entrambi consci di essere due persone differenti, talvolta con idee anche molto distanti fra loro (anche in contrasto, in alcuni ambiti): ma non è una questione di essere "uguali", ma di essere "insieme" nel modo più intimo ed autentico in una relazione di mutuo supporto ed evoluzione.

Prendermi cura del mio Sensei è qualcosa che mi onora, ma che mi viene naturale anche se questi non me lo richiedesse: se lui sta bene, sta bene la mia fonte di evoluzione... non è altruismo per me metterlo a suo agio, forse è più sano egoismo, perché potrò evolvere di più e più velocemente!

Non c'è spazio per nessuna forma di "servilismo" dovuto al mio status di allievo, nei confronti di una figura ritenuta "superiore": questo è un equivoco molto comune, ma il Maestro non è per niente superiore all'Allievo... è solo ad un altro stadio dello stesso processo, ma in fin dei conti anch'egli continua ad essere un allievo (di qualcun altro, o per sua stessa attitudine rispetto alla vita).

C'è una forma di paradosso molto complesso da comprendere: è un rapporto alla pari fra due figure molto diverse fra loro... qualcosa che la mente razionale fa fatica a spiegare, ed è forse proprio per questo che nella tradizione si parla di comunicazione "da cuore a cuore".

Qualcosa che va sentito e vissuto emotivamente, ben al di là della logica o del mero livello mentale; ma quante persone al giorno d'oggi si lasciano trasportare in una relazione interpersonale così intensa, profonda e complessa?

Una relazione nella quale l'entanglement (direbbero i fisici) è praticamente assoluto: non per nulla un tempo gli allievi VIVEVANO insieme al Maestro, lo supportavano nelle faccende di casa, come fossero familiari consanguinei. Non c'era una frequenza bisettimanale per un paio d'ore... il coinvolgimento personale era (ed è ancora nelle Scuole tradizionali) molto intenso, ovvio che ci si conoscesse tutti ad un livello molto profondo, condividendo ogni giorno e per anni momenti legati alla pratica e momenti di normale vita quotidiana.


IO MAESTRO

A differenza di un tempo, non ho alcun timore a definirmi "Maestro", mentre per molti anni in passato mi è parso che questo termine fosse un po' ridondante o altisonante per me. E questo cambiamento NON è avvenuto perché una Federazione Nazionale mi ha fornito un foglio di pergamena sul quale c'era scritto "Maestro"... ma quando ho compreso di essere giunto ad una qualche livello di "maestria" di ciò che faccio... non di tutto e non sempre, ovviamente.

Il fatto di essere "Maestri" infatti è tutt'altro sinonimo di essere perfetti o infallibili, anzi: abbiamo visto poc'anzi che il Sensei è egli stesso in un processo evolutivo costante... quindi destinato a cambiare in continuazione, nella speranza di migliorarsi.

Il rapporto con i miei allievi di solito è abbastanza sereno, ma non sono mancate (e non mancheranno) i momenti di tensione e le difficoltà da superare.

Quello che è palese ai miei occhi è che pur riversando notevole impegno del dare supporto a tutti loro, ci sono alcuni più capaci di altri di fare tesoro di ciò. Alcuni sembrano impermeabili a qualsiasi tipo di rimando che serva loro a crescere. Stanno li, un po' come soprammobili, che sembra abbiano intenzione - un giorno - di rendere operative le informazioni che hanno ricevuto...

Siccome pretendo abbastanza da me stesso, tendo a pretendere molto anche da loro... e non è sempre semplice per me a livello emotivo costatare quanto la loro voglia di apprendere sia spesso solo una frazione di quella che mi sarei atteso che avessero.

Sto imparando - dopo anni - a non prendere troppo sul personale la delusione delle MIE aspettative, ricordandomi appunto che erano le MIE e che come tali potevano essere solo delle proiezioni illusorie sugli allievi, distaccate dalla realtà dei fatti.

Alcuni - pochissimi in realtà sul numero totale - noto che provano a mettersi nei miei panni e non pre-giudicano le mie azioni senza prima avere compiuto l'inestimabile tentativo di "comprendermi".

Ho ben chiaro come talvolta risulti quasi insopportabile per diversi allievi, e ciò mi spiace... ma vorrei dire loro che anche in questo non vi è nulla di personale contro di loro, se non il desiderio di offrire più supporto possibile.

Il difficile è aiutare con la stessa lingua con la quale si desidera essere aiutati però: molti di loro non sanno ancora nemmeno ciò di cui necessitano sul serio, quindi è naturale che mi vivano come un rompiballe quando smonto i loro castelli in aria, nel tentativo di farli aderire di più alla (loro) realtà.

Il mio ruolo è sempre border-line, perché un aiuto in meno è poco ed un aiuto in più può rivelarsi troppo: l'arte sta nel crescere con loro, ma attendendo che ciascuno impieghi il proprio tempo per farlo. E ciò è complicato da realizzare e vivere ogni giorno.

In passato sono stato sicuramente un cattivo Maestro, perché ora mi rendo conto di avere fatto moltissimi errori, sia con me stesso, che con i miei allievi: non so se ora sono meglio, ma sicuramente cerco di utilizzare le mie esperienze (anche quelle più fallimentari) per calzare il ruolo meglio che posso.

Alla fine, anche in questo, Maestro ed Allievi sono simili: fanno tutti "meglio che possono", anche quando sembra che ciò non sia sufficiente all'una o all'altra categoria.

Essere Maestro mi sta insegnando molto sulla pazienza e sulla lungimiranza, e sul paradosso del rimanere libero e lasciare liberi gli altri.

Impegnarsi in una disciplina come missione nella vita lascia poco spazio ad eventuali ripensamenti o cambi di rotta, poiché tutto è finalizzato in un'unica direzione, che per me è l'Aikido.

Non posso però certo pretendere che - siccome ho fatto questa scelta - la debbano fare pure i miei allievi: in questo senso è come se pretendessi da me tutto e dagli altri solo ciò che ritengono sano offrire alla disciplina.

Questo insegna parecchio sulla gratuità del dare, o perlomeno (siccome abbiamo visto che anche il Sensei ha un suo tornaconto) sul dare senza voler tenere sotto controllo come, cosa e quando le cose potrebbero tornare indietro. É un esercizio di fiducia in sé e nella strada che ciascuno ha scelto di percorrere.

Questo trovo che sia un esempio vivo, concreto e potenzialmente molto ispirante da offrire al prossimo... anche senza pronunciare una sola parola.

Un Allievo cerca nel rapporto con il suo Maestro una Via per riconnettersi a se stesso, ma forse un Maestro fa altrettanto con l'allievo, pur in modo più consapevole: ne segue che l'allievo alle prime armi forse vorrebbe fagocitare il proprio Sensei... vorrebbe spremerlo come un limone, per poi magari buttarlo via quando non gli sembra più utile.

Un Maestro invece sa che ci va rispetto sempre e con tutti, provando a continuare a rispettarsi, mentre prova a rispettare anche tutti coloro che camminano dietro a lui, o al suo fianco.

Un ultimo pensiero lo dedico a quei miei allievi che, in qualche modo, hanno scelto a loro volta la via dell'insegnamento: sono già parecchi ormai, e con loro il rapporto è particolarmente significativo, anche se non sempre semplice.

Non sono più solo Allievi, ma ai miei occhi non sono ancora diventati veramente Maestri: sono in una terza inedita posizione, qualcuno da non chiamare più "neofita", ma da non poter chiamare ancora del tutto "collega".

Con loro cerco di collaborare più come fratello maggiore che come "Sensei che fa piovere le cose dall'alto" (in realtà questa è una cosa che cerco di evitare pure coi neofiti!), eppure anche in questo caso non è sempre facile comunicare... perché alcuni di essi non si rendono conto di quanto già potrebbero fare ANCHE senza il mio aiuto, mentre altri non si rendono ancora conto quanto POCO potrebbero in realtà fare senza il mio aiuto.

Alcuni si credono 6º kyu, anche quando sono 2º dan, altri si credono 8º dan anche se sono 2º dan: cosa fare in questo casi?

Provo a metterci il cuore ed a ricordarmi quando ero io al loro posto: alcune volte ci incontriamo proprio a livello del cuore, con il BENE che ci vogliamo a vicenda e che ci consente di farci tralasciare cosa ci divide, per farci apprezzare cosa di inestimabile ci unisce.

Insomma, è proprio vero che la tradizione ha avuto tempo di vederci chiaro e bene: pensavo che il cuore fosse solo una pompetta per il riciclo del sangue... invece sto riscoprendo essere un importantissimo connettore fra i destini delle persone... i shin den shin.


Marco Rubatto




lunedì 18 marzo 2024

[杖形] Jo kata: la ricerca infinita, attraverso movimenti definiti

Continuiamo la nostra esplorazione della "forma" attraverso  lo studio dei kata di jo che ci ha lasciato il nostro Fondatore.

Per certo sappiamo che essi sono solo 2... due e mezzo se contiamo la breve forma ciclica contenuta dentro ad uno dei due: si tratta di...

- 31 no jo kata

- 13 no jo kata

( e 6 no jo kata, contenuto dentro 31 no jo kata)

Questi sono i cosiddetti kata [開祖直伝] "Kaiso jikiden", ovvero trasmessi direttamente da Morihei Ueshiba a Morihiro Saito Sensei, forse unico suo Deshi stabile al tempo dello studio ed approfondimento dell'Aiki jo ad Iwama.

Molti sono però i suoi allievi che hanno studiato queste forme e diversi fra loro hanno poi codificato una serie piuttosto vasta di visioni personali dei kata di jo.

Quest'oggi però ci soffermiamo sul SOLO lavoro del Fondatore, che consideriamo particolarmente importante per cogliere alcuni aspetti che erano preminenti per la pratica di quest'ultimo.

Iniziamo dal 1º kata, ovvero "31 no jo kata"...

É una forma bella lunga, che ha visto numerose modifiche e variazioni prima di essere "chiusa" come oggi noi la conosciamo.

Questo ci da una prima enorme ed importante informazione: Morihei Ueshiba era in un percorso evolutivo, perché continuava a cambiare nel tempo... quindi e vogliamo fare ciò che ha fatto lui, dobbiamo darci lo stesso permesso.

Lo dico perché ci sono alcuni puristi che vorrebbero che tutti si LIMITASSERO a scimiottare SOLO i movimenti col il jo che faceva il Fondatore, o - al limite - Saito Sensei, di fatto estromettendosi da uno degli aspetti più importanti di una disciplina tradizionale... ovvero la sua mutevolezza nel tempo.

NO, se vogliamo fare come fece O' Sensei, dobbiamo darci l'opportunità di cambiare nel tempo, come fece lui stesso, sperando ovviamente di diventare meglio di ciò che eravamo in passato (non di certo peggio!)



Nel video precedente vengono esaminati:

- movimenti rispetto ad un sistema di riferimento fisso;

- ricorrenze dei movimenti all'interno della forma;

- respirazione durante l'esecuzione della forma;

- cambiamento della forma quando la si pratica in modo veloce.

Per i più curiosi, ecco una clip che mostra questo kata nel 1964, ovvero quando era ancora in fase di evoluzione, contava 32 movimenti, anziché 31... ed aveva un inizio ed un finale leggermente differenti...



Ecco invece 6 no jo kata, ovvero la forma ciclica, contenuta in 31 no jo kata (dal movimento 13 al movimento 18)...



Si tratta di un esercizio particolarmente adatto per i principianti, poiché riesce a connettere fra loro 2 suburi di base (tsuki jodan gaeshi uchi e menuchi gedan gaeshi) e può essere agilmente utilizzato per mostrare come respirare dentro alle sequenze preordinate di movimenti, utilizzando il fatto che questa forma risulta "simmetrica", con 3 movimenti di affondo (espirazione) e 3 movimenti di preparazione a tali affondi (inspirazione).

Naturalmente, per comprendere a fondo 31 no jo kata è necessario studiare anche il suo "bunkai", ovvero la sua applicazione a coppia, praticando 31 no kumi jo... ma ci torneremo presto in un futuro Post...

Veniamo invece al 2º kata vero e proprio, ovvero 13 no jo kata...



Anche in questo caso, nel video precedente possiamo vedere:

- movimenti rispetto ad un sistema di riferimento fisso;

- ricorrenze dei movimenti all'interno della forma;

- respirazione durante l'esecuzione della forma;

- cambiamento della forma quando la si pratica in modo veloce.

Si tratta di una forma molto più corta della precedente, ma in alcuni suoi elementi addirittura più complessa... Iniziamo col dire che è un lavoro lasciato INCOMPIUTO da Fondatore, poiché alla sua morte non aveva ancora assunto una forma stabile e definitiva (al contrario di 31 no jo kata).

Cosa avrebbe potuto sviluppare oltre il 13º movimento Morihei Ueshiba è qualcosa che non sapremo mai con certezza. I primi 13 movimenti però erano divenuti stabili, ed è per questo che Morihiro Saito Sensei ha tramandato SOLO quelli.

Immaginate, infatti, di comparire nel Giappone del secolo scorso, intorno al 1965-1968, e dover tramandare ciò che vedete fare al vostro Maestro, senza avere più di tanto strumenti fotografici o video per immortalare i suoi movimenti. Prima di YouTube c'era la MEMORIA personale dei praticanti ed il tentativo di tramandare ciò che avevano visto e capito (che poteva essere pure molto differente da ciò che il Sensei tentava di comunicare loro!)

Tradizionalmente, 13 no jo kata si studia anche a coppie, ma in modo differente rispetto a 31 no jo kata: mentre infatti per quest'ultimo esiste una vera e propria applicazione a coppia... per il primo esiste una forma di armonizzazione a blocchi, chiamata 13 no jo awase.

Più recentemente (anni 1990 - 2000) è stata sviluppata anche una forma di kumijo simile a quella che si utilizza nel 31 no ho kata, ma io non l'ho mai vista spiegare, né praticare da Morihiro Saito... quindi tendo a pensare che sia una forma più elaborata dai suoi allievi, che ereditata direttamente dal Fondatore.

Come detto, però, di tutto ciò che è applicativo ed a coppie ci occuperemo presto altrove...

OGNI kata ha elementi comuni: movimenti di parata e movimenti di attacco ad avversari immaginari (che possono rendersi fisici nel lavoro applicativo a coppia) e cambi di direzione di 180º, ad indicare l'intenzione di fare fronte a più avversari che attaccano in contemporanea (o entro un breve lasso di tempo, ma), provenienti da direzioni opposte.

A titolo puramente storiografico, riportiamo di seguito un kata desueto, composto da circa 18 movimenti, che veniva praticato dal Fondatore intorno al 1964: noteremo che anche questa forma ha le stesse caratteristiche delle 2 più famose e giunte a noi oggi.


Non so dirvi molto su quest'ultimo kata, proprio perché l'ho scoperto solo durante la pandemia, quando ho avuto il tempo di esaminare in modo più approfondito alcuni filmati storici: ecco però un altro brillante esempio del fatto che Morihei Ueshiba cambiava ed evolveva in continuazione... già che questa forma è stata poi abbandonata (da essa però si vede come siano stati presi diversi movimenti, che sono poi stati codificati nei jo suburi, come gli hasso gaeshi go hon e i nagare gaeshi go hon).

Attraverso la ripetizione di alcune forme - come spesso avviene nella cultura giapponese - si cerca di sviluppare alcune particolari e specifiche skills: velocità, equilibrio, potenza, prontezza, mente libera, rilassatezza, determinazione, precisione... etc.

E ciò può avvenire INDIPENDENTEMENTE dalla forma che si utilizza: in ciò trovano giustificazione secondo me chi utilizza anche forme differenti da quelle che ho mostrato poc'anzi.

E di kata di jo c'è solo l'imbarazzo della scelta: per stare ad Aikidoka famosi, Koichi Tohei Sensei, Hiroshi Tada Sensei e Hirokazu Kobayashi Sensei... sono 3 Maestri che hanno dato il LORO apporto personale allo studio ed allo sviluppo di nuovi kata, che si vedono essere "imparentati" con quelli di O' Sensei, pur divergendo da essi in più movimenti.

Se poi andiamo a cercare jo kata nelle Scuole di Scherma tradizionale e di Jodo credo ci sia solo l'imbarazzo della scelta!

Il mio interesse a LIMITARMI allo studio di ciò che ha elaborato il Fondatore non vuole essere una forma di chiusura ad ulteriori interpretazioni del suo lavoro... ma proviene da 2 differenti constatazioni:

- la mia curiosità ed intenzione di tentare di conoscerlo ATTRAVERSO le sue opere, un po' come si tenta di conoscere uno scrittore leggendo i suoi libri, o un vasaio... esaminando nel dettaglio i vasi che ha realizzato;

- il mio notare che lo studio continuativo di 2 soli kata (31 e 13 no jo kata), con le loro numerose applicazioni a coppie mi ha richiesto oltre 25 anni di pratica ininterrotta, e continuo tutt'ora a trovare sacche di nuovo ed inesplorato al loro interno.

Per questa ragione mi limito a questo lavoro: non perché schifi il resto, ma perché sento che per me c'è ancora tantissimo da studiare e comprendere in queste SOLE 2 forme. Se ne facessi altre, amplierei la vastità del mio repertorio, ma ridurrei la profondità delle mie conoscenze specifiche.

É come scegliere di fare un cratere largo 2 chilometri, ma profondo 1 metro... oppure fare un buco di 1 metro, ma profondo 2 chilometri: sono scelte personali.

Per questa ragione ho titolato il Post "una ricerca infinita, attraverso movimenti definiti": per me è questo che sono i jo kata... e continuare tutt'ora a scoprire quanto essi siano imbibiti di elementi e principi di Aiki ken e taijutsu rende questa ricerca ancora più completa ed avvincente.

Vi lascio con un prezioso reperto video storico, ovvero Morihiro Saito Sensei che nel 1979 (soli 10 anni dopo la morte del Fondatore) da un'ampia dimostrazione del buki waza di base di fronte all''Aiki Jinja. Buona visione!



Marco Rubatto