giovedì 25 aprile 2024

ELOGIO DELL'INCONSCIO

 L’ultima opera di Recalcati, “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio”, riflette sul ruolo della psicanalisi, indebolito dallo sviluppo delle neuroscienze e degli psicofarmaci, ma che rimane un antidoto contro la disumanizzazione della modernità

-         di Massimo Recalcati

Il destino dell’inconscio sarà eguale a quello dei dinosauri? Po­trebbe, l’inconscio, andare incontro a una fatale estinzione? E la psicoanalisi? Non è forse oggi minacciata davvero dal rischio di scomparire per sempre? E gli psicoanalisti? Quale sarebbe la loro responsabilità per questa estinzione? Insomma, quale sarà l’av­venire della psicoanalisi nella nostra civiltà? Quale sarà, cioè, la possibilità per il soggetto dell’inconscio di continuare a esistere?

Pongo queste domande in una forma volutamente estrema e pa­radossale – inutile ricordare che tra un dinosauro e l’inconscio pas­sa una certa differenza –, per andare immediatamente al contenuto di questo libro. Si tratta dell’elogio appassionato di uno psicoanali­sta nei confronti di quel particolare oggetto – l’inconscio – che og­getto non è, nel senso che non risponde alla nozione empirica di oggetto, e che costituisce il centro dell’attività teorica e clinica del­la psicoanalisi.

È vero, in questi due ultimi decenni la stella della psicoanalisi, che ha conosciuto il suo massimo splendore dopo la contestazione del Sessantotto, negli anni Settanta-Ottanta, sembra davvero destinata a un avvenire piuttosto incerto. La comparsa di psicofar­maci sempre più potenti ed efficaci nel trattamento della sofferenza cosiddetta «mentale», la diffusione delle terapie cognitivo-compor­tamentali, i progressi delle neuroscienze, l’invasione di una cultura psicologica generica sono solo alcuni tra i fenomeni che sembrano condannare la psicoanalisi a non essere altro che un residuo d’ar­chivio dell’Ottocento.

Questo libro vuole invece ricordare che la psicoanalisi è più che una terapia, e che la sua difesa non è solo una difesa corporativa di un ceto professionale in crisi. La difesa della psicoanalisi è la di­fesa di un’etica della responsabilità e di una teoria critica della so­cietà di cui ancora oggi abbiamo un grande bisogno. Tale è, molto in sintesi, la posta in gioco di questo piccolo libro: elogiare gli ele­menti a mio giudizio cruciali dell’esperienza analitica, difendere la sua causa, che non è solo la causa della psicoanalisi in senso stret­to, ma coinvolge anche una intera concezione dell’uomo che si so­stiene sull’importanza del pensiero critico e sul carattere particola­re e incommensurabile del desiderio soggettivo.

 Agli interrogativi sull’estinzione della psicoanalisi e del suo og­getto, nel libro se ne aggiungono altri che sono relativi agli effet­ti di questa eventuale estinzione. Quale genere di catastrofe antro­pologica comporterebbe l’estinzione dell’inconscio? O, in termini meno enfatici e meno drammatici, cosa sarebbe, cosa diventereb­be un uomo senza inconscio? Di fronte a quale forma di mutazio­ne mentale ci ritroveremmo? Che cosa sarebbe un uomo, o, se vo­lete, più radicalmente, l’uomo, se l’inconscio si estinguesse? Forse potremmo trovare le sue versioni più terribili e tristi nelle figure del tiranno o del burocrate? O in quella più efficiente e disumana della macchina?

Il tiranno, il burocrate e la macchina hanno, in effetti, in comune l’assenza di desiderio. Forse un uomo senza inconscio sa­rebbe davvero l’incarnazione di un uomo grigio incapace di sogno, dunque di desiderio. Un uomo senza inconscio sarebbe l’uomo ri­dotto a una macchina senza desiderio? Non c’è, in effetti, per la psi­coanalisi malattia più terribile che questa: vivere senza avere acces­so al proprio desiderio.

Il compito della psicoanalisi e, soprattutto, degli psicoanalisti è innanzitutto quello di difendere l’esistenza dell’inconscio da ciò che ne minaccia l’estinzione. Lo psicoanalista, secondo Lacan, fa parte del concetto di inconscio, nel senso che permette al soggetto di fare esperienza dell’inconscio, del suo inconscio. Non si tratta semplicemente di difendere l’esistenza della psicoanalisi, ma quella dell’inconscio come indice del carattere irriducibile della parti­colarità del soggetto che invece lo scientismo contemporaneo vorrebbe poter liquidare.

 

“Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” (Castelvecchi editore), Massimo Recalcati, 2024, pp. 144, € 17,50

LA PREGHIERA DI GESU'




- di P. Giuseppe Oddone



 Premessa

Il terzo sussidio presentato dal Dicastero per l’evangelizzazione, pubblicato sempre dalla Libreria editrice vaticana, per aiutarci a vivere questo anno di preghiera, ha il titolo “La preghiera di Gesù”.

E’ stato scritto da Juan López Vergara, biblista messicano, docente all’Instituto Bíblico Católico di Guadalajara. La tesi di fondo è questa: “Un desiderio profondo abitava Gesù: è essenziale per lui essere con il suo Abbà. La sua preghiera è incessante ed instancabile”.

L’autore, con una operazione per alcuni aspetti soggettiva e anche discutibile, trasforma in preghiera venti episodi significativi del Vangelo. Entra nel cuore di Gesù di Nazareth, rivive il mistero della sua filiazione unica, dal Battesimo alla sua morte in croce, e dopo una breve presentazione del passo evangelico e la sua trascrizione immagina di ricostruire l’orazione che fiorisce sulle labbra di Gesù rivolta al Padre, il suo Abbà. Lo fa anche con un tocco di poesia e di psicanalisi, perché nella sua preghiera Gesù rivive anche alcuni aspetti della sua infanzia, in particolare col suo papà terreno Giuseppe e con sua madre Maria.

L’autocoscienza di Gesù

Occorre tuttavia tener presente quanto il magistero ordinario della Chiesa, facendo riferimento alla predicazione degli Apostoli, ai Vangeli Sinottici, ed al Vangelo di Giovanni ha precisato sull’autocoscienza di Gesù. Si può riassumere in quattro affermazioni: Gesù aveva coscienza di essere il figlio unico di Dio ed in questo senso di essere egli stesso Dio; Gesù aveva chiaro lo scopo della sua missione di Messia: annunciare il regno di Dio e renderlo presente nella sua persona; Gesù era consapevole di fondare la “sua” Chiesa, costituita poi in modo definitivo negli avvenimenti della Pasqua e della Pentecoste, per continuare la sua missione; Gesù sapeva di morire per tutti e non escludeva nessuno dal suo disegno di salvezza. Ciò non toglie tuttavia che l’autocoscienza di Gesù abbia avuto un suo sviluppo, perché egli è completamente uomo con un corpo, un’anima, una volontà umana, dei sentimenti, delle reazioni alle persone ed agli avvenimenti imprevisti che via via la vita gli presenta.

Il Vangelo è esplicito su questo punto: “Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio ed agli uomini” (Lc. 2.52).

Il ricordo di Giuseppe

La crescita di Gesù in sapienza, in grazia, in consapevolezza umana della sua realtà e missione di Figlio di Dio è la linea scelta dall’autore. Nel ricostruire i sentimenti e la preghiera di Gesù riaffiora spesso il ricordo dei suoi genitori terreni. Così dopo l’incontro di Gesù con i suoi compaesani a Nazareth, egli prega così: “Abbà, ogni sabato il custode permetteva a mio padre di avvicinarsi ai rotoli sacri. Egli li baciava con riverente pietà. Pieno di ricordi mi ritrovai a piegare a posare la mia testolina sul suo petto. In uno slancio spontaneo mi baciò ed abbracciò la fronte con la stessa riverenza con cui baciava i rotoli sacri. In quell’eterno istante ho sentito il mio essere risplendere della sacralità del mistero. Sì, era un uomo semplice, con la gloria degli umili, convinto che la vita è bella e vale la pena di essere vissuta… Il sentimento dominante verso di lui, che abita il mio essere fin dall’infanzia, è intriso di enorme gratitudine, caro Abbà” (pag. 35).

Il ricordo più intenso di Giuseppe riemerge quando Gesù eleva al suo Abbà la preghiera dopo aver insegnato ai discepoli il Padre nostro, quasi un’eco delle preghiere che egli aveva imparato nella sua casa di Nazareth: “Mio padre aveva un carattere piacevole, ma solenne. Irradiava pace, Abbà… aveva l’anima rivolta verso di te. Quanta fiducia aveva nella tua amorevole bontà… ho mantenuto un profondo affetto per lui. C’è un motivo di gioia ancora più grande: lui custodiva un mistero, che io percepivo instaurarsi nella sua anima alla fine della giornata, quando credendo che dormissi veniva presso il mio letto a darmi un ultimo bacio e, non senza alzare gli occhi a te, pronunciava una preghiera… Mi ha insegnato che senza fiducia non si può vivere.

La fiducia è comunione. E quella immensa fede aperta alla tua immensità è una delle benedizioni più dolci che ho ricevuto da te, Abbà, attraverso papà, che ricordo con una ammirazione sempre rinnovata” (pag.61-62). E anche quando Gesù eleva la preghiera dopo aver raccontato la parabola del Padre misericordioso e del figliol prodigo, riaffiora il ricordo di Giuseppe, quasi una proiezione del padre della parabola: “Nella mia adolescenza, di fronte alle richieste di mia madre, mentre ero a Gerusalemme per la Pasqua, le espressi il mio incontro con Te in mezzo ai maestri… Quando mi riferii a te come mio Padre, guardai Giuseppe e gli sorrisi. Lui abbassò la testa con gli occhi bagnati di lacrime. Questa reliquia di infanzia mi ha segnato, potrei chiamarti così senza il suo esempio, Abbà? Sempre sensibile alle tue benedizioni, mi diceva di ringraziarti perché sei buono, perché il tuo amore è eterno. Lui e mia madre mi hanno insegnato a fare della mia vita una preghiera di gratitudine” (pag. 116).

Il ricordo di Maria Anche il ricordo di Maria ritorna nelle preghiere che Gesù eleva al suo Abbà. Mentre Gesù è tentato da Satana, il pensiero rivolto a sua madre gli fa superare la prova e gli testimonia che Lui stesso è la Parola: “Si trattava della mia santa madre che, all’alba di un giorno luminoso, con amorosa sollecitudine contemplativa gustava il mistero della tua Parola. Sembrava che la sua anima fosse sempre in preghiera. Lei aveva fissato i suoi occhi nei miei, facendomi capire che la tua Parola aveva un nome. Questo lo doveva aver sperimentato con grande forza, al punto di sentirsi figlia del suo Figlio” (pag. 25-26). A Cana di Galilea Gesù compie il primo dei suoi prodigi; non era tuttavia nei suoi programmi, tanto che egli sembra inizialmente respingere sua madre. Ma è determinante l’incoraggiamento di Maria con il suo sguardo materno, come se gli dicesse: “Vai, è il tuo momento! Lo devi fare!”. Ella dilata l’anima di Gesù ed accelera l’inizio del Vangelo, manifesta la gloria del Figlio e suscita la fede dei discepoli. “Le sue parole, Abbà, non si adattavano al mio piano di vita! Lei, impregnata di tenerezza che sgorga dal suo cuore puro ed umile, fece finta di nulla ed ordinò ai servi di fare ciò che io avrei detto loro. E, nonostante che il progetto fosse turbato, Abbà, ho sentito un raggio di luce percepibile che circolava tra le parole di mia madre….

Abbà, la mia anima si è dilatata. Ho ricevuto una lezione dalla mia santissima madre. Lei è sempre rimasta colma della tua grazia e sorpresa dalla tua parola” (pag. 41-42). Il pensiero di Maria riemerge quando Gesù è inchiodato alla croce e promette al buon ladrone il paradiso. In quel momento Gesù percepisce e comprende pienamente il mistero della sua identità di Figlio di Dio, ricordando il ritorno dei suoi genitori a Nazaret dopo il suo ritrovamento nel tempio. “Un ricordo mi ha segnato, Abbà… Giuseppe fece capire a mia madre che il mio comportamento lo aveva sorpreso. La mamma in un lampo di chiaroveggenza rispose che, se ero un mistero per lui, lo ero ancora di più per lei, e ancora di più per me stesso, che portavo un mistero impossibile da condividere. Questo mistero che mi dà un chiaro senso di identità, finalmente lo capisco, mentre prometto a questo buon malfattore pentito che oggi sarà con me in paradiso” (pag. 141).

L’autore del sussidio “La preghiera di Gesù” si abbandona anche a desideri e a ipotesi personali, non condivise da tutti o per lo meno incerte, non oggetto di fede. Gesù sulla croce prega per la salvezza eterna di Giuda e viene esaudito nel ricordo delle parole di Maria: “Nulla è impossibile a Dio”. Gesù stesso sulla croce ha un dubbio e si chiede se l’inferno non sia vuoto: “Abbà, non ho mai negato l’esistenza dell’Ade, il luogo della punizione eterna, ma ci sarà qualcuno lì dentro?” (pag.135). Ma la concreta possibilità di finire nell’inferno ossia nella lontananza eterna da Dio è chiaramente proclamata nel Vangelo: ”Lontano da me!” (Mt. 25,41).

Nella nostra libertà noi possiamo costruirci orientandoci verso Dio o separandoci da Lui: in questa libertà vi è la grandezza e la dignità della persona umana che deve compiere nella vita delle scelte che riguardano il suo eterno destino. Dio chiama tutti alla salvezza, ma non costringe nessuno; Lui solo sarà il nostro giudice e salvatore e noi non possiamo dire con certezza di nessuno, nemmeno di Giuda, che è dannato. 

L’unione di Gesù con il suo Abbà

Nei venti episodi evangelici presentati dall’autore si riafferma sempre l’unione incessante di Gesù con il suo Padre celeste: è l’esperienza unica della paternità di Dio, è il centro della vita di Gesù, la fonte della sua esistenza, la sua essenza più intima, la luce della sua missione, la lampada per i suoi passi nei vari casi lieti o tristi, sia quando è acclamato ed accolto, come quando è rifiutato e condannato a morte. La preghiera è per Gesù una ricerca costante della volontà di Dio, percepita nello Spirito, una realtà che si apre al mistero trinitario per il Figlio che si è fatto uomo, ma continua a riposare nel seno del Padre. Nella tentazione del deserto, dopo quaranta giorni di contatto con il suo Abbà, Gesù è la Parola che fa riferimento alla parola divina che lo ha preceduto nelle scritture, di cui continua a nutrirsi la sua vita. La preghiera riempie la sua solitudine nelle notti trascorse in contatto con Dio, la sua attività nel contatto con la gente e la proclamazione del Vangelo. “Non voglio dimenticare l’esperienza fondamentale della mia vita: essere tuo Figlio” (pag. 54): un’esperienza sempre approfondita nel corso della sua vita terrena, anche nelle esigenze che comporta per i suoi discepoli, che devono amare Lui al di sopra di tutto, più del padre e della madre. La preghiera di Gesù si rivela pertanto divina come la sua obbedienza al Padre.

Davanti al volto del Padre si erge il volto divino di Gesù; Egli è Figlio suo come nessun uomo può esserlo: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt, 11,27). Noi siamo figli di Dio per grazia, Gesù lo è per natura, ma Egli rimane sempre il modello della nostra preghiera. La preghiera di Gesù si riempie anche di tanti sentimenti umani: di gratitudine, di stupore per il mistero della sua persona, di fiducia nella Provvidenza divina, di commozione per le sofferenze umane, di tenerezza e di amore per i suoi discepoli, per i poveri, per gli ultimi, di sensibilità per la bellezza del creato, di giubilo quando il Padre si rivela ai piccoli.

Ad un certo punto del suo ministero, dopo la confessione di Pietro che riconosce che Gesù è il Cristo, Egli intuisce che è venuto il tempo di offrire la propria vita, di andare a Gerusalemme per affrontare la sua passione, morte e risurrezione e fa questo discorso apertamente: di qui in avanti la preghiera di Gesù si colora di abbandono senza riserve alla volontà del Padre, di luce nell’episodio della trasfigurazione con la certezza della gloria futura, ma anche di gemiti e di lacrime perché passi da Lui questo calice di sofferenza.

Infine, pregando e morendo sulla croce Gesù consegna il suo spirito nelle mani del Padre. Questa è, secondo l’autore, la preghiera conclusiva di Gesù, che sottolinea anche la prospettiva con cui è ricostruita la sua vicenda terrena: “Abbà, ho fatto la tua volontà in ogni momento della mia vita, sono cresciuto alla luce della tua grazia ed ho raggiunto la perfezione. Ora che tutto si è compiuto, so che hai ascoltato la mia preghiera. Una pace mi assale nel dolore più cruento; non mi resta che dirti, Abbà, dall’inizio e dalla perfezione della fede, in una visione del Tutto, che un sentimento eterno mi rivela che nessuno mi sta togliendo la vita, così chino il capo e ti do il mio spirito. Grazie, Abbà per ascoltarmi” (pag. 145-146).

Osservazioni conclusive

L’impostazione dell’autore riflette l’interesse attuale di biblisti e teologi per l’autocoscienza di Gesù di Nazaret; Egli rivela un rapporto unico e speciale con il Padre, ma poiché la sua vicenda è stata anche totalmente umana Egli progredisce sia nella conoscenza della realtà esterna sia in una sempre maggiore e più chiara autocoscienza di essere figlio di Dio, Messia, fondatore della Chiesa, salvatore di tutti gli uomini. In questo senso l’autore parla spesso della fede soggettiva di Gesù, ancora oggi oggetto di discussione, interpretata come affidamento al Padre, fedeltà, obbedienza, dedizione totale alla sua volontà: un aspetto della fede ricevuto da Giuseppe e da Maria, vissuta da Gesù e da Lui proposta a tutti i suoi discepoli. Il mistero del Figlio di Dio che si fa uomo e che possiede in modo perfetto sia la natura divina che quella umana rimane uno dei misteri più grandi, più belli, più coinvolgenti della nostra fede.

Il nostro poeta Dante conclude il suo cammino verso Dio proprio contemplando come nel cerchio divino riflesso, ossia nel Verbo, nella seconda persona della Santissima Trinità, appaia con chiarezza la figura di un uomo, del Figlio di Maria, crocifisso e risorto, verso cui ha orientato il suo sguardo, tutta la tensione della sua intelligenza e del suo cuore. Egli cerca di capire come un uomo possa essere dentro il mistero trinitario, del colore stesso di Dio. Si chiede come può adattarsi la natura umana ad una persona divina, come vi possa trovare spazio. Nonostante tutti i suoi sforzi non riesce a raggiungere il mistero.

Solo la folgorazione della grazia divina realizza il suo desiderio di conoscenza e di amore: “Veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’ indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne”. (Par. XXXIII, 137-141) 

Parafrasando: volevo comprendere come l’immagine di un uomo (di Gesù) si adattasse al cerchio divino (la persona del Figlio) e come potesse trovare posto in esso; ma le mie capacità non erano adeguate per questo; ma ecco che la mia mente fu colpita da una folgorazione di grazia che realizzò il mio desiderio di conoscenza, di amore, di pace. Nell’accostarci a Cristo, nel rivivere la sua preghiera, solo il “fulgore” della grazia che penetra in noi può veramente saziare la nostra “voglia” di partecipazione e di unione alla vita del Figlio di Dio fatto uomo.

P. Giuseppe Oddone 




IL DOVERE DI ESSSERE LIBERI

E’ possibile ragionare di libertà senza retorica nella ricorrenza che più di altre rischia ogni anno in Italia di rimanerne vittima? E' opportuno farne un bilancio sociale e politico quando oggi saremo sommersi da centinaia di articoli e di rievocazioni che guardano al passato, non sempre in modo storicamente ineccepibile, piuttosto che alle responsabilità che abbiamo nel presente e verso le prossime generazioni?

 - di Luigi Sanlorenzo

Non si preoccupi il paziente lettore. Nessuna sponda sarà offerta a chi in questo “venticinque aprile” evoca il tema più sacro alla civiltà umana per sostenere opinioni e posizioni politiche che vedono nella costruzione del consenso sulla paura  o sull’angoscia per la propria sopravvivenza economica.

 Ciò che qui importa è il tentativo di comprendere se la ricorrenza dell’evento fondativo dell’Italia repubblicana che vede inevitabilmente decrescere il numero di testimoni già adulti in quel lontano 1945, trovi riscontri nella consapevolezza delle generazioni più recenti e tra i giovani.

 Se cioè i valori della libertà, intesa nella sua interezza e nelle sue implicazioni sulla vita di ogni giorno, siano o meno entrati a far parte della sostanza del sentimento popolare esprimendosi in comportamenti conseguenti.

 C’era una volta l’Italia priva dei diritti fondamentali di libertà di opinione, di espressione in ogni forma, di aggregazione in formazioni culturali e politiche, di opportunità uguali per ceti sociali, per generi, per provenienze geografiche, per razza o per religione.

Una condizione che, con accentuazioni diverse si ripeteva in ogni parte del mondo poiché anche nella Francia, patria della rivoluzione che cambiò il mondo o negli Stati Uniti che quell’ evento avevano anticipato di alcuni anni e perfino nella Gran Bretagna, patria della democrazia, talune libertà erano negate in nome di pregiudizi razziali, sessuali, politici e culturali che sovente si esprimevano in sanzioni sociali o, come nel caso dell’omosessualità, sottoforma di reati penali.

L’Europa centrale perse la propria libertà dopo l’umiliazione subita da Austria e Germania ad esito della Grande Guerra e gli eccessi della repubblica di Weimar che intimorirono la borghesia e aprirono la strada al nazismo; la Russia di Gogol e di Puskin di Dostoevskij e di Tolstoj scambiò il medio evo in cui era vissuta per secoli con il regime di dittatura più sanguinario e longevo del XX secolo e che oggi prosegue sottoforma di oligarchia economica e sociale.

 L’Italia svendette rapidamente le libertà garantite dallo Statuto Albertino per proteggersi dalla violenza che era dilagata nel Paese durante il “biennio rosso” e si consegnò nella mani dell’ Uomo della Provvidenza che probabilmente avrebbe tollerato a lungo –  se non l’avesse precipitata nella Seconda Guerra mondiale – come peraltro avvenne nella Spagna di Francisco Franco, il caudillo che saggiamente resto neutrale e morì nel proprio letto il 20 novembre del 1975 o nel Portogallo di Antonio Oliveira Salazar il cui regime gli sopravvisse per quattro anni fino al 1970.

Una tesi sostenuta autorevolmente dallo storico Nicola Tranfaglia – della cui conoscenza personale conservo memoria per la comune seppur breve militanza nel medesimo soggetto politico – a cui così rispose Sergio Romano sul Corriere della Sera il 28 aprile del 2011, pur evidenziando i limiti della cosiddetta “storia controfattuale”:

 “Attenzione, tuttavia. Questo esercizio, anche quando è particolarmente accurato e circonstanziato, non ha alcun rapporto con la realtà. Tenterò di darne una dimostrazione immaginando che cosa sarebbe accaduto se l’Italia, dopo essere stata per qualche mese non belligerante, avesse proclamato nel 1940 la sua neutralità. La maggioranza degli italiani sarebbe stata grata a Mussolini e il suo regime ne sarebbe stato rafforzato.

 Il Paese avrebbe dovuto destinare somme importanti del suo bilancio alle spese militari (la neutralità ha un prezzo) ma non sarebbe stato necessario gettare nel conflitto una buona parte della ricchezza nazionale e non avremmo dovuto, come accadde fra il 1943 e il 1945, fare l’esperienza di due micidiali guerre combattute sul territorio nazionale: una guerra tra la Germania e gli Alleati, una guerra civile tra fascisti e antifascisti.

La Gran Bretagna non ci avrebbe impedito l’uso del canale di Suez e ci avrebbe permesso di conservare le colonie, almeno sino alla fase della decolonizzazione. Avremmo potuto commerciare liberamente con i Paesi neutrali e, più prudentemente, con i Paesi combattenti. Ma non bisogna dimenticare che uno Stato neutrale non può mai essere totalmente imparziale. Quali che ne siano le intenzioni, la neutralità giova quasi sempre a una parte più che all’altra. La nostra avrebbe giovato alla Gran Bretagna e avrebbe fatto del Mediterraneo, soprattutto dopo la sconfitta della Francia, un lago inglese.

 Sappiamo che l’Italia fu spesso per la Germania una palla al piede e che certi errori strategici di Mussolini costrinsero i tedeschi a intervenire in Grecia e in Libia. Ma non credo che lo Stato di Hitler avrebbe comunque permesso alla Gran Bretagna di dominare il Mediterraneo. Prima o dopo anche il nostro mare sarebbe divenuto teatro di uno scontro fra le due maggiori potenze europee.”

 Resta il fatto che l’ipotesi di Tranfaglia ha trovato riscontro nell’ampio riciclaggio di larga parte della classe dirigente monarchica e fascista all’interno della Democrazia Cristiana o nella confluenza, a viso aperto, nel Movimento Sociale Italiano a lungo considerato pur con qualche forzatura “legittimo” – nonostante la disposizione transitoria della Costituzione che vieta la ricostituzione del partito dichiaratamente fascista – ma “fuori dall’arco costituzionale”.

 Un equilibrismo eminentemente italiano non malvisto dagli Stati Uniti in pieno delirio maccartista, interessati soprattutto a che gli aiuti del Piano Marshall non andassero a rafforzare il Partito Comunista Italiano che a quel tempo e fino allo “strappo” operato da Enrico Berlinguer nel 1981, era dipendente da Mosca in tutto e per tutto, al punto da tacere sui fatti Budapest nel 1956 e di Praga nel 1968.

 Poiché però questo articolo è dedicato all’etica della libertà, va detto immediatamente che il processo che ad essa conduce, e non a caso definito “di liberazione” non può essere cristallizzato in una data per quanto rappresentativa e fondante essa possa essere considerata e conseguentemente festeggiata.

 La domanda è inevitabile: a quali ed a quante libertà gli italiani sarebbero disposti a rinunciare per ottenere in cambio maggiori garanzie per il futuro dell’occupazione, un migliore funzionamento delle istituzioni e dei servizi pubblici, una minore pressione fiscale, una giustizia più veloce e puntuale sia sul piano penale che civile ed amministrativo?

 E’ il caso allora di chiedersi: la società italiana di oggi è ancora intessuta dai valori che oggi celebriamo o piuttosto da quelli della paura di un futuro complesso per il quale la Destra – che sempre ha vissuto a denti stretti tale ricorrenza, talvolta disertandola – propone soluzioni estremamente semplificate come si è visto nel primo governo giallo verde  di Giuseppe Conte?

 Certo, il Paese dispone di una Costituzione, tanto robusta e volutamente “rigida” come saggiamente voluto dai Padri che la vararono, che ha protetto i capisaldi della democrazia da incursioni di vario genere ma, va ricordato che maggioranze cospicue anche non disponendo dei due terzi in Palamento, possono modificarla confidando anche nell’esito del successivo referendum popolare che vincerebbero sull’onda di eventuali vittorie recenti.

 Cosa rischierebbe a quel punto la libertà del popolo italiano? Certamente l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e il passaggio da repubblica parlamentare a presidenziale, certamente una spina nel fianco dell’Unione Europea in cui probabilmente l’Italia resterebbe ma con una diversa considerazione; probabilmente un’uscita dalla zona euro che troverebbe l’iniziale plauso degli esportatori ma nel volgere di pochi anni la rovina finanziaria del Paese.

 Sul versante interno assisteremmo ad una svolta nelle politiche di accoglienza dei migranti, alla fine di ogni sogno di ius soli ed a consistenti restringimenti circa il conseguimento della cittadinanza italiana; assisteremmo all’esaltazione di un’italianità supponente ed arrogante i cui esiti abbiamo visto durante i quattro anni di America First culminati nell’assalto al Campidoglio, al pesante riarmamento delle Forze dell’Ordine compresa la Polizia di Stato, smilitarizzata nel 1981, a politiche protezioniste dei prodotti italiani con l’imposizione di dazi all’importazione nel sogno di un’antica quanto anacronistica autarchia che il Paese, allora come ora, non potrà mai sostenere per le caratteristiche della propria economia manifatturiera e terzista.

 Nei confronti della Giustizia, infine, si assisterebbe ad una vera e propria resa dei conti che potrebbe perfino culminare nella natura elettiva dei magistrati come avviene negli Stati Uniti con la differenza che in Italia a ciò si aggiungerebbero anche la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, la responsabilità civile degli operatori di giustizia e la successiva subordinazione al potere politico: con tanti saluti alla tripartizione dei poteri che sono la base e l’essenza di ogni democrazia compiuta e bilanciata.

 La riduzione della pressione fiscale, inoltre, influirebbe pesantemente sui servizi pubblici in direzione di uno sviluppo di quelli privati come già visto per la Sanità nella Lombardia di Formigoni ieri e di Fontana oggi, le cui conseguenze abbiamo visto sfilare a Bergamo in un corteo di camion militari che mai dimenticheremo.

 Anche i rapporti con la Chiesa Cattolica conoscerebbero momenti cruciali tenuto conto della deriva tradizionalista che Matteo Salvini e Giorgia Meloni non hanno mai nascosto di appoggiare in aperto contrasto con la svolta della Chiesa di Papa Francesco, più volte definita più simile ad una ONG a motivo del netto schieramento in favore di ultimi e di migranti e più in generale del contrasto alla guerra e contro le  manifestazioni esteriori del potere ecclesiastico e della religiosità popolare vissuta con fanatismo ed intolleranza nei confronti di altri culti.

 Dietro a ciascuno di quegli eventuali provvedimenti opererebbe un sistema di valori ben preciso che non ha nulla a che vedere con quelli di cui l’Italia si liberò, insieme ai suoi massimi interpreti, in quel venticinque aprile che oggi festeggiamo.

 Nessun nuovo fascismo, certamente, ma una nuova forma di autoritarismo mutuato da quelle democrature che nell’Est europeo, nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan, nella Confederazione Russa, in Brasile, in Egitto e, in forma diversa anche in Cina,  sono lontanissime dal sentire liberale delle grandi democrazie occidentali che sconfissero –  anche   con il contributo di oltre venti milioni di vittime trai soldati sovietici –  nazismo e fascismo con il concorso sul campo dal 1943 in poi, forse eccessivamente enfatizzato in Italia, delle Resistenze locali che in Norvegia, in Olanda e in Francia avevano iniziato ad operare quando ancora era lontano l’esito della guerra e le armate naziste marciavano sotto l’Arco di Trionfo nel segno della guerra lampo e del Reich millenario.

 Abbiamo sempre inneggiato al diritto alla libertà e ciò ha reso grande l’Europa del dopo guerra facendone il modello della massima possibile realizzazione dei valori collegati di legalità e di solidarietà (moderna e più attuale traduzione di quello originario di fraternità) a cui i popoli di ogni parte del mondo hanno fatto riferimento, soprattutto dopo il crollo del Comunismo.

 Se qualcosa abbiamo compreso della grande lezione della Storia, è ora venuto il momento di cominciare a parlare di dovere della libertà come atto preliminare necessario al grande privilegio di potere disporre della medesima: una definizione molto amata da Oriana Fallaci e che è il caso qui di approfondire.

 Nessuna libertà viene regalata a popoli ed a individui se per essa non si è lottato imponendo a se stessi innanzitutto il rigore morale e la solidarietà con i propri simili e dove l’esistenza delle regole appare  come una precondizione della libertà medesima, che trova la sua origine, la sua garanzia e rinnova il suo significato autentico proprio in quel vincolo “necessitato” che risiede proprio in quel sistema di regole che troppo spesso abbiamo messo da parte in nome di un’errata e populistica interpretazione dell’”essere liberi”, vivendo come vincolo ogni limite oltre il quale vige la libertà dell’altro e del corpo sociale.

 Una pericolosa tendenza che durante la pandemia ha visto insieme ad atti di massimo eroismo anche episodi diffusi in ogni contesto culturale e sociale di egoismo, di furbizia e di disprezzo delle regole variamente ma mai credibilmente giustificati.

 Un insulto verso chi ha invece continuato a soffrire in silenzio per il senso di responsabilità verso gli altri, unico cemento di ogni società civile.

 Una lacerazione della trama sociale di cui già molti fa il sociologo Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, aveva avvertito i primi segnali allarmanti successivamente confermati dalla progressiva disgregazione della società italiana che contrappone ora ceti, livelli culturali, posizioni economiche e generazioni a lungo legate da un patto di comune contribuzione allo sviluppo del Paese che chiamammo “boom economico” e che di fatto consentì di lasciare alle spalle le macerie morali e materiali della guerra.

 Mille e settecento anni dopo la coerenza di Socrate e quattro secoli prima che  Immanuel Kant  definisse i tre imperativi categorici che tanto hanno messo alla prova generazioni di liceali e che sono il fondamento di ogni civiltà che voglia definirsi tale,   il dovere della libertà indusse il Poeta di cui abbiamo celebrato il settecentesimo anniversario a scolpire nella Commedia  le parole con cui nel primo canto del Purgatorio Virgilio si rivolge a Catone l’Uticense, presentandogli Dante profugo ed esiliato: “Libertà va cercando ch’è si cara,  come sa chi per lei vita rifiuta”.

 Non dimentichiamolo in questo 25 aprile 2024 che ci coglie debitori oltre che verso i nostri padri che lo resero possibile, soprattutto nei confronti dei nostri figli e nipoti che sul “sentiero dei nidi di ragno” costellato di banalità, di false interpretazioni e di pericolosi revisionismi potrebbero rischiare di smarrirne il significato più sacro. Solo così sarà vera Liberazione che si rinnova ogni giorno e che ci auguriamo di poter celebrare per sempre una volta all’anno con gratitudine e rispetto verso coloro che l’avranno trasmessa quale preziosa ed irrinunciabile eredità.


NUOVI APPRODI


 

 

 

mercoledì 24 aprile 2024

UN'IDEA DI FUTURO

 


“Essere Chiesa significa avere un'idea di futuro”

 

«È necessario abbandonare ogni forma nostalgica, puntare sulla formazione, prendere coscienza dei tempi nuovi e superare la logica postmoderna del provvisorio»

 

-         di Francesco Cosentino

 

Le domande tengono la mente inquieta mentre le risposte rischiano di farci addormentare, specialmente quando sono concepite per anestetizzare la fatica del pensare dinanzi alla complessità delle sfide odierne. Ben venga, allora, il dibattito che, a partire dalle riflessioni offerte da Pierangelo Sequeri, sta prendendo corpo in questa settimana. All’irrilevanza cristiana, intesa non tanto in senso sociologico ma come incapacità dei simboli e delle parole cristiane di toccare l’immaginario, di trafiggere il cuore e di segnare la vita dei nostri destinatari, ho voluto di recente dedicare un testo di teologia edito da San Paolo, ritenendo che la domanda già posta da Karl Rahner alcuni decenni or sono, dovrebbe essere messa al centro della riflessione teologica e dell’agire pastorale: come è possibile fare oggi una esperienza del Dio di Gesù Cristo in una società che lo ha messo ai margini? Si tratta di un interrogativo che, però, il cristianesimo deve iniziare a rivolgere a se stesso.

 A poco serve, infatti, continuare ad attardarsi su analisi riguardanti il cambiamento d’epoca, la fine della cristianità, il tramonto del cristianesimo sociologico e l’avanzata del secolarismo, se non attiviamo il coraggio di un passo ulteriore che può essere così declinato: se la cultura occidentale non è più ospitale nei confronti dell’annuncio cristiano, è altrettanto vero che il cristianesimo ha smesso da tempo di essere “culturale”, di saper non soltanto ascoltare ma anche interpretare le sfide del contesto, in un dialogo scevro da manie di superiorità morale e da elementi di clericalismo. Il cristianesimo sembra essere segnato da una sorta di “cultura del declino”. Di recente, a parlarne è stato il presidente della Cei, il cardinale Zuppi, che ha affermato: «Non si può gestire il presente con una cultura del declino, quasi si trattasse solo di mettere insieme forze diminuite, di ridurre spazi e impegno o di agoniche chiamate al combattimento».

 La cultura del declino, che ci impedisce di avere linguaggi, proposte e postura per abitare la cultura odierna, si manifesta in molti modi e, accennarne alcuni, significa anche individuare quelli che possono diventare luoghi della ripartenza, se ci dedichiamo a essi con una appassionata riflessione teologica e pastorale. Anzitutto, è da segnalare il rischio di una assuefazione vittimistica alla questione numerica, che genera spesso una reazione frettolosa, mancante di una lungimirante visione ecclesiale e pastorale: così, si uniscono le poche forze rimaste o ci si trincera dietro un atteggiamento difensivo, limitandosi a conservare l’esistente. Forse ci serve invece il coraggio di prendere sul serio la sproporzione esistente tra il modo in cui ancora oggi pensiamo e viviamo la parrocchia e il numero sempre più ridotto di preti e operatori pastorali, in un contesto divenuto mobile, plurale, e multiculturale.

 La pastorale della soglia. Si tratta di una situazione che non lascia spazio ed energie per pensare una “pastorale della soglia”, centrata su un annuncio del Vangelo che possa intercettare i lontani e dialogare con le domande del nostro tempo e con le sfide culturali, magari anche stimolando al dibattito coloro che sono in vario modo impegnati negli spazi pubblici della città, della politica, della società civile. La questione implica, naturalmente, una riflessione sul ministero ordinato, una nuova lettura dell’istituzione parrocchiale, qualche serio interrogativo sull’attuale configurazione giuridica e sul Diritto canonico, così da immaginare una nuova forma e presenza di Chiesa in dialogo col territorio. Nondimeno, si ha l’impressione che anche riguardo alla proposta, il cristianesimo proceda spesso con linguaggi, formule e prassi che non tengono in conto quanto sia cambiato l’immaginario interiore e concettuale dei nostri contemporanei negli ultimi decenni. Si può continuare a parlare di salvezza, di felicità, di vita umana, di morte e di risurrezione, ma correndo il rischio di non comunicare più nulla se non si tiene conto dei cambiamenti antropologici, della diversità e pluralità di significati che ciascuno conferisce alla propria esperienza di vita, della ricerca postmoderna di un benessere psico-fisico e spirituale sganciato dalla relazione con Dio, della “fede” nell’intelligenza artificiale.

 Le parole dell’evento cristiano, si pensi, per esempio, alla professione di fede nell’ormai vicino anniversario di Nicea, non andrebbero nuovamente tradotte e offerte attraverso una nuova mediazione linguistico-concettuale? Infine, rispetto alle sfide della cultura e a quelle pastorali, l’impressione è che anche il cristianesimo proceda nel solco postmoderno della logica del provvisorio: manca una visione e un pensare a lungo termine, si va avanti per singhiozzi e frammenti. In questo senso, la cultura del declino si esprime nel ripiegamento in forme di religiosità intimiste e, ancor più spesso, in forme devozionistiche che dispensano dalla fatica di pensare e dall’onere di scelte innovative e coraggiose. Sequeri ne ha parlato come «ripiegamento nella pura devozione di gesti e immagini vagamente connesse al mistero cristiano», mentre Righetto ha fatto giustamente riferimento alle “paccottiglie” spirituali che si trovano nelle librerie religiose, generando una sorta di “sottocultura” cattolica. Di certo, c’è un investimento che manca e, se parliamo di rapporto dialogico con la cultura, l’investimento principale dovrebbe essere quello della formazione. Mentre il secolarismo ha ormai trasformato l’immaginario interiore della vita delle persone, cambiando i simboli attraverso cui interpretano la vita e abitano il mondo, la cura per la formazione e per la preparazione culturale, biblica e teologica di laici e preti non è ancora assunta come un impegno imprescindibile delle agende pastorali.

La formazione. Qualche giorno fa, sul tema, è tornato il teologo Giuseppe Lorizio, affermando che il credente non può ignorare, e anzi deve interpretare e affrontare una cultura come la nostra che si mostra nella veste di un “politeismo” dei saperi e dei valori, in una compagine quanto mai variegata e plurale di visioni. E invece, si ritiene che sia più urgente far fronte ai bisogni di oggi che investire per il domani. E sulla formazione culturale, continua a pesare l’antico e sempre nuovo pregiudizio, secondo cui studiare e approfondire non serve, perché basta stare vicini alla gente, dir Messa e presiedere qualche atto di devozione. Il rischio dell’autoemarginazione del cristianesimo diventa più che concreto, che si tratti di rifugiarsi nostalgicamente nell’idealismo dei bei tempi passati o di chiudersi in forme di cristianesimo moralista e devozionale. Qualcosa può cambiare se e quando avremo il coraggio di rimettere mano – senza timori e senza ideologiche contrapposizioni – a una nuova visione ecclesiale. Ma ciò non avviene continuando a scommettere su una generale visione pastorale, senza la fatica di pensare – e di pensare teologicamente – il futuro del cristianesimo.

 

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I MERAVIGLIATORI


Non è il miracolo che fa la fiducia ma la fiducia che fa il miracolo. 

Infatti, solo chi ha fiducia nella vita ne è curioso, aggettivo derivante da «cura»: chi ha cura del mondo non solo vede i miracoli, ma li fa.

                                                                                                                         -         di Alessandro D’Avenia

 La fiducia non è un trucco, doping psicologico come il pensiero positivo, ma è una postura originaria di apertura alla realtà che dipende da quanto siamo amati: la fiducia deriva dalla forza dell'amore che ci genera in ogni istante, e consiste nel sapere, in ogni cellula, che questo amore c'è e mi vuole esistente. L'uomo non è prodotto, come ci fa credere la tecnocrazia odierna, ma generato, e ri-generato quando fa esperienza di appartenere (essere amato), e può quindi sporgersi sulla vita senza essere paralizzato dalle vertigini che comporta. Questa appartenenza (legami liberanti, perché «assicurano» come quando si scala in montagna), effetto di ogni buona relazione, crea energia in questa sequenza: fiducia, coraggio, curiosità, scoperta, vocazione, creatività, gioia. Se l'appartenere a un amore che ci vuole esistenti non c'è o viene meno, si esaurisce l'energia vitale e la si deve elemosinare. Le dipendenze (legami bloccanti) sono contraffazioni dell'appartenere: poiché non si può non appartenere (essere in relazione) si accetta di dipendere, la schiavitù. Inoltre la fiducia è scalzata dal sospetto: distanza e paura di tutto. Il bambino non amato teme tutto, non è curioso ma insicuro, nessuno fa sicurezza alla sua esplorazione. Si può recuperare o allenare questa fiducia?

Per recuperare e allenare la fiducia di cui parlo, radicale apertura alla vita, bisogna far esperienza di un amore che ci vuole esistenti. Uno dei modi in cui questo accade nel quotidiano è la meraviglia, energia che riceviamo senza merito e ci porta a sentire che apparteniamo. Alla meraviglia abbiamo infatti attribuito un senso, il senso di meraviglia, che è il grado di apertura al mondo, da cui origina il pensiero che, come fa un bambino, si interroga sul perché di ogni cosa. Ognuno può attingere alle sue fonti di meraviglia da cui viene ri-generato, tornando figlio, cioè tornando ad appartenere: amato, coraggioso, curioso... vivo. Immagino una scuola che alleni questo senso di meraviglia: avremmo ragazzi più intelligenti e meno passivi, perché la conoscenza viene dallo stupore e non della paura. La vita si svela a chi se ne sente figlio, per questo l'offesa peggiore colpisce la filiazione: figlio del caso, del meretricio, del nulla. Tradotto: inappartenenza.

In quest'ultima settimana mi son capitate tre esperienze «filiali», che hanno rinnovato la mia fiducia.

  1. Ho visitato la mostra «Dal cuore alle mani» a Palazzo Reale a Milano. Si tratta di alcuni vestiti creati da Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Miracoli «fatti a mano». Nel corso degli anni i due stilisti hanno ambientato le sfilate di alta sartoria in località italiane di chiara bellezza. Le forme del luogo di volta in volta ispirano la lavorazione a mano delle fogge e delle stoffe: soffiate nel vetro a Venezia, modellate negli stucchi palermitani, uscite dalle decorazioni di un tempio di Agrigento, intarsiate negli ori dei mosaici bizantini o tramate da affreschi rinascimentali... Abito ha la stessa radice di abitazione: mi sono sentito a casa nella sorprendente galleria delle meraviglie nostrane. Vedi vestiti e ti innamori dell'Italia (essenziale per un popolo che spesso si disprezza e quindi si trascura), ti meravigli e ritrovi fiducia nell'abitare qui, indossando la storia. Mi sono poi ritrovato anche in una sala-bottega, un atelier dove i miracoli sono cuciti in diretta da giovani sarti che, per un giorno alla settimana, lavorano lì, come in una delle botteghe rinascimentali che hanno reso l'Italia un abito che tutti vogliono indossare, per sentirsi a casa nel mondo.

  2. La biologia mi ha sempre affascinato e vi ritorno sempre in cerca di meraviglia. Ultimamente mi ha incuriosito un filone di studi scientifici che mostra come l'interpretazione darwiniana dell'origine delle specie come sola risposta adattiva sia insufficiente a spiegare forme e colori presenti in natura. Si tende sbrigativamente a ridurre nervature delle foglie, disegni di farfalle, colori di piumaggi, trasparenze di animali marini, mantelli di mammiferi... a strategie per evitare predatori e sedurre partner: sopravvivenza e conservazione. Invece quelle forme sono di più. Adolf Portmann ha infatti mostrato, grazie a studi ispirati da una curiosità straordinaria, che la varietà di forme e colori in natura eccede scopi così ristretti, gli aspetti qualitativi non sono del tutto riducibili a quelli quantitativi. La varietà non nega ma include la teoria di Darwin; infatti, se la vita mirasse solo all'utile agirebbe più in economia: «È nell'abbondanza che vediamo una manifestazione originaria della vita» (Le forme viventi), un'abbondanza ancora inspiegabile ma foriera di una prospettiva più ampia per nuove scoperte. Il fine della vita più che la conservazione è la bellezza: l'arrossarsi delle foglie autunnali non serve a farle durare di più, è solo festa per gli occhi. Le cose si rivelano nelle relazioni, che non sono solo di «bisogno» (predare, copulare) ma anche di “sogno” (bellezza, gratuità). Guardando questi abiti naturali penso anche agli studenti: ognuno di loro, con i suoi colori e motivi, non è un vivente in lotta, ma un capolavoro in potenza.

  3. Mia madre ha compiuto 80 anni. Più la guardo più mi meraviglio. Noi figli abbiamo composto un libretto con brevi scritti delle persone che la conoscono. Mi sono ritrovato tra le mani il bilancio di otto decadi fatto di istanti di cura: una parola, una passeggiata, una lezione, un maglione, un consiglio, una spiegazione, una ricetta... Poesia e frigorifero. Dio e dettaglio. Spirito e calorie. Professione e improvvisazione. Pianterreno e cimasa. Leggendo mi sono tornati in mente i versi di Maura del Serra in Speranza: «Nella rinata bellezza del mondo/ ogni giorno mi levo e mi consumo:/ creatura momentanea di durata infinita,/ tesso per il Creatore la veste della vita» (Concordanze).

 Ci sarebbero altre «meraviglie» ma queste sono quelle dicibili nell'ultima settimana, altre rimangano non dette, perderebbero altrimenti l'energia data loro proprio dal silenzio. Se smarrite la fiducia, cercate i «meravigliatori», coloro che fanno miracoli e vi rigenerano perché vi fanno sentire voluti come figli, appartenenti. Chi sono? Quelli che per amore fanno e quelli che fanno per amore.

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DEMOCRAZIA e LIBERTA'


 “Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Gli uomini vengono resi stupidi, si lasciano rendere tali. Sì, qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di gran parte degli uomini. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri”. 


-di ENZO BIANCHI

 Inequivocabili segnali d’allarme non sono mancati in questi decenni: abbiamo denunciato la barbarie incalzante, vera minaccia alla convivenza democratica, l’involgarimento dei modi e del gusto e il dilagare della mediocrità e della rozzezza che secondo Robert Musil inducono a una prassi della stupidità.

 Queste situazioni non sono malesseri delle persone, sono patologie della vita sociale che rappresentano un attentato alla democrazia e all’esercizio della libertà. Domina una cultura della forza, dell’autoritarismo, l’ostentazione della prepotenza, l’autorizzazione all’odio. Di fatto “il popolo” viene usato e degradato a “massa di manovra” e la volontà popolare può propendere per un regime che fa sognare architetture politiche di forza in cui le prime ad essere offese sono le libertà.

Appartengo all’ultima generazione vivente nata durante la Resistenza e della Resistenza abbiamo solo sbiaditi ricordi, ma è viva in noi la memoria che durante la nostra crescita ci veniva ripetuto: «Prima della caduta del Fascismo non potevamo parlare, avevamo paura. Eravamo testimoni di una violenza legalizzata. C’era la censura e ora invece abbiamo la libertà».

 Non erano i racconti delle battaglie che venivano tramandati, ma la coscienza della decisiva importanza della libertà. E come un lascito ho ricevuto l’affermazione: «La libertà non devi mai mendicarla, ma esercitarla e basta». Ma ora ci domandiamo perché è avvenuta la perdita di questa memoria morale, perché non c’è stata la trasmissione del messaggio della libertà, perché nella società compaiono forze che contrastano la libertà? La libertà richiede responsabilità da parte degli uomini e delle donne che la sentono come il primo riconoscimento della propria dignità: responsabilità del soggetto che sa affermare l’“io” per poter affermare il “noi”, contro ogni appiattimento e tentativo di manovrare le masse; responsabilità della propria unicità che rifugge il conformismo e non si lascia abbagliare dal fascismo che sotto diverse forme pretende che il potere sia imposto e non riceva critiche. Fuori di questa responsabilità, che non è altro che assunzione dell’umanità e della storia come “nostro compito”, c’è la demissione di fatto che o apre al regime autoritario o lascia spazio alla stupidità del populismo.

 Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano impiccato dai nazisti nel 1945, aveva scritto: “Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Gli uomini vengono resi stupidi, si lasciano rendere tali. Sì, qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di gran parte degli uomini. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri”.

 All’orizzonte della nostra polis il cielo è oscuro soprattutto in Europa e non solo per le guerre in territorio europeo e attorno al Mediterraneo, ma per gli orientamenti delle masse, talmente accecate da promesse di potenza e di forza da non saper più discernere la democrazia che si nutre di libertà.


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martedì 23 aprile 2024

SCOUT PER UN MONDO MIGLIORE

 Essere scout: un investimento  sulla società del futuro


Da 50 anni AGESCI contribuisce

 a formare le giovani generazioni

 al rispetto degli altri e della natura, all’impegno

 e alla condivisione

        La festa di san Giorgio, una festa per tutti gli scout e le guide del mondo (oltre 40 milioni, presenti in tutto il mondo,  in oltre 200 Paesi), per rinnovare la loro Promessa e il loro generoso impegno per "lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato" .

 

Se sei scout si vede

 Non si fa lo scout, si è uno scout. Una differenza solo apparentemente superficiale, ma che in realtà rappresenta in maniera ben centrata la filosofia alla base dello scautismo. Essere scout è uno stile di vita, un percorso di crescita attraverso il quale bambine e bambini, ragazze e ragazzi, si mettono costantemente in gioco, impegnandosi con senso del dovere e volontà di condividere la loro esperienza nel portare a termine diversi obiettivi, dal semplice gioco alle “buone azioni” nei confronti degli altri o della natura, lo scopo dello scout è quello di fare il proprio meglio, rispettando valori che affondano le proprie radici nella cristianità.   

 Il metodo dello scautismo

Uno dei principi chiave dello scautismo sta nell’autoeducazione: i ragazzi sono spronati a tirare fuori il meglio di sé, attraverso una serie di esperienze vissute con i propri compagni e con l’educatore, il capo. Quest’ultimo, dunque, non è un maestro, ma un fratello maggiore che, non solo propone delle sfide agli scout, ma le vive con loro in un rapporto di fiducia, così da creare un ambiente stimolante e in grado di formare il carattere dei ragazzi attraverso i valori dello scautismo: l’ottimismo, il senso di responsabilità, lo spirito di servizio, il rispetto delle regole, la cura per la natura e per gli altri, l’abbattimento delle barriere culturali e la fraternità internazionale, ovvero la consapevolezza di essere collegati al resto dell’umanità, da cui discende la volontà di impegnarsi per la pace.

  L’impegno, valore chiave per lo scout

 Lo scout e la guida guardano al lato positivo dei problemi, cercando la via migliore per risolverli, ma soprattutto agiscono, lavorano e si attivano – da soli e insieme agli altri – per migliorare il mondo che vive. Essere scout o una guida significa assumersi le proprie responsabilità nei confronti della comunità e, nel proprio piccolo, impegnarsi, dare il proprio contributo, sapendo che lavorare con gli altri è spesso la via migliore per ottenere dei risultati migliori.

 Si è uno scout o una guida dal primo momento in cui si entra a far parte di questa comunità, ma naturalmente esistono diverse fasi sulle quali sono calibrate le responsabilità. La prima coinvolge i bambini dagli 8 agli 11/12 anni (i Lupetti, le Lupette e le Coccinelle), che imparano a fare il proprio meglio essenzialmente attraverso il gioco.

 Dagli 11/12 anni ai 16 si passa a essere Esploratori o Guide: una fase in cui i ragazzi e le ragazze fanno esperienza della vita all’aria aperta, coltivando lo spirito d’avventura, l’abilità manuale e il rapporto con la natura.

 Successivamente, tra i 16 e i 21 anni, si entra nella Branca Rover e Scolte: qui ai giovani è chiesto di dare un aiuto diretto alla vita degli altri attraverso lo svolgimento di un servizio, che può essere interno all’associazione o aperto alla comunità in generale.

 L’impegno di AGESCI da 50 anni


 AGESCI nasce nel 1974: riconosciuta dalla CEI e iscritta alla Rete Associativa al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, nella sezione “Associazioni di Promozione Sociale”, fa parte del Forum Nazionale del Terzo Settore, dell’elenco nazionale delle organizzazioni di volontariato della Protezione Civile e dal 1995 di Libera, associazione per una società libera dalle mafie e da ogni forma di illegalità. AGESCI sostiene anche progetti di accoglienza per i profughi delle guerre o di supporto in caso di emergenze sanitarie o calamità naturali. Attualmente conta oltre 182mila soci, tra cui 30mila educatori (i capi) e 2.000 Assistenti ecclesiastici sul territorio nazionale.

 

 Il Messaggero