L'Esperienza in Togo-Benin

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Racconti di viaggio
di Elianna, Isabella, Federico e Diego

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità;

 ma di tutte più grande è la carità..

 Non è così facile parlare di Africa, ora.

Già … prima parlavo di ingiustizia, di responsabilità, di Dio …

Prima l’Africa era una, teoricamente differenziata al suo interno, ma unita sotto grandi problemi, questo grande, compatto, continente nero fatto a forma di cuore.

Prima l’Africa era una terra arida e pericolosa, piena di insetti, di fetide zanzare e di animali mortali.

Prima l’Africa era un bel sogno in cui cullarsi e sognare, combattere coraggiose battaglie per la sopravvivenza altrui e per la giustizia, in cui fare un’esperienza di missione.

L’Africa … o l’America Latina.

L’Africa è diventata un posto, un biglietto, una promessa … un gruppo … quattro incontri di formazione … e si è trasformata in un luogo diverso da come ce lo immaginavamo (noi in realtà pensavamo a qualche foto panoramica su Korogocho).

Un prima spazzato via da dodici ore di viaggio.

L’Africa è diventata l’aereoporto di Lomé, ora.

Tanta gente, tanto colore, tanti colori, confusione, aria … aria di casa, nemmeno il muro di caldo afoso fuori dall’aereo era come me lo immaginavo.

Da ora

  Novità

   Diversità

    Contraddizione

      Lacerazione

        Assenza di confine.

Quando tutto è nuovo, è normale che tutto stupisca, tutto parli, tutto sia importante, tutto stimoli ogni millesima parte di me.

C’è stato un momento in cui ero sazia di cibo che non potevo rifiutare, sazia di contraddizioni che non riuscivo a cogliere, sazia di parole, che mi sembravano inutili pesanti e offensive.

Le novità anziché stupore provocavano sofferenza.

Mi sembrava di avere già visto troppo, di non aver più diritto di rubare immagini sorrisi saluti tempo.

Mi sentivo in colpa per ogni sguardo pensiero emozione.

Mi domandavo con che coraggio potevo mostrare e addirittura essere felice …

Anche la mia fede in Dio, la potenza di Dio, sembravano cose lontane, non vere o impossibili qui.

Troppi nemici interni ed esterni che non vogliono che questa gente cambi la propria vita e la trasformi da lotta per la sopravvivenza a progettazione e vera cooperazione per una vita piena.

Dittatura, FMI, BM, OMC, Debito Estero, Aggiustamento Strutturale, Embargo, qui diventano volti, storie, non questione di presa di posizione per principio, ma questione di vita o di morte.

… e tu qui ti senti così piccolo e la tua vita così breve.

Diventa ancora più chiaro il dovere e la responsabilità di scegliere in occidente tra bere Coca Cola o boicottarla … qui o ti becchi la dissenteria o ti indebiti per bere Coca.

Diventa più chiaro che al Nord o sei con il Faraone o sei con Mosè.

Qui o sei con il Faraone o hai buone probabilità di non esserci proprio.

Qui … ora …

Da ora silenzio, di contemplazione e rispetto come in un luogo sacro.

Così è iniziata la risalita.

Cercando disperatamente Dio qui, lasciando bruciare il fuoco che arde nel mio cuore e nelle mie ossa.

Qui tutto parla di Dio.

Il voudou che trabocca ovunque con i suoi feticci che proteggono e spaventano, racconta di un Cristo che follemente e scandalosamente è morto in croce.

Le chiese innumerevoli di sette dai nomi più strani, raccontano di un Dio che libera dagli idoli e trasforma gli individui in popolo di Dio.

Una dittatura che toglie libertà di pensiero parola e azione negando ogni diritto fondamentale e calpestando la propria legge, racconta di un Cristo che è venuto a portare un Regno che non è di questo mondo.

E la testimonianza di tante persone impegnate a fianco dei più deboli e dei più poveri, fa pensare a un Dio che rende giustizia all’orfano e alle vedove portando a compimento la legge attraverso l’amore.

Le strade … il luogo dei tanti incontri e delle tante Parole di Gesù.

Su queste strade piene di gente Gesù camminerebbe come allora amando uno a uno questi bambini, tanti bambini che ti salutano con una gioia e un sorriso spiazzanti che subito ti fanno sentire importante e accolto … poi invece ti fanno chiedere fino a quale generazione dovremo portare sulla nostra pelle bianca il marchio della ricchezza, della fortuna a cui sorridere sperando che possa perdere qualche briciola.

Su queste strade brulicanti di vita Gesù camminerebbe amando con rispetto ognuna di queste donne, eleganti fiere, che insegnano come si porta su di sé un giogo facendolo apparire leggero e dolce, questo giogo siano i Km da fare ogni giorno a piedi perché in taxi si spenderebbero i pochi spiccioli guadagnati, il carico di verdura, di stoffe, di saponi, il bambino sulla schiena e gli altri figli appresso, un marito a volte da dividere con altre donne, l’AIDS da nascondere per non essere abbandonate da tutti perché intoccabili, il figlio gravemente malato che porti senza avere soldi all’ospedale privato sperando che almeno lì te lo salvino lo stesso.

La gente per queste strade sembra aspettare come allora qualcuno che non solo gli dica che la ami, ma che la ami davvero, come Amendha ama la sua terra, come la amano Antoine e Jacques, come la amano i missionari e le missionarie che abbiamo incontrato.

Questo amore e questa fede che fa intravedere un futuro migliore, sono alcune delle perle che ho trovato in questa terra.

Ora, se anche io vendessi tutto, non potrei mai comprare la terra in cui un tale tesoro è nascosto.

L’unica cosa che mi rimane, è dare me stessa a questa terra, a quel Dio che mi ha accompagnato fino a qui.

A chi mi chiede adesso com’è l’Africa … rispondo che non lo so.

Ma per chi mi vuole ascoltare, ho volti e storie da raccontare, incontri da descrivere, persone che porto dentro con la promessa di pregare per loro e di lavorare per la costruzione di un mondo migliore.

È impossibile ricreare comunicare descrivere la pienezza di quegli incontri … ma non posso tenere per me quanto ho ricevuto.

 

Elianna

(GIM Padova)

 


Aidez nous a nous aider!

Quest’estate ho avuto la fortuna di trascorrere venti giorni in Togo e Benin, due piccoli stati dell’Africa Occidentale. Tante immagini mi tornano alla mente quando ripenso a quello che ho visto e sentito. Ricordo le donne in strada, nella capitale, che camminano per ore ed ore nella speranza di vendere un po’ della merce che portano in testa: acqua ghiacciata, pane, biancheria, stoffe, secchielli, barattoli, ciabattine,… Spesso hanno un bimbo sulla schiena, legato con un panno. Sono donne forti e combattive, … lo devono essere per affrontare la povertà con dignità. Dicono il loro “no” al vittimismo e all’arrendevolezza attraverso la fierezza del portamento, dello sguardo, la cura con cui si pettinano e si vestono di quel poco che hanno. Combattono nella quotidianità  uno Stato che, invece di proteggere, imprigiona e lega le mani del suo popolo. Non possono opporsi in modo manifesto,  ma continuano a gridare la loro voglia di vivere  e di far vivere i loro figli cercando ogni giorno, con grande fatica, qualcosa per sfamarli, i soldi per mandarli a scuola, per curarli quando si ammalano. Gli uomini spesso hanno più mogli, molti figli, a volte sono infedeli e in questo modo aggiungono alle difficoltà economiche il dolore per il mancato affetto di un marito e di un padre.

Non sono solo le donne e i bambini le vittime e l’anima della società africana. In Togo io e i miei amici italiani abbiamo incontrato dei gruppi di giovani cristiani . Questi ragazzi ci hanno raccontato quello che vivono, manifestandoci la consapevolezza di avere molte strade chiuse, di non poter riattivare in poco tempo una realtà in stallo, di essere governati da un presidente che vuole tenere il suo popolo ignorante e povero, in un clima di tensione e silenzio.  Anch’essi non reagiscono in modo arrendevole: continuano a sperare e a fare piccoli passi verso un cambiamento. Si incontrano, riflettono, discutono, cercano di sensibilizzare altre persone, di diffondere una cultura di giustizia, solidarietà e pace a partire dalle loro comunità. Il gruppo di giovani della parrocchia di Tabligbo ha creato una radio, “Radio Speranza”, rimasta chiusa per qualche tempo per aver velatamente contestato un  uomo del presidente. Per poter continuare a trasmettere hanno dovuto eliminare qualsiasi tono polemico o che potesse sembrare tale. Non hanno comunque smesso di dare messaggi in positivo, di sensibilizzare la gente attraverso programmi di educazione familiare, sanitaria, sociale. Continuano a comunicare, ogni giorno, la loro voglia di farsi sentire e di vivere in una realtà che non dà spazio alle loro idee, alla loro voglia di crescere e realizzare un futuro migliore. Abbiamo chiesto a loro cosa fare per l’Africa e un ragazzo ci ha risposto con una frase che mi ha molto colpito: “Aidez nous a nous aider! Aiutateci ad aiutarci!” … come a dire non sostituitevi a noi, siamo noi che dobbiamo trovare la strada, non saranno le O.N.G. occidentali, i progetti studiati a tavolino in Europa o in America e neppure i missionari a salvare l’Africa. E ancora: non sostituitevi a noi nel pensare, ma pensate con noi, ascoltateci, dateci voce perché solo se il cambiamento ci vedrà protagonisti sarà reale. Sembra che ci siano ancora troppi interessi economici e politici che impediscono all’Africa di crescere e di svilupparsi. A questo a volte purtroppo si aggiunge la presunzione di chi, con le migliori intenzioni, cerca di guarire con una ricetta preconfezionata una persona in difficoltà a cui non è lasciato modo di raccontare la sua storia, i suoi problemi e il suo modo di affrontarli. Questo viaggio mi ha insegnato e mi sta insegnando che l’Africa non ha bisogno dei miei, dei nostri avanzi di tempo e denaro, non ha bisogno di pietà e di qualcuno che risolva i suoi problemi.  Ha bisogno di essere ascoltata, che le sia fatto posto, che le sia data libertà di scegliere il suo futuro e il suo modo di progredire.

Isabella Brusa

(GIM  Vengono)


Esperienza in Togo

 

Prima di decollare dall’aeroporto di Venezia, in direzione Togo, più precisamente Lomé, la sua capitale, avevo ancora la presunzione di affermare che quest’anno andavo in viaggio in Africa. Ben presto ho realizzato che quest’espressione nasconde tutta la nostra visione eurocentrica del mondo e anche la nostra eccessiva naturalezza con cui semplifichiamo e magari in buona fede annulliamo le infinite differenze che un continente vario e ricchissimo come l’Africa contiene.

Dopo qualche settimana dal mio ritorno mi è stato chiesto di raccontare la mia esperienza. Non ho l’ambizione di fornire un ritratto esauriente e obiettivo di un paese che ho appena avvicinato, ma vorrei trovare le parole più adatte per raccontare invece di alcune persone che abitano questa terra, che ho incontrato e con cui ho trascorso del tempo. Non nascondo nemmeno il mio imbarazzo a voler rinchiudere nei confini dell’alfabeto un oceano sterminato di emozioni che abitano il mio cuore. Ma proviamo a procedere con ordine.

Venezia 16 Luglio ore 7.05: è davvero giunto il momento del Grande Volo. Un momento atteso per mesi, cercando dentro le motivazioni che mi spingevano a cercare in quella terra così lontana e sconosciuta, nel volto di fratelli così diversi per cultura, storia e perfino tratti somatici, il Volto di Dio Padre. Per mesi ti prepari qui, assieme ai tuoi compagni di viaggio, per rendere l’incontro il meno traumatico possibile. Leggi, ti informi, annoti pensieri, aspettative, e arrivi al punto di pensare di averla già incontrata questa terra. Poi bastano i primi passi, giù dall’aereo, e tutto crolla. Ti accorgi che quello non era il Togo, ma solo la tua proiezione. E allora ricominci da capo, come un cane bastonato, come un clandestino, e provi ad imparare in fretta un nuovo alfabeto. E ti accorgi che più che un incontro quello è uno scontro. Dal quale difficilmente uscirai illeso. E realizzi che niente sarà come prima, perché non puoi più fare finta di non sapere. Avverti da subito l’importanza di non avere pregiudizi, per non impedire la relazione vera, alla pari, che ti permette di conoscere un’altra cultura. Scopri presto il peso della tua identità, delle tue radici, di cui non sempre vai così fiero, ripensando alle incredibili violenze che su queste coste i tuoi antenati hanno inflitto a questa gente, e che ancora non cessano di esistere. Cinque secoli sembrano solo averci insegnato ad usare i guanti per non sporcarci le mani di sangue, ma le violenze ora come allora, continuano e mietono milioni di vite innocenti. Non puoi nemmeno fare a meno di notare le incredibili contraddizioni che abitano questa terra e che abitano anche te, che sei venuto a visitarla. Scopri come qui sia presente l’Universo e il suo contrario. Come se Inferno e Paradiso potessero sfiorarsi. Qui, nella terra dove dare la vita è una benedizione divina, difenderla sembra un optional. Qui dove ti raccontano che i soldi non contano nulla, nella scala valoriale, è lo stesso luogo dove i soldi non sembrano bastare mai. E si potrebbe proseguire all’infinito. E non puoi nemmeno ignorare come qui il senso delle parole limite e confine siano profondamente diversi e meno marcati che in Italia. Qui tutto sembra incredibilmente più labile, e tutto sembra mischiarsi, confondersi. Come la terra e il cielo, sul Lago di Togoville, o la strada e il marciapiede, perfino la terra e l’aria. Come il giorno e la notte, che si susseguono così rapidamente da non lasciarti nemmeno il tempo di farti trovare un po’ meno impreparato. Come la città e il villaggio, la casa e la baracca, la povertà e la miseria, la vita e la sopravvivenza, perfino il Bene e il Male, capaci di convivere magari nella stessa persona. E allora scopri l’importanza di guardare le cose con il cuore, e non solo con gli occhi, per non oltrepassare quella soglia non sempre ben visibile, oltre la quale calpesti la dignità dell’uomo. Ci vuole rispetto in molte cose quaggiù. Quando saluti, quando parli, quando procedi lungo il cammino con la tua automobile, e devi schivare animali di ogni sorta e a volte anche i bambini, quando fotografi, perché la miseria non può divenire un souvenir, perfino quando guardi e il tuo sguardo può apparire inquisitore o ancor peggio così indiscreto da ferire l’intimità altrui. Scopri inoltre l’importanza di non abituarti mai a certe scene, il che si scontra invece con la nostra cultura televisiva dove è facile assuefarsi a ogni cosa, perfino alla sofferenza. Che altre volte viene così reclamizzata da farla sembrare un vanto, l’unico motivo per cui si debba parlare di questa terra. E’ terrificante scoprire come cerchiamo quasi con piacere ceti luoghi come le baraccopoli, come siamo spinti a ritrovare a tutti i costi categorie o soggetti a cui attaccare i nostri cliché ben metabolizzati davanti al televisore, lontano dalle situazioni reali. Ti interroghi ripetutamente se spettacolizzare la miseria, magari per impietosire, sia un’operazione di giustizia o l’ennesima negazione dei diritti altrui. Non voglio certo negare la buona fede del reporter o la necessità di un’informazione reale, e per nulla ovattata, che crei qualche crepa nelle nostre coscienze borghesi; allo stesso tempo però credo importante contestualizzare certi immagini che altrimenti divengono equivoche e che ci lasciano troppa libertà di svendere favolette strappalacrime a buon mercato. Troppo raramente dai nostri media traspare qualcosa di differente dalla guerra, dalla carestia, dalle epidemie, quando parlano di un continente senza dubbio martoriato ma anche estremamente vitale e ricco culturalmente. E’ stato per me e i miei compagni una piacevole sorpresa ammirare le danze e i canti di questa gente, che la musica e il ritmo sembrano tramandarseli geneticamente, di madre in figlio, e imparare le prime movenze da neonati sul dorso materno, avvolti in un telo, ora per andare al mercato, ora nei campi, ora durante una cerimonia vudù. Ho ammirato la spiritualità profonda di un popolo durante le celebrazioni eucaristiche, ma anche nella preghiera personale, dove si può intuire che tutta la persona, compreso il corpo è coinvolto nelle ricerca profonda di un dialogo con Dio, e con il mondo spirituale. Conservo ancora nel cuore la profonda devozione a Maria di centinaia di persone, di ogni età, che nella Vergine scoprono il volto materno del Signore, qui in una terra dove la donna è davvero il motore della società, nonostante le vengano da sempre negati molti diritti. E come non ricordare proprio le donne, in ogni loro attività, in ogni angolo di strada, con il loro portamento sempre dignitoso, meglio fiero, che riesce ben a mascherare la fatica di vivere, il peso delle sofferenze, delle preoccupazioni per la famiglia, qualche volta delle violenze. Come scordare i loro volti dolci, le loro acconciature, le vesti che le rendono eleganti e affascinanti, la femminilità che traspare nel loro avanzare lungo le vie, portando pesi spesso importanti sopra le teste come fossero dei vistosi decori. Come dimenticarle al mattino presto, intente a raggiungere a piedi, lungo le polverose piste di terra rossa, il mercato più vicino per riuscire a vendere qualche ortaggio, delle stoffe, delle spezie, o chissà cos’altro, con il bimbo legato dietro e lo sguardo diritto all’orizzonte, mai vinte dalla fatica o dal caldo, sempre pronte a ripartire, a riprovarci. O ancora all’ospedale, o al dispensario, con i loro bimbi malati tra le braccia, dallo sguardo spento, che cercano in tutti i modi di salvare, nonostante non abbiano magari nemmeno mille franchi per le cure; capaci di affidarsi all’amore di altre donne, con il velo, questa volta, madri anche loro, anche se non biologicamente, sempre pronte ad accogliere a braccia aperte, ad amare, a consolare. Senza la pretesa di grandi analisi socio-politiche, ma con un cuore grande abbastanza per accettare anche di rimanere solo per condividere, gioie e fatiche di altre donne, quotidianamente confrontandosi con l’impotenza che ci fa tanto rabbrividire, e che tanto le fa assomigliare al Maestro. Donne che hanno consacrato una vita al Signore per davvero, scegliendo di vivere ai confini del mondo, lontano da ogni comforts e che dopo trent’anni non vedono cambiare nulla, a livello sociale, ma non sono ancora stanche di donare amore a quella gente e di accogliere i più affaticati e oppressi.

E riordinando i pensieri come non parlare dei tantissimi bimbi incontrati, dei loro occhioni scuri, dei loro sguardi profondi, dei loro sorrisi, dei loro silenzi, delle loro grida di stupore e di gioia al nostro passaggio, del loro chiamarci “yovo”, che significa “furbo cane ladro”, e che ci illudiamo nelle loro bocche sia meno pesante…come non ricordarmi di come imparino presto a chiedere senza troppi complimenti un regalo perché qui il bianco è il biglietto fortunato dalla lotteria, ed è bene non lasciarselo scappare, ma soprattutto come scordare il profumo della loro pelle, i loro capelli così particolari al tatto, come dimenticare soprattutto quando giocavo con loro, ai bordi delle strade, come cercavo di catturare la loro attenzione, in mille modi, ritrovando con loro un po’ della semplicità e della purezza di cuore che mille altre cose mi hanno fatto perdere. 

E poi l’incontro con i giovani, nelle parrocchie, nei villaggi. Cercando di scambiarci, davvero alla pari, le nostre esperienze, la nostra cultura, i nostri sogni. Un confronto entusiasmante e stimolante che mi convince sempre più di come il dialogo con le giovani chiese sia non solo un nostro dovere, ma anche l’occasione di respirare una profonda spiritualità incarnata nella vita reale, per uscire dal nostro tepore e ritrovare  tutta la sete di Dio che cerchiamo spesso di colmare con i beni materiali. La messa il primo venerdì del mese in un villaggio vicino alla missione di Tabligbo, in una cappellina illuminata con il lanternino e due candele, è stata un’esperienza di fede incredibile. Un centinaio di giovani, forse di più, hanno animato la celebrazione eucaristica con un tale entusiasmo, capace di farci rabbrividire per ore. Laggiù, dove manca tutto, forse la gente riesce con più facilità a ricercare l’essenziale, e con la pancia un po’ meno piena della nostra ha davvero fame dell’unico Pane di Vita. L’interminabile canto di ringraziamento, dopo la comunione, con tutta l’assemblea danzante, intorno all’altare, è stato per noi tutti occasione di stupore e di grande gioia. E ancora il confronto con i giovani di Radio Speranza, capaci di incominciare quasi per scherzo trasmettendo un messa, e ora in grado di dare voce a tanti altri giovani, con una radio aperta a tutti, anche di religioni differenti, parlando degli argomenti più diversi, dalla promozione della donna, alla diffusione della musica, a degli spettacoli di cabaret. Giovani che hanno incontrato le ostilità di una dittatura pluridecennale, che non accetta forma di “opposizione”, nemmeno culturale, e che era arrivata sospendere le trasmissioni per un periodo. Una dittatura che ha fatto crollare il paese dal punto di vista economico in una crisi profonda, che non conosce fine; che non paga i suoi dipendenti, eccezion fatta per i militari, che non garantisce nessun tipo di servizio, nemmeno quelli basilari come la sanità, costringendo il singolo cittadino a comprare tutto l’occorrente per sottoporsi ad un intervento chirurgico, dal filo per la sutura, all’anestetico. Un dittatore che ormai ha tutta l’opinione pubblica contro, e che cerca disperatamente di controllarla con l’esercito, gli innumerevoli posti di blocco, che spesso passi solo lasciando una piccola bustarella al poliziotto, privandoti di quel poco che hai(Il discorso ovviamente non vale per noi bianchi).

E’ impressionante come quaggiù le nostre cifre sulla povertà, le decine di statistiche di Nazioni Unite e Banca Mondiale diventino volti, storie concrete che non ti possono lasciare indifferente e che una volta ritornato ti interrogano se sia opportuno ripeterle come semplici nozioni o invece non debbano necessariamente essere occasione di riflessione sui nostri stili di vita e il nostro modo di essere missionari qui, nel cuore dell’Impero, dando voce a chi non ce l’ha.

E proprio a  proposito di missione, vorrei dire due parole sui tanti missionari che abbiamo incontrato, che ci hanno accolto, e che ci hanno aiutato a rendere meno traumatico l’incontro con un paese così diverso. Li vorrei ringraziare tanto per la loro testimonianza di vita, per il loro coraggio di rimanere con la gente, anche in situazioni difficili, per la loro capacità di amare, per il modo in cui parlano di queste persone, come se fossero loro figli, per il loro entusiasmo nonostante le malattie, le incomprensioni e a volte l’esperienza spiacevole di sentirsi usati. Mi ha colpito il loro coraggio di essere pietre nascoste(usando un’espressione del Comboni), di fondare parrocchie e lasciarle alla diocesi, di costruire con la gente, per la gente, e non di calare dall’altro i propri progetti. Per la capacità insomma di essere servi inutili.

Infine, ma non certo per importanza, ringrazio il Signore che mi ha parlato quaggiù in continuazione, e con una tale chiarezza e intensità capace di meravigliarmi. Quaggiù la Parola, ma anche i sacramenti, hanno assunto un valore particolare, e profondamente diverso da come li vivo in Italia. Credo che certi brani evangelici in alcuni contesti, risuonino molto più intensamente, e che vivere certi valori in molti paesi del mondo non sia così facile come da noi. Comprendo anche come non si possa mai assolutizzare nulla, e che tutto vada inserito nel contesto in  cui deve essere vissuto. E questo richiede profonda umiltà e capacità di ripartire da capo. Prima di parlare occorre rimanere con la gente, camminare con loro, nelle loro strade e ascoltare ciò che hanno da dirci. Solo allora possiamo dire la nostra. Questi 20 giorni allora, sono serviti anche a tentare di intuire un nuovo volto di Dio, che non è lo stesso del GIM, della mia ora di preghiera, del volontariato part-time alle cucine popolari, dei libri sulla giustizia e la pace.

Sento di poter affermare infine che questa esperienza, molto intensa e spero autentica, non sarebbe potuta essere tale se non inserita in un cammino di fede e di vita che i Comboniani mi hanno permesso di fare. A loro sarò per sempre grato.

 

Federico (GIM Padova)


A te, amico o amica, mando queste parole che parlano di un viaggio,

del viaggio più strano, ma anche più grande,che ho mai percorso.

Non buttarle via, se non ti piacciono, perché mi sono costate fatica

e se ti piacciono, ricorda che sono solo parole scritte da un uomo felice

mentre altri, troppi, uomini e donne infelici urlano e piangono.

Ciao.

 

Ritornando in Togo e in Benin…

 

 

Le tre settimane di diretto contatto con la realtà Togo-Beninese sono state tre settimane molto intense per spunti di riflessione e per messaggi. Indubbiamente, gran parte di questi sono andati persi per l’ipermeabilità della dura scorza del mio sentimento, perché non registrati dalla penna, o perché dimenticati sulle pagine di quel diario (sacro!) che ora ho di fronte.

L’esperienza non ne esce comunque impoverita nel senso!!!!

Raccolgo con le mie povere parole alcuni dei doni che l’Africa-TogoBenin ha voluto darmi.

 

La proposta e la preparazione

            Mi ricordo a inizio dell’anno GIM che, assieme alle tante proposte di impegno, spuntava all’orizzonte l’occasione, a fine anno, di un campo in missione: Perù, Brasile e Togo-Benin. Delle tre mi affascinava l’idea dell’Africa, forse per un discorso di “mettersi alle prova” con una realtà più difficile (almeno per me)  per differenze culturali, religiose, linguistiche. C’era poi la componente della curiosità che mi spingeva a provare.

            Mi ricordo la gioia quando al mio tentativo di richiesta (pensare che non me ne sentivo all’altezza, e ho tentato quasi solo per togliermi il tormento del dubbio!) p.Daniele ha risposto “SI”. Gioia mista ad entusiasmo, rilanciata con la conferma a Teglio! Grazie, Daniele e Mosè, dell’opportunità data!

            Ora dovevo solo parlarne con la famiglia e cominciare a prepararmi…

            A marzo si comincia la preparazione: aspetti tecnici come i vaccini e il passaporto, ma non solo. Ripercorro ora con la memoria le mie prime motivazioni al campo!! Che roba!!! ”Condividere la sofferenza di chi sta soffrendo”. Quello che al tempo era una profonda convinzione, ora è vergognosa retorica. P.Gaetano ci aiutò tutti ad abbassare il tiro. Iniziammo bene.

            Uno si aspetta di andare “in Africa”  per vedere, incontrare, CAMBIARE: sarà l’esperienza della sua vita, quella che vale la scelta, l’apice e il culmine, l’inizio di una nuova vita…..e cavolate del genere. Si aspetta anche che tutti, indistintamente, soffrano, abbiano bisogno proprio di lui-unicoeveroSalvaroredelMondoierioggiesempreamen.

            A un mese dalla partenza, scopro in me una nuova visione dell’Africa (ideale) che ancora mi porto dentro: non è solo fame, guerra, sofferenza, E’ VITA!!! Cambiata la mia idea di Africa e di me stesso, cosa ci sarei andato a fare? Il turista?

 

L’arriv o

            Si arriva dopo un lungo viaggio che ci ha portati tutti fuori dalla nostra Italia: alle spalle il nostro piccolo mondo, le nostre famiglie, i nostri soliti impegni, la comunità. Davanti a noi…cosa?

            Arrivati all’aeroporto di Lomè (non è stato il primo scalo), ci accorgiamo che… “sono tutti neri”. E’ un’espressione poco felice, ma che, sola, descrive l’impressione iniziale: ora eravamo noi la minoranza!! Gli immigrati!!

            Dopo una prima manciata di ore, alla sera, non ci credo ancora: cosa vuol dire che sono in Africa?  Mi accorgo di non essere a casa -in Italia- quando, mentre guardo il Crocifisso appeso alla parete della cappella, vedo una lucertolona arrampicarsi…

            L’Africa non è più un’idea, un sentimento: è una realtà, cioè la casa di qualcun altro.

 

L’ambiente

            Non si può nascondere il fatto che abbiamo comunque fatto anche i turisti, che cioè ci siamo a volte fermati a contemplare paesaggi, alberi immensi e quant’altro per noi bianchetti fosse curioso.

            Mi ha colpito vedere la varietà della flora: mille e più tipi di palme. Guardandole, un giorno sono arrivato a convincermi che la Terra Africana non può non essere fertile, non può non dare a ognuno da vivere… ne consegue allora che altri anno impoverito gli Africani, privandoli della Terra… proprio perché l’Africa non è povera, è ricchissima!!!

 

I missionari

            Anche per quel che riguarda la figura del missionario “sul campo di lavoro” c’è stato un processo di concretizzazione-demitizzazione. All’idea di missionario iniziavano piano piano a sostituirsi, uno alla volta, facce, nomi, esperienze, storie, problemi. Il missionario non esiste più se non in funzione della sua Comunità di gente. Non più solo missionario apostolo, santo/martire, inviato, ma missionario uomo e fratello. Scusate se è poco. E non esiste il missionario modello o il missionario-tipo, ma esistono in missione p.Sandro, fr.Silvano, p.Antonio, p.Elio, p.Donato, p.Artur, fr.Simòn, p.Flavio, p.Ruffino, P.Grotto, le suore comboniane di Asramà e di Lomè, altri missionari e religiosi (ricordo le suore francescane all’asilo-orfanotrofio), preti diocesani locali, laici…

            Insomma, abbiamo visto diversissimi modi di essere missionari: le esigenze della realtà Africana sono così tante e così varie che c’è posto e lavoro per tutti!!! Anche per me!

            La casa del missionario è varia quanto i doni dello Spirito… da capanne, per chi sta aprendo una missione, a canoniche più ampie e attrezzate, cuori pulsanti di estese Comunità Cristiane. Mi è rimasta particolarmente impressa nella memoria l’immagine della missione di Tablibò (a nord-est di Lomè), con la sua stupenda chiesa, con il grande albero che faceva ombra lì davanti, il prato, ma soprattutto la tanta gente, giovani e non, che passava di lì tutto il giorno (ne hanno stimati più di 500, che rispetto alle nostre canoniche o centri parrocchiali…), anche per la radio cui la parrocchia ha voluto dar vita, vero e proprio strumento di comunione e di comunicazione.

            La varietà dei Carismi si è potuta vedere anche nell’incontro di diversi Istituti o Congregazioni Religiosi e missionari: abbiamo colto lo “stile Comboniano”, ossia il tentativo e il proposito di SALVRE L’AFRICA CON L’AFRICA, lontani mille miglia da certi tipi di assistenzialismo più o meno consapevole. Ci tenevo a tale precisazione visto che questo Carisma sarà, se Dio vuole, anche mio: ne sono fiero e convinto. Annoto con ammirazione anche il fatto che i Missionari Comboniani sono uno dei pochissimi ordini a non aver lasciato il Togo nonostante “disavventure” e divergenze d’idee con la Chiesa locale; sicuramente è l’unico a mantenere una così considerevole presenza nella diocesi di Lomè.

 

Le strade

            Io non ho ancora fatto la patente, ma credo proprio che il codice stradale Togolese sia molto diverso da quello italiano, se non altro nel modo che la gente ha di intenderlo! Scherzi a parte, le strade Africane sono memorabili: ogni tanto (si fa per dire) qualche buca di quelle che ti ci rompi il cu...sedere; le strade non asfaltate, stupendi corridoi pavimentati di polvere rossa che solcano un paesaggio altrettanto stupendo, invece, sono un continuo intercalare di buche e dossi.

            Abbiamo viaggiato molto col pulmino Ysuzu, e spesso ho voluto star davanti solo per guardare le strade, che mi piacciono tanto. Ripensando alle stradine che ci hanno portato ad un villaggino sperduto dove abbiamo visto un rito vudù, una delle ultime sere ho pensato alle innumerevoli stradine -laterali di quella asfaltata che va a Nord- che non avevamo imboccato: ognuna di esse portava ad un villaggio (e poi ad un altro?). Allora ho capito che l’Africa è immensa.

Lungo le strade, specialmente nelle città, gente, gente, gente: tanti bambini sor-ridenti, alcuni impauriti, tutti comunque e indistintamente a chiamarci “Jo-vò, jo-vò” (=“bianchi!”). E tante donne, con le loro ceste sulla testa: andavano ovunque con un peso sulla testa, e per tutti era la cosa più normale del mondo.

 

Popolo

            Le persone incontrate mi hanno insegnato molto cos’è il contatto umano, la confidenza (nel rispetto!), che la risata è la distanza più breve fra due sconosciti. Mi hanno insegnato che l’uomo fa parte della natura, che il tempo non è nelle sue mani, ma il Sole lo accompagna lungo la giornata, da quando si alza a quando va a riposare. Mi hanno mostrato il valore della Comunità, dello stare insieme nella semplicità. Mi hanno insegnato che l’uomo è fatto anche per ballare, e se non balla è handicappato (con molto rispetto per i portatori di handicap). Mi hanno insegnato che le razze esistono, esistono nel nostro animo inquinato…

            Tutte queste ultime righe schiferebbero un Togolese, perché sono zeppe di concetti astratti, ma è l’unico codice con cui posso tradurre la loro concretezza e umanità.

 

“Jo-vò”: il ricordo della violenza

Jo-vò è la forma contratta di un’espressione che significa “cane furbo che ci imbroglia”. Non che un bambino usi questo termine in questo senso, ma è chiaro che l’accezione e negativa. E del resto non ci si può aspettare diversamente da questi popoli, visto che lì per secoli noi bianchi abbiamo deportato alla morte con la violenza milioni di loro fratelli e sorelle, rovinato in modo indelebile la loro Terra, impoverito e ridotto alla fame loro e i loro figli, profanato la loro cultura.

Jo-vò è l’uomo che ha soldi, al quale si può, anzi si deve chiedere: una miniera come lui ti capita una volta in vita!!

Jo-vò è per i bambini l’orco cattivo, il mostro che ti mangia, non l’uomo nero, ma l’uomo bianco,appunto: quello che fa paura.

Jo-vò è un bruttone col naso lungo, un impedito che non sa ballare (quando ci prova, fa ridere i polli!), uno che “con la sua tecnologia crede di poter fare a meno di Dio”.

“Jo-vò!” è un’esclamazione, un appello, una briciola di vendetta: la vendetta della considerazione: “Hei, bianco! Dico proprio a te! Guardami in faccia!”. Non con odio, ma con la fiducia che ci si può, anzi, ci si deve guardare negli occhi e scoprirsi  tutti uomini. 

 

Ame-drjò”: l’ospitalità

            Proprio in quella domenica in cui leggevamo dell’ospitalità di Abramo ai Tre Angeli (Gn 18,1-10°), abbiamo avuto l’immensa fortuna di essere ospitati: non eravamo più etichettati e allontanati quali jo-vò: eravamo Ame-drjò, uomini che possono portare qualcosa di buono, cioè ospiti. Ma più che dare, abbiamo ricevuto! Abbiamo ricevuto spazio cioè accoglienza, acqua per lavarsi cioè rispetto, cibo cioè premura. Abbiamo imparato che cos’è la dignità: un modo di essere della donna Africana, non un tenore di vita. 

            Quella domenica abbiamo vissuto l’esperienza dell’ospitalità, valore tanto grande e tanto significativo anche nella storia della nostra civiltà europea, purtroppo ormai dimenticato… Abbiamo vissuto quest’esperienza a casa di Pauline, ma non solo: anche a casa di MaryLaure, di Toussain, e poi ancora dovunque siamo andati. Per p.Gaetano, in Benin (a Cotounou), l’ospitalità è diventata festa: solenne, sentitissima, partecipata, ricca di musica e danza, mai stanca di ringraziare e di augurare ogni bene futuro al festeggiato.

           

L’incontro con la Parola e la riflessione

            In un’esperienza così significativa non potevano mancare un momento di riflessione e un incontro con la Parola di Dio quotidiani. La riflessione per riordinare le esperienze della giornata, gli incontri. La Parola per illuminare o, meglio, dar senso, che non coincide sempre con la comprensione.

            Di fatto la Parola parlava da sé: in una realtà di così evidenti ingiustizie, di contraddizioni tali, i tono del Vangelo non potevano che essere più chiari, espliciti. Ad un certo punto mi sembrava che mi bastasse leggere il Vangelo del giorno che Lui già parlava: incredibile! La liturgia in quei giorni proponeva Mt cap.11-14; la domenica prima di partire il Vangelo era quello del buon Samaritano (…!); l’ultima domenica prima di andarcene a casa, si iniziava a leggere “Vanità delle vanità…”.

 

La liturgia e la preghiera

            Indimenticabili sono state le celebrazioni domenicali: per la gente, i balli, le musiche, la solennità e i gesti, la partecipazione, le provocazioni che personalmente ho ricevuto: sentire ad Adidògome la predica di un padre togolese che parte come missionario per il Chad è una cosa stravolgentemente unica ed entusiasmante!! Voglio andare in Africa!!!

            Molto importante è stata la partecipazione alle lodi, con le quali la gente pregava ogni mattina: pregare in comunione con la Chiesa, quindi con la propria Comunità, con gli altri campi in missione, nell’intercessione per le Missioni di tutto il Mondo e per il Mondo stesso.

E’ stato unico ricordare dall’Africa Ezechiele Ramin (nell’anniversario del suo martirio), pregare e riflettere per Genova (sconcertanti le impressioni di alcuni giovani togolesi raccolte a riguardo).

 

Una Fede “diversa”

            Una piccola osservazione sulla fede Togolese: è una fede giovane, che forse deve ancora prendere pienamente coscienza di sé e del cammino da fare (del resto è nostro dovere pregare per lei e accompagnarla), ma una fede che in profondità permea  e nutre la vita, spingendo ad una gratuità e ad una generosità palpabili. Quante persone ho visto pregare di fronte ad una statua della Mamma Maria o di qualche altro santo! Veramente lì, in Togo e in Benin, ho visto gente incontrare Dio! E Dio, allora, non può che essere con loro! Non è più un Dio bianco, intelligente e saggio, maschio: è un Dio Padre e Madre così affettuoso per i suoi figli da amare moltissimo modi per me molto nuovi di conoscerlo. Sì, è con loro, con quelli ai quali noi credevamo di dover testimoniare l’Amore e la Fede! E Dio allora non mi manda più da loro, ma mi chiama a Sé con loro, nella sua NUOVA VIGNA.

 

Una nuova Chiesa

            Per nuova vigna intendo un nuovo modo di essere Chiesa.

La Chiesa audace, che sa sfidare le ingiustizie presenti, non sposa la convenienza, le “ragioni” di chi ha tutto.

La Chiesa che sa chiedere e pretendere dai laici, che punta sulla loro formazione e sul loro contributo. Sono rimasto colpito dell’organizzazione per cui attorno al villaggio centrale della Parrocchia ci sono e vivono, fioriscono, altri villaggi guidati da catechisti, volontari che sicuramente riescono ad avvicinare di più la gente.

A questa Chiesa io sono disposto di dare il mio contributo, la mie parte: me stesso.

Una Chiesa giovane che deve interrogarsi sul cammino che è chiamata a fare, ma soprattutto entrare in dialogo con quella parte di Chiesa che detiene il controllo, influenzando, se non monopolizzando perché fossilizzata nella propria cultura, la dottrina e il modo di tradurre oggi il Messaggio di Dio agli uomini; una Chiesa giovane, cioè che deve metterci in discussione! Personalmente, sento molto provocanti le varie componenti culturali della realtà Africana. Indubbiamente sarebbe molto bello coltivare con interesse riflessioni del genere.

 

Tornare a casa

            Indubbiamente il ritorno è stato, ed è, una sfida: trovare le parole per condividere non è certo facile, ma per me è stato ancora più difficile trovare chi volesse farsi raccontare, chi  riuscisse a farmi le domande giuste, quelle alle cui risposte ci tenevo di più perché ci ero arrivato come scalando una vetta (del Tibet).

            Non è certo facile capire cosa fare una volta a casa per non buttare via un’esperienza tanto cara. Credo che la continuità dell’esperienza sia anche nelle cose piccole e semplici come il ricordo e l’affetto (spesso, la mattina, mentre recito le lodi, mi piace pensare che anche a Lomè, o a Tablibò qualcun altro le sta recitando, in francese). Ma la continuità delle tre settimane in Togo-Benin consiste soprattutto nel continuare la riflessione, cioè tentare di essere coerenti con le grandi scoperte fatte: non so dove nel Vangelo di Giovanni, ma Gesù ha anche detto: “sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica”. E con tutte queste riflessioni, intuizioni, mazzate di ogni genere, vere e proprie illuminazioni, c’è da lavorarci una vita!

            Speravo che l’esperienza in missione mi regalasse una conferma a riguardo della scelta del postulato: in Africa Dio non ha mancato di darmi anche più del previsto, in entusiasmo e in voglia di donarmi per la Sua missione!

           

 

Rileggendo queste pagine e ripercorrendo le immagini, i ricordi, le foto e il diario, rinnovo la mia riconoscenza a Dio per quanto mi ha dato e Lo prego di aiutarmi a continuare il cammino iniziato.

Amen.

           

 

 

Provo una conclusione dopo diversi giorni che scrivo, correggo, cancello, mi pongo dubbi.

Come al solito, mi chiedo se non sia il caso di cestinare il file.

Ma voglio  credere che tu, invece, sia almeno un po’ interessato a quanto ho scritto.

Ho cominciato a scrivere senza idee chiare in mente,

 ma mi auguro di non essermene andato chissàddove.

Sicuramente, queste ore al computer mi sono servite a riflettere ancora.

Grazie!

 

Buon cammino,

Diego Dalle Carbonare