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Le Nazioni unite temono la presenza di bambini soldato tra le fila dei ribelli che combattono contro Assad. Lo ha dichiarato Radhika Coomaraswamy, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per i minorenni e i conflitti armati. La diplomatica cingalese ha comunque ammesso che si tratta di un’informazione ancora da verificare e che richiede «il recupero di ulteriori dati». Che l’opposizione al regime nascondesse un’identità dubbia già si sapeva. I soldi e le armi vengono da chissà dove. Forse dal Golfo, se non da più lontano. La sua stessa linea politica è di difficile definizione. Recentemente il patriarca melchita, Gregorio III Laham, ha detto che solo 1.500 uomini dell’esercito regolare hanno disertato e si sono uniti ai manifestanti. È vero, la comunità cristiana della Siria è da sempre una colonna del Baath. Specie la Chiesa greco cattolica. Tuttavia, è altrettanto fuori di discussione il fatto che questa guerra civile non si limiti a essere una tenzone interna tra buoni (oppositori del regime) e cattivi (Assad & Co). Sono molti gli interessi affinché il conflitto cuocia a fuoco lento magari per qualche anno. Ragione primaria è che se la Siria dovesse chiudere il suo capitolo con la rivoluzione, quest’ultima andrebbe ad abbattersi su altri governi. Magari quello giordano. Oppure ancora più a sud. Per esempio nel Golfo. Scarsa trasparenza e brutalità da ambo le parti. È questo il binomio notevole perché della Siria si continui a parlare senza raggiungere un dunque. Il che vuol dire massacri di cui è difficile identificare il responsabile e notizie ambigue. I bambini soldato danno un contributo disumano a un conflitto che non si vuole dimenticare, ma che al tempo stesso è meglio non risolvere.

Aveva 88 anni ed era malato da tempo. Il papa della Chiesa copta ortodossa, Shenouda III, è morto ieri ad Alessandria d’Egitto. Per i cristiani del Cairo e dei villaggi lungo il Nilo si tratta di un dolore ben più forte della scomparsa di un pontefice per i cattolici. Perché Shenouda era un santo vivente, oltre che un leader politico di fine spessore. In gioventù aveva indossato l’uniforme dell’esercito, combattendo perfino contro gli israeliani nel 1967. Poi aveva scelto la vita dell’isolamento e della preghiera, in uno dei monasteri che costellano il deserto egiziano. Scrigni, questi, di una spiritualità primordiale. Gli eremi copti si ritiene che siano stati costruiti esattamente lungo le tappe della Sacra Famiglia durante la sua fuga in Egitto, per scappare da Erode. E questo rende i fedeli locali carichi di un orgoglio esclusivista. «Noi abbiamo costruito l’Egitto moderno», li si sente commentare. Dal monaco eremita, all’immigrato delle pizzerie italiane, fino ai ricchi uomini d’affari del Cairo e di Alessandria. Per i copti essere copti è un onore. Nessuno tra loro oserebbe disobbedire a una messa, una preghiera, o peggio ancora a non ascoltare la voce che la sua chiesa propaga ogni giorno. Shenouda III era papa della Chiesa autocefala egiziana (copto, dal greco Aigyptios, Egitto). Erede pastorale di San Marco Evangelista, il quale portò il Cristianesimo in Nord Africa e lì fu martirizzato. Duemila anni di storia. Una tradizione ben più radicata di quella islamica. Checché se ne dica del ferreo legame tra Egitto e Corano. E poi un cammino carsico fatto di convivenza e persecuzioni. Oggi siamo alle persecuzioni. Papa Shenouda era amico di Mubarak, o meglio sapeva come trattare con il vecchio faraone. Fu del resto quest’ultimo a revocargli l’esilio al quale lo aveva condannato Sadat. Spesso le minoranze si adeguano al potere costituito, onde evitare problemi. Era così anche in Iraq per i caldei, ai tempi di Saddam. Lo stesso è per i cristiani in Siria. Allineamento con il regime e rifornimento a questo delle adeguate risorse, affinché non perseguiti i fedeli stessi e assuma una linea di parziale modernizzazione. È stato grazie a questo pontefice appena scomparso, e a Cirillo VI prima di lui, che il regime di Mubarak ha sfoggiato una classe dirigente di professionalità internazionale. Boutros Boutros-Ghali, il segretario generale dell’Onu negli anni novanta, è appunto un copto. Morto un papa se ne fa un altro. Proverbio trasteverino che si adatta al cristianesimo nilota. Sì, ma chi? Il vescovo Amba Mousa? A suo tempo è stato lui stesso a schernire qualsiasi previsione come successore, nascondendosi dietro il protocollo che prevede l’estrazione a sorte tra i monaci. Una scelta di Dio, quindi imprevedibile, che si posa sul capo del suo rappresentante in quel Paese all’ombra delle piramidi. Tutto molto suggestivo, ma forse un po’ poco pratico. Il prossimo papa copto dovrà prender per mano una comunità cristiana che, da anni, teme di essere schiacciata dall’Islam più intransigente. Per i copti i Fratelli musulmani sono il nemico da contrastare. Da qui il rifiuto nel separare le istanze moderate da quelle estremiste. Quella lasciata da Shenouda è una chiesa che denuncia persecuzioni. Tuttavia, non disdegna di imbracciare le armi. È necessario un papa politico, quindi. In grado di far sentire la propria voce nel difficile processo di normalizzazione che l’Egitto ha (forse) intrapreso. E magari di confutare i timori, nutriti dai cristiani stessi, per cui il Paese sia a un passo dallo scontro confessionale.

Finalmente un reportage! Ieri all’Ostello Bello di Milano, Antonella Appiano ha presentato il suo libro “Clandestina a Damasco”, Castelvecchi editore. L’iniziativa portava la firma di Associazione Capramagra, pimpante Onlus attiva nella cooperazione internazionale.

Finalmente un reportage! Dicevamo. Perché il libro della Appiano è la testimonianza diretta di quattro messi passati tra i vicoli di Damasco e non solo, a seguire in prima persona la rivoluzione siriana. Quattro mesi di clandestinità, travestimenti, ma soprattutto di fatti visti con i propri occhi e subito raccontati. Poche storie. Quando si è bersaglio di ignoti cecchini che sparano dai tetti, oppure pedinati dalla Mukhabarat, l’analisi va nel dimenticatoio. E il libro nasce da sé. Ovvero sulla base dei fatti. Il giornalista ha poco da perdere tempo con riflessioni sullo spirito del mondo. In Siria c’è una guerra civile e bisogna raccontarla, punto.La Appianofa questo. Fa la giornalista. Vede, ascolta, scrive.

“Clandestina a Damasco” è semplice. Neanche 150 pagine, senza una nota o una bibliografia – sapete? Quelle che già alle tesi di laurea fanno mettere perché così si ingrassa inutilmente il volume. A che scopo ridondare però?La Appianoriporta quel che vede. Riporta, reporter: c’è assonanza, chissà come mai…

Per chi vuol sapere quel che c’è scritto nel libro, il consiglio è presto detto: vada in libreria, dodici euro e cinquanta e buona lettura. Fine della recensione.
Il post di oggi è invece sul merito. Sulla qualità del prodotto fornito da noi giornalisti. O meglio, dalle testate. Visti i fatti siriani, il lavoro di Antonella Appiano dovrebbe restare sulle scrivanie dei direttori dei giornali più letti in Italia. Come pure sul comodino di una qualsiasi persona minimamente sensibile a quel che accade appena lontano dai nostri mari. Una sorta di bigino sull’attualità. Suo malgrado, “Clandestina a Damasco” non riceve l’attenzione che merita. Non che sia un libro clandestino – giochiamo sulle parole – bensì è dagli alcuni addetti ai lavori. E nemmeno tutti. Perché l’idea di camuffarsi da ricercatrice e restare a Damasco con qualche pericolola Appiano la ha avuta, ma molti colleghi l’hanno snobbata. «Sai quanti mi hanno detto che ho inventato l’acqua calda?» commenta lei stessa. È vero, mascherarsi da chissachi, quando si è invece lì per recuperare notizie, lo saprebbero fare un tutti. Ma chi davvero si è messo in discussione? Da notare pure che l’autrice non è propriamente quella che passa inosservata tra i suq del Medioriente.

Snobismo. I giornali italiani snobbano le buone idee. Non tanto perché il settore è in crisi, non ci sono lettori, l’argomento non interessa, la pubblicità è poca, eccetera. Ma solo perché il buon lavoro vien fuori da chi ha coraggio. Il nostro mondo sta cambiando. Un pc al posto della carta, una tastiera anziché la penna. Un’evoluzione bellissima. Però, soffermandoci su questa immagine, ci si dimentica che il vero binomio notevole del giornalista è: cervello e scarpe comode. Perché il lettore vuole sapere quello che succede dietro l’angolo. Quindi bisogna scendere in strada. Dobbiamo raccontare. Nient’altro che questo. Le analisi le si possono lasciare ai lettini di psichiatria. Un giornale si scrive con le notizie. Quindi on the road. Magari anche clandestinamente.

 

Postilla personale: al dibattito il sottoscritto ha fatto da gregario. Si è divertito e ringrazia Capramagra. Dicono: «Piaggeria!» No gentilezza.

 

L’Egitto è l’Egitto. È questo è il leitmotiv che ripete chi è sicuro che all’ombra delle  piramidi non potrebbe mai attecchire un qualsiasi fondamentalismo religioso. L’Egitto è l’Egitto, è vero. La tradizione laica e occidentale del Paese lo rende immune da tutto ciò che è estremo, integralista ed esclusivo. Al Cairo e ad Alessandria c’è una middle class colta che non ha alcuna intenzione di velare mogli e figlie. Tuttavia, c’è anche una società rurale in crescita e una povertà latente che sono ormai il bacino di sostegno politico e sociale di quelle forze che con il passato socialista e borghese dell’Egitto non hanno nulla a che vedere. È in questa società che sta cambiando che ha preso piede la Fratellanza musulmana. Sostenuta anche da forti percentuali di residenti nelle grandi città, dove il tenore di vita è crollato.

L’Egitto era l’Egitto quindi? Il Paese si sta evolvendo. Sicché è giusto riferirsi al passato. È altrettanto giusto preoccuparsi? La Fratellanza musulmana, gli addetti ai lavori lo sanno, è tutt’altro che un blocco monolitico di imam che vorrebbe imporre il Corano a tutti. Anzi, paradossalmente è il più longevo prodotto politico di quell’Egitto illuminato di inizio Novecento, che a noi europei piace sempre ricordare.

D’altra parte i Fratelli musulmani sono persone serie. Avevano promesso di vincere alle elezioni. Ci sono riusciti. Si erano detti contrari al trattato di pace con Israele e che l’avrebbero rivisto una volta ottenuta la maggioranza in parlamento. Proprio ieri la Camera bassa ha approvato la chiusura delle forniture di gas oltre frontiera e l’espulsione dell’ambasciatore israeliano al Cairo. Ecco, questo è un brutto segnale, per cui è giusto preoccuparsi. Il rischio non è tanto che un partito di tendenza religiosa assuma il controllo del Paese. Il problema è che all’interno di questo venga dato ossigeno alle frange più agguerrite, minoritarie sì, ma che – essendo capaci nel raccogliere celermente consensi – possano prendere il sopravvento.

Egitto e Israele erano amici. Fino a poche ore fa. Amici sempre pronti a bisticciare, ma comunque si parlavano. Adesso non è più così. È colpa  dei Fratelli musulmani? Non di tutti loro. Una parzialità che offre comunque il fianco alla critica da parte di chi li vuole attaccare perché fondamentalisti. È la vecchia storia de «l’avevamo detto!». L’Egitto era quel che la rivoluzione, nel bene e nel male, ha resettato.