Ringrazio anticipatamente chiunque vorrà arricchire queste pagine con un commento.
Chiedo solo a ciascuno il buon senso di evitare espressioni che possano risulate offensive per qualsiasi altro visitatore.

lunedì 28 giugno 2021

MALEDETTA PRIMAVERA.


Mi guardo allo specchio attraverso il velo di vapore. Alzo una mano per passarla sopra la mia immagine sfocata, ma mi fermo a mezz’aria: se lascio le ditate sullo specchio dovrò passarlo di nuovo col vetril.

“Sei sciatta! Sai che non lo sopporto.”

Aspetto ancora qualche minuto che si asciughi, poi strappo due fogli di carta igienica e li strofino sulla specchiera.

Mi osservo. La virgola color ocra, che dal lato esterno dell’occhio destro scende lungo lo zigomo, si nota appena. In tre giorni da rossa e gonfia la pelle è passata prima al viola intenso, poi al blu e infine a questo colore che tende al giallo e che dovrebbe scomparire facilmente sotto un po’ di trucco.

“Mi dispiace, non volevo: sai che non volevo.”

Tolgo l’asciugamano che ho avvolto sui capelli e li tampono a lungo prima di cominciare a spazzolarli. Non voglio accendere il fon: Luca sta ancora dormendo.

Di solito a quest’ora è già fuori e il problema non si pone, ma è quasi un mese che non lavora. Se non cambia qualcosa non so come farà.

Come faremo. Perché ha convinto anche me a lavorare per lui e quest’autunno lascerò l’insegnamento.

“Non vorrai passare tutta la vita a fare la maestra degli handicappati. Sai quanto mettiamo via se non devo prendere un’altra dipendente? E appena il locale decolla...”

Mi allontano col viso dallo specchio per vedere il risultato del trucco. Mi pare ottimo: il livido praticamente non si vede. Non so perché lo faccio, tanto al lavoro non ci vado neanche io: le scuole sono chiuse e di casa non si esce.

Noto l’alone che il mio fiato ha lasciato sul vetro quando mi sono avvicinata per truccarmi e strappo convulsamente due foglietti di carta igienica.


Scendo in cucina, preparo la moka e metto su il caffè.

La scuola mi manca. Mi manca ora che è chiusa per questa cosa assolutamente inedita che stiamo vivendo e mi chiedo se non mi mancherà ancora di più quando l’avrò lasciata del tutto.

La verità è che il mio lavoro mi piace. Mi piace insegnare, mi piace stare in mezzo ai bambini, mi piace discutere di didattica coi colleghi, mi piace tracciare un cammino di apprendimento su misura per accompagnare i miei ‘alunni speciali’ verso obiettivi che per altri sono scontati.

Ma questo a Luca ho smesso di dirlo: si arrabbierebbe solo.

Sei un’egoista: sai quanto ho lavorato per arrivare ad avere un locale tutto mio? E ho bisogno di te, non lo capisci? Sono sacrifici che una donna può fare per la famiglia. No?”

Famiglia. È stata questa parola a farmi capitolare.

Fino ad ora, per parlare di figli è sempre mancato il momento, i soldi, la determinazione.

“Davvero hai fretta di mettere al mondo dei figli? Non lo vedi tutti i giorni come si riducono i figli di questa società di merda? A me sembra un bell’egoismo anche questo, da parte tua.”

È un pezzo che me lo sento ripetere. Io però il mese scorso ho compiuto 35 anni e penso che, magari, dopo averlo aiutato in questo suo nuovo progetto, una volta che il locale è decollato, come dice lui, questa cosa della famiglia, dei sacrifici che sono disposta a fare, potrebbe dare i suoi frutti.

Mentre sorseggio il caffè, mi accorgo dello smartphone che, silenzioso, sul tavolo della cucina sta lampeggiando. Lo afferro nel momento esatto in cui si spegne. Cinque chiamate perse da mio padre.


La primavera non è mai stata così bella, a vederla attraverso i vetri di una finestra. Sulla statale incredibilmente deserta, la campagna mi viene incontro col suo verde intenso e tenero di germogli che sembra una novità assoluta dopo un mese passato a guardare quello improbabile dell’edera finta sul balcone del vicino.

Con l’autocertificazione scarabocchiata in fretta dentro la borsa, provo la sgradevole sensazione di fare qualcosa di illegale oltre che di immorale.

Luca non era d’accordo, ma alla fine sono partita.

“E mi lasci qui da solo? Lo so che è tuo padre e che sta male. Insomma, allora se hai deciso va’. E non lamentarti poi che sono io quello che pensa solo a sé stesso: lo vedi che fai sempre quello che vuoi con me?”

Come posso dubitare del suo amore. Non potrei mai lasciarlo.

Poi ci sono i suoi occhi, le sue mani, l’odore della sua pelle.

Farei qualunque cosa. Non voglio che mi lasci. Mai. Non vivrei senza di lui.

            Nella casa dove sono cresciuta, trovo mio padre con la febbre alta e una forte tosse. È peggiorato rapidamente da quando l’ho sentito questa mattina. Chiamo il suo medico, arrabbiata che lui non lo abbia ancora fatto.

– Anche Luigi ha chiamato il medico la settimana scorsa. Gli ha mandato l’ambulanza e non è ancora tornato. – I suoi occhi si velano di lacrime al termine di un accesso di tosse.

Il telefono del medico squilla occupato. Prenoto la richiamata e gli rispondo di non fare il bambino.

Quando il dottore mi avvisa che mi manderà un’ambulanza, viene da piangere anche a me.

I paramedici indossano una tuta bianca che li copre fin sopra la testa, mascherina, guanti e visiera. Mi viene spontaneo avvicinarmi al letto di mio padre e protendermi su di lui con un irrazionale istinto di protezione. Le mie lacrime hanno scavato un solco nel make-up di questa mattina e il livido di fianco al mio occhio destro è tornato visibile. Mio padre se ne accorge e nel suo sguardo leggo una pena ancora più profonda della paura di quello che gli sta succedendo. Mi rendo conto che lui non ha mai capito, non ha mai sospettato. Neanche quella volta della costola incrinata, quando gli ho detto che il mio ‘alunno speciale’ mi ha spinto contro lo spigolo di un banco.

D’istinto afferro la borsa e provo a seguire la barella, ma un dottore mi si para davanti.

– Signora, lei deve rimanere qui. Faremo tutto il possibile ma si prepari al peggio. Le faremo sapere noi. Intanto lei non può lasciare questo domicilio. Verrà contattata dall’ULSS per definire i termini dell’isolamento fiduciario. –

Sono frastornata. – Come? –

– La quarantena signora. Non deve muoversi da quest’appartamento per nessun motivo. Ha capito bene? –

– Sì, sì certo. – Allungo la mano verso quella di mio padre ma riesco solo a fargli scivolare tra le dita il suo smartphone. – Ti chiamo, papà. –


Telefono a Luca e, tra i singhiozzi, gli racconto tutto. Vorrei essere tra le sue braccia.

Lui prova a scuotermi col suo atteggiamento pragmatico: quell’intelligenza pratica che lo ha sempre sostenuto, che lo ha portato a realizzare i suoi progetti ambiziosi e che ha sempre suscitato tanta ammirazione anche in me.

Quando metto giù mi sento peggio di prima.

Mi muovo nella casa dove sono cresciuta, come in cerca di qualcosa in cui riconoscermi.

“Te l’avevo detto che era una cazzata partire così. Doveva chiamarselo lui il dottore!”

La cucina a buon mercato è recente perché quella vecchia era diventata pericolosa, ma il divano del salotto ha i braccioli consumati e il plaid scozzese è quello in cui avvolgevo i piedi mentre preparavo la tesi.

“Che poi adesso chissà quando potrai tornare a casa. E farci non ci fai niente: smettila di pensarci.”

Il televisore è di ultima generazione perché una delle poche volte che Luca mi ha accompagnato qua, ha voluto portare papà a comprarne uno nuovo e lui gliel’ha lasciato scegliere fingendo di non preoccuparsi dei soldi.

“Ma che sia chiaro che non ti muovi finche non sei sicura: che non mi porti qui qualcosa. Tu alle conseguenze non ci pensi mai, ma io appena riaprono devo lavorare se no qui va tutto a puttane.”

La camera da letto è forse l’unico pezzo di valore di questa casa: appena sposati i miei genitori l’hanno vista in un’esposizione e, per un anno, hanno dormito su una vecchia rete con un unico tavolino di legno impiallacciato come comodino, finché non sono riusciti a comprarla.

Dalla foto sulla specchiera, mia madre mi osserva in silenzio. Io di lei quasi non ho ricordi, anche se a volte mi pare di percepirne una traccia nel timbro di una voce... in una canzone della Goggi.

Afferro la foto e la osservo: giovane, sorridente, bellissima nel suo abito di chiffon color pervinca senza spalline. Mio papà le sta accanto in doppiopetto e la guarda come una visione.

Oh, papà! Quanto saresti stato felice se solo il destino non te l’avesse portata via.

E io, sciocca, che mi lamento!

Afferro il telefono e richiamo Luca. Lui rifiuta la chiamata.

Apro whatsapp e digito: ‘amore, scusa’.

Risponde: ‘ho da fare’.


Parlare con mio padre è un dolore fisico.

Coricato su un fianco, perché solo così respira un po’ meglio, con le cannucce dell’ossigeno che gli escono dal naso, ansima ogni parola come uno sherpa sull’Himalaya, ma non demorde. Ha negli occhi l’ultimo sguardo che mi ha dato, a metà tra il colpevole e l’indignato. – Come ho fatto a non capirlo? Come puoi lasciarglielo fare? –

– Papà, non pensarci: non è niente, davvero. –

Tossisce. E vedo che alza una mano come a chiedere ancora un po’ di tempo. Qualcuno davanti a lui gli risponde che deve mettere giù. Che devono sedarlo. Devono intubarlo.

Mi ero ripromessa di non farmi vedere piangere, ma non ce la faccio. – Papà, se la mamma non fosse morta sareste stati così felici! Per sempre. –

Lui scuote appena il capo. – Non lo so. –

La mia espressione sconcertata riesce a strappargli un sorriso.

– E come faccio a saperlo? Tesoro, guardami: – Con uno sforzo volge lo sguardo attorno a sé e, senza volerlo, muove lo smartphone. Oltre il cuscino sgualcito e sudato, vedo la testiera di metallo del letto, un monitor attraversato da linee curve e sequenze di numeri, cavi che si attorcigliano alla manica del suo pigiama. – la vita, quella vera, non la puoi immaginare. – Ansima. – Però l’avrei rispettata. Anche nell’infelicità. Forse ancora di più. –

Tossisce. Il dottore gira attorno al letto e gli tende perentorio la mano perché gli consegni lo smartphone.

– Addio bambina, ti saluto la mamma. –

– Torna a casa papà. –


Me lo hanno restituito in un’urna.

Davanti all’ossario, in un cimitero deserto, guardo i mazzi di fiori appoggiati alla sua foto chiusa in una busta trasparente rigata di pioggia: è un addio strano senza l’abbraccio di un funerale.

Eppure, sembra una cosa minima rispetto a quello che sta succedendo: una di quelle a cui è facile fare l’abitudine. L’operaio del comune si ripara sotto una tettoia e il prete mormora una benedizione con l’impermeabile nero sopra i paramenti sacri.

Io non piango neanche. Mi sento sospesa in un tempo di mezzo, tra quello che è stato finora e quello che sarà, aspettando che ogni giorno mi renda un po’ più forte, per affrontare quello che fino al giorno prima non riuscivo neanche a immaginare.

Perché la vita, quella vera, non la si può immaginare.


Luca lo ha capito che da lui non torno.

Ci sono giorni in cui la sua cattiveria, la sua rabbia, mi segnano ancora la pelle come lividi difficili da coprire.

“Adesso mi lasci perché le cose vanno male. Perché mi fanno chiudere. Guarda che lo hanno capito tutti la puttana che sei.”

E giorni in cui ricordo solo le carezze, la sua voce calda, un desiderio così viscerale da spezzare il respiro.

La verità è che non non ha nessuna importanza.

Io non riesco più a vedermi se non attraverso quell’ultimo sguardo di mio padre.

Perché una gomitata nelle costole non è meno grave di un ceffone, solo perché si copre più facilmente. E sono sempre più sicura che mio padre sarebbe stato felice con mia madre. A maggior ragione credo che gli mancherei di rispetto a svenderla, la mia felicità.

E poi c’è un bambino con difficoltà di apprendimento che, in un momento così nemico dell’insegnamento, ha ancora bisogno del mio aiuto. Anche l’anno prossimo.

(Racconto premiato con menzione speciale al concorso "A-normalità - frammenti di una straordinaria quotidianità" 26/06/2021)

sabato 2 novembre 2019

PRIMO NOVEMBRE - UN MAZZETTO DI PAROLE.


Sì lo so, potrei portarvi un fiore.
Ma la verità è che dopo tutto questo tempo non riesco ancora a trovarvi dietro una lapide.
Però l’altra notte vi ho sognato.
Insieme come non vi ho mai visto. E c’ero anche io. Tutti insieme come non siamo mai stati.
Voi con la vostra età di allora e io con la mia di oggi, che la vostra ormai l’ho superata.
È così, lo so: la vita mi ha già dato più tempo di quello che ha dato a voi. Ma non mi ha dato voi. Non per abbastanza tempo.
No, mamma. Non ho dimenticato i nostri giorni insieme. Certo che no.
E una volta qualcuno mi ha detto che ti avrei ritrovata dentro di me.
Dentro non so. Faccio sempre un po’ fatica a guardarmi dentro.
Ma fuori si, fuori mi capita di incontrarti.
In quella bambina che ho tenuto in braccio e che ora sta seduta dietro una cattedra al servizio della grammatica, dell’ortografia e della buona educazione come facevi tu.
O in quella donna, incontrata per caso, al lavoro, che ha gli stessi anni che avresti tu adesso. Pulita, ordinata, con addosso un po’ di malinconia, un dolcevita a coste e una catenina d’oro con la madonna.
Allora immagino di sapere esattamente come saresti tu oggi. Di vederti riuscire a convincere tuo nipote ad andare a farsi tagliare i capelli.
E tu pa…
Papà? Babbo? Papi?
Ecco, vedi, non so neppure come ti avrei chiamato se avessi avuto il tempo di chiamarti.
Eppure l’altro giorno ho incontrato anche te, ci crederesti?
Eri nelle mani di un operaio. Grandi, scure di sole e un po’ screpolate. Lui le teneva sulle spalle di un bambino con gli occhiali spessi già a nove anni.
Si vedeva che quelle mani erano uno scudo potente.
Avrei voluto vederle, almeno una volta, le tue mani.
Mi ci sarei aggrappata con tutta me stessa. Poi magari le avrei mollate, così da un giorno a l’altro. Mi sarei fatta spazio in mezzo a loro per andare avanti sulla mia strada.
Ma se le avessi viste, anche solo una volta le tue mani, sono certa che le avrei trovate tutte quelle volte che sono inciampata così rovinosamente.
Perché è questo che significa, no, avere un pa…?
Già. Ma cosa ne so io di cosa voglia dire avere un padre?
Io che faccio collage col tempo per giocare a esserci stati, una volta, tutti assieme.



sabato 9 agosto 2014

LETTERA D'AMORE

Ti amo,
ti amo perché...
no, non c'è un perché: ti amo e basta.
Ti amo da morire nel senso che per averti morirei,
nel senso che dopo di te potrei morire perché avrei avuto abbastanza,
nel senso che senza di te, forse, sto già morendo...
Amo la tua voce che mi vibra dentro come l'eco di me stessa...
Amo il tuo viso che vorrei soltanto sfiorare con le mie dita... leggera... in ogni sua piega, su ogni curva, nel  solco di ogni ruga, fino a memorizzare il tuo profilo come un cieco, e poterlo sentire ancora, e ancora nel buio della mia mente sgombra da ogni altro pensiero.
Amo le tue labbra umide, le tue mani grandi...
amo il profumo della tua pelle, amo l'eccitazione incontrollata che esplode contenuta in ogni tuo abbraccio...
Amo il tuo respiro che porta via l'aria tra le nostre bocche vicine.
Ma più di ogni altra cosa amo il calore di una tua carezza, sul viso... sul corpo... 
il mio corpo...
il mio corpo che ora sento...
finalmente sento... vivo caldo fremente... entro i confini del contatto col tuo...
Il mio corpo ed il tuo: distinti, vicini, uno confine dell'altro...
confusi solo per un istante...
un solo istante,
un istante perfetto, senza ne prima ne dopo...
l'istante di un respiro spezzato, di un nome sussurrato, ansimato, sospeso...
e poi...
Ti amo, così, semplicemente: ti amo.
Senza un perché: ti amo e basta.

domenica 25 maggio 2014

Vita media

Quando tuo padre muore a trent'anni e tua madre a cinquanta, il concetto di 'vita media' può apparirti piuttosto breve. Allora puoi passare il resto della vita ad aver paura di morire o renderti consapevole di ogni giorno che passa come di un privilegio.
La verità è che è dura imparare a vivere da chi è morto troppo presto per potertelo insegnare.
Così aspetti che la vita stessa te lo insegni, attraverso quelli che ti sono rimansti.
Ho imparato la calma da chi non ha mai ottenuto niente alzando la voce.
Ho imparato la forza da chi si è scoperto debole e ha avuto la determinazione di non mollare.
Ho imparato la gioia da chi prendeva tremendamente sul serio quelle poche, pochissime cose che vale davvero la pena di prendere sul serio nella vita e sapeva ridere di tutte le altre.

Ho imparato ad amare... no, forse quello non l'ho ancora imparato bene, ammesso che ci sia qualcosa da imarare nell'amore che dai e che ricevi.

Giovedì 22/05/2014. Oggi ho perso l'ultima persona che ancora mi parlava di te, papà.  

giovedì 1 maggio 2014

RIVOLTO - 1° MAGGIO 2014 – EMOZIONI

L’erba profuma ancora della pioggia del giorno prima sotto un sole tanto limpido quanto inatteso.
Sulla pista gli aerei sono schierati dietro le transenne: eleganti, miti nell’immobilità silenziosa eppure così fieri e pronti a manifestarsi in tutta la loro potenza.
Nel prato un bambino corre dietro ad un pallone blu e rosso, in quel momento per lui non esiste altro: gli basta calciarlo per essere in nazionale e alza le braccia al cielo ad evocare il gol della vittoria.
Un vecchio racconta di quando anche lui volava. Ha le mani che tremano e gli occhi velati, ma oggi, dentro di sé, è come se niente fosse cambiato: potrebbe benissimo essere ancora lassù a governare due ali spiegate.
Una donna segue con la sguardo un uomo, un viso tra la folla, pur sapendo che lui non si volterà a guardarla, mentre qualcuno è così indaffarato da non rendersi neppure conto del mattino che avanza, del sole che scalda.
Poi l’attesa si esaurisce, gli aerei sfilano lentamente, uno dopo l’altro, ad omaggiare il loro pubblico e finalmente si levano nel frastuono che cresce, come i battiti del cuore, e rapido si allontana rapendo gli sguardi di tutti, trascinando con sé ogni cosa: i ricordi di un vecchio, i pensieri di una donna, i sogni di un bambino che rimane così… immobile, col naso all’insù e il suo pallone sotto il braccio.
Le evoluzioni sembrano infinite, l’entusiasmo instancabile, e nell’impegno di quello che è, in realtà, un’eccellenza mondiale del nostro paese, nel disegno di quelle formazioni perfette, di quelle spirali, di quelle volute dalla precisione insostenibile, tutto appare leggero come le scie di colore tra le nuvole e quasi… semplice!
Più semplice che vivere, invecchiare, amare… Semplice come sognare.
Adesso gli aerei sono di nuovo a terra, e i loro piloti sono in mezzo alla gente che si accalca sulle transenne per contendersi una foto… un autografo.
Il bambino è sulle spalle di suo padre col suo pallone tra le mani. Uno di quei ragazzi, uno dei suoi ‘eroi’, allunga il braccio fino a lui e con il pennarello traccia la sua firma sulla palla. Il bambino, felice, torna sul prato, alcuni amichetti gli corrono incontro per giocare ma lui scappa via; si ferma lontano da tutti, guarda in alto, cerca l’azzurro tra le nuvole, poi calcia il suo pallone rosso e blu più forte che può, più alto che può, verso il cielo: “VOLA!”
Un grazie sentito ai ‘ragazzi’ che oggi ci hanno fatto ‘volare’.

martedì 24 dicembre 2013

Buon Natale 2013



Caro Gesù bambino,
stanotte di desideri sono certa che ne dovrai soddisfare parecchi: la famiglia, il lavoro, la paura del futuro… Da tanto io non ti chiedo più miracoli ma non voglio rinunciare ad un pensiero positivo.

Io ho dei figli: non sono perfetti (sai che noia se no!), ma non li cambierei di una virgola. Sono la mia famiglia.
Tu conservameli così come sono, adorabili ed insopportabili nella giusta misura. 

L’orgoglio di un lavoro onesto, restituiscilo a chi non ce l’ha, perché chi ha questa fortuna e se ne rende conto non può che offrire il proprio desiderio affinché uno per uno, dal giovane al padre di famiglia, dall’imprenditore all’operaio, riacquistiamo tutti la dignità che ne deriva. 

Ho degli amici, Gesù bambino, pochi ma così ben selezionati da aver imparato a condividere con loro anche le lacrime e non solo i sorrisi. Porta a me e a loro la fortuna di sentirci vicini nei momenti buoni come in quelli meno buoni.

Infine, a onor del vero, ti confesso di avere anche un bel bagaglio di sofferenze e di esperienze difficili; un bagaglio così grande da aver imparato ad apprezzare sopra ogni cosa il dono della speranza, quella che alla fine della giornata più cupa ti fa dire ‘domani andrà meglio’. Ecco, quella non farmela mai mancare, Gesù bambino, perché se oggi qui ho chiesto troppo, con quella affronterò ciò che la vita mi porterà, con o senza miracoli…

Buon Natale a tutti.

giovedì 14 marzo 2013

un giorno così...

Che c'è? Cosa ti manca?
Niente! 
E' solo un giorno così.
Uno come tanti...

Uno di quei giorni in cui ti sembra che qualcosa ti sfugga tra le dita, qualcosa di così importante che ti mancherà per sempre perché non è una storia, non è un lavoro, non è un singolo progetto, ma è quello che ti identifica che ti viene a mancare...
sei tu che manchi a te stesso...
E non vuoi andare avanti così, come se vivessi la vita di un altro...


Ma allora, ti chiedi, la tua di vita qual'è?
E' questa e lo sai...
Sai che nessuno te ne darà mai un'altra.
Così stringi le mani perché non ti sfugga questa tua vita, perché non scorra neanche più un secondo senza che tu ti possa sentire pienamente te stesso...

Quando è veramente se stesso un marinaio? Quando respira la nebbia del mattino con negli occhi l'orizzonte e in bocca il sapore del mare?
Quando è veramente se stesso un insegnante? Quando traccia una strada davanti a chi lo vorrà seguire perché finisca con l'amare e rispettare le cose in cui lui crede?
Quando è veramente se stesso un atleta? Quando spinge il suo corpo a superare i suoi stessi limiti?
Quando è veramente se stesso un poeta? Quando le sue parole provano emozioni... e piangono... e ridono?
Quando è veramente se stesso un uomo? Quando sta in una donna e vuole darle piacere almeno quanto ne prende, perché quello che lei gli accende dentro è quanto di più simile alla 'vita' gli sia mai capitato di immaginare...

Che c'è? Cosa ti manca?
Di cosa hai bisogno per sentirti veramente te stesso?
Non lo sai...
Adesso come adesso non lo sai...
Ti manca un luogo, un pensiero, un momento, una persona dentro la quale sentirti assolutamente te stesso...

che c'è... cosa ti manca...
niente!
E' solo un giorno così...
Uno come tanti.

martedì 22 gennaio 2013

...perchè ha molto amato.

La chiesa è silenziosa, fredda e vuota, eppure al tempo stesso piena di aspettativa: accogliente come un abbraccio. La donna entra in punta di piedi attenta a non disturbare, con lo scalpiccio degli zoccoli, il silenzio. Sarà perché odora della sua infanzia, quando a condurla era la mano soffice e calda della nonna, ma quella navata muta la invita ad avanzare. 
Non frequenta le liturgie ormai da tanto tempo, e  le manca... 
Le manca il far parte di una comunità: di quella che le avevano insegnato a considerare come una famiglia.
Eppure non ce la fa a tornare, se non in serate come quella quando la chiesa si è svuotata, perché si è sentita tradita...   si è vista negare la consolazione quando ne aveva più bisogno... si è sentita dire che aveva tradito il patto col suo dio quando aveva smesso di credere in un matrimonio sbagliato e aveva ricominciato a credere nell'amore.
La chiesa del cristo che predicò l'amore sopra ogni cosa non ti chiede di non allontanarti da un uomo che ti fa del male o magari che ne fa ai tuoi figli, solo non ti dà la possibilità di ricominciare perché puoi spezzare un patto d'amore con un uomo ma non una promessa a dio.
Un uomo che viene lasciato da una donna che ama, foss'anche senza colpa alcuna, non può credere ancora nella famiglia, in una donna che magari dia stabilità ai figli, perché sarebbe escluso dai sacramenti, ma se quello stesso uomo, non curandosi del bene dei figli, uscisse ogni sera per andare a puttane il mattino dopo gli basterebbe confessarsi per essere accolto alla mensa del signore.
Possibile, che il dio che perdona assassini e pedofili non sia disposto a dare una nuova opportunità a una ragazza che ha vent'anni, perché innamorata, ha fatto un errore?
Ma forse dio non c'entra in tutto questo... la chiesa, la comunità, è fatta di uomini e può essere imperfetta quanto gli uomini che la compongono.
Questo, quella donna, glielo può perdonare alla sua chiesa e nell'abbraccio di quelle panche odorose di legno, di quei dipinti carichi di significati, di quelle pietre calde di fumo di candele, ascolta le parole del suo Signore. '...le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato.' 

domenica 13 gennaio 2013

Ecco perchè io non riuscirò mai a scrivere un best-seller.

Oggi abbandono il taglio solito dei miei post per dire la mia su un argomento semiserio riguardo al quale hanno già parlato in molti.
Io per molto tempo mi sono rifiutata di leggere 'Cinquanta sfumature di grigio' perché non è il genere di romanzo che preferisco e perché di solito diffido del clamore dei media, ma dato che questa volta il 'parlarne' ha superato davvero ogni limite non ho potuto fare a meno voler capire 'perchè'.
Così l'ho letto e vorrei esprimere alcune considerazioni.
Intanto onore al merito: qualunque cosa si pensi dell'opera dal punto di vista letterario, linguistico, morale o di genere, non si può fare a meno di riconoscere all'autrice il successo editoriale (al quale anche io ho contribuito acquistando la mia brava copia). 
Riguardo alla trama c'è da dire che, in un totale di poco più di 500 pagine, l'autrice ha descritto nel dettaglio ben 16 scene di sesso esplicite (le ho contate!) e tutte articolate in orgasmi multipli, (quando si dice la fantasia!); ora capirete anche voi che, date queste premesse, rimane davvero poco spazio per raccontare una storia. Non a caso ha dovuto scrivere altri due libri per arrivare al tanto atteso (e forse un po' scontato!!!) 'e vissero per sempre felici e contenti'.
Ad ogni modo, io non avrei mai immaginato che il pubblico premiasse tanto, ancora ai giorni nostri, la storia della verginella che si sottomette in tutto e per tutto alle fantasie dell'uomo naturalmente bellissimo, affascinante, di successo e... ma guarda un po', ricchissimo! 
Al contrario ci vedrei di più una donna nel ruolo della dominatrice... 
Per quanto non ami molto neppure l'uomo troppo sottomesso... 
Ma immagino che un bel rapporto alla pari dove un uomo e una donna esprimano appieno il loro erotismo in modo maturo e consapevole (un paio di belle idee per far loro passare qualche pomeriggio chiusi in una stanza, vengono persino a me!!) non 'venderebbe' assolutamente...
Sopra ogni cosa, trovo sconcertante la recensione di 'theguardian' che campeggia sul retro della copertina "Quello che ogni donna vuole, Ovviamente" (?!? essere sculacciata per poi sentirsi dire 'brava bambina' quando gode a comando?!? sarò strana come donna ma io rabbrividisco!!!!) Spero l'abbia scritto un uomo!
Ma tant'è... onore al merito, come si diceva, e questa è la prova schiacciante che io non scriverò mai un best-seller.
Intanto per la prossima lettura e mi consolo con qualcosa di un po' più... come dire... 'collaudato': IL PIACERE (G. D'Annunzio).

domenica 6 gennaio 2013

Panevin

Il calore ti avvolge le guance e ti contende suadente all'aria fredda che ti agguanta alle spalle appena ti allontani un po'. 
Sorrisi, saluti, qualche grida, ma è difficile capirsi, impossibile conversare nella confusione che ti travolge a ondate come l'odore della frittura e la musica ad alto volume che esplode sul palco e ti rimbomba dentro.
Brucia la vecchia col suo carico di malanni dell'anno appena passato... 
Quelli di tutti, quelli di ciascuno...
Un gruppo di ragazzi si scambiano occhiate e frasi spezzate, ridono e bevono qualcosa di caldo. Neanche lo guardano il fuoco che forse per loro ha da bruciare poco di più che un insuccesso scolastico, qualche delusione d'amore e quella partita che proprio non doveva finire così...
In piedi sulla porta del bar con le mani sprofondate nelle tasche del giaccone, un uomo ha lo sguardo fisso avanti a sé e l'aria di chi non si diverte affatto: le ferie sono finite, lunedì ritorna in fabbrica a fare un lavoro che non gli piace; lui su quel falò vede bruciare quindici giorni passati sdraiato sul divano a guardare lo sport in televisione e se ne dispiace...
Poco più in là, dove la calca non li spintona, una coppia si tiene a braccetto e osserva attenta il fuoco con la pacata rassegnazione di chi ha già visto abbastanza: loro al Panevin ci vengo ogni anno e da quasi cinquant'anni lo fanno insieme! E allora che bruci, per loro, l'amarezza di una vecchiaia forse non così serena come l'avevano immaginata, ma ancora una volta in due.
Una donna dondola lenta una carrozzina. Lei al fuoco affida le sue paure. La paura di non essere all'altezza, la paura di non farcela da sola... la paura ancora una volta di una delusione , di un dolore così forte da non poterci pensare.
Poi c'è quel bambino con una frittella in una mano, la bocca spalancata e il naso coperto di zucchero volto all'insù... Lui non ha proprio niente da bruciare, fissa solo le faville che salgono lente nel buio dell'aria immobile, incantato.