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Semplificazioni in arrivo per le piccole e medie imprese che si affacciano sui mercati internazionali. Parte infatti “export in un click“, il progetto che consentirà agli imprenditori italiani di bussare ad un’unica porta telematica per ricevere tutte le informazioni e la documentazione necessaria alle varie fasi del processo di import-export. L’obiettivo è ridurre procedure amministrative ridondanti ed inutili lungaggini che spesso sono il vero collo di bottiglia per la competizione nei mercati globali oltreché fonte di costi accessori: si passa da 18 sportelli ad un solo portale, che sarà online da subito dopo l’estate.
Il progetto, presentato oggi dal sottosegretario al Commercio con l’estero, Catia Polidori, è il punto di arrivo di un lavoro ad opera del Ministero dello Sviluppo Economico, insieme al Ministero degli Affari Esteri, Abi, Simest, SACE, Agenzia delle Dogane e associazioni d’impresa. La ‘task force’ ha infatti condotto una ricognizione delle difficoltà all’export che incontrano gli imprenditori, soprattutto i più piccoli, legate principalmente alla molteplicità di soggetti e pratiche da adempiere e ha disegnato un percorso di semplificazione creando un’unica piattaforma per il commercio con l’estero, – l’International trade hub.
“E’ una rivoluzione copernicana per la nostra impresa: con un click l”imprenditore avrà accesso a tutte le informazioni e gli strumenti per internazionalizzare la propria azienda, dalle opportunita’ di mercato, agli strumenti finanziari fino agli accordi bilaterali in atto e i contatti mirati”, ha spiegato Catia Polidori. ” Potenzialmente raggiungiamo tutte le piccole imprese che da sole non riescono ad affacciarsi sui mercati internazionali aiutandole ad esportare, a risparmiare tempo e denaro. Un grande gioco di squadra tra le expertise del ministero e la praticita’ degli imprenditori che ha portato alla nascita di uno strumento virtuale ma al tempo stesso estremamente concreto che va incontro all’ esigenza di semplicità e unitarieta’ che da sempre chiedono le aziende: un grande atto di riconoscenza verso chi ogni giorno fa grande il nostro paese nel mondo”.

Fonte:  http://finanza.repubblica.it

Far dei rapporti con la Toscana anche un business? Rodolfo, toscano del Brasile che in Toscana è venuto a rinfrescare l’italiano, ci sta pensando. In Argentina l’università di Cordova, assieme ai toscani all’estero della città, sta invece per sottoscrivere un’intesa con l’Università di Pisa per dar vita ad un incubatore di aziende. E poi ci sono l’idee che iniziano ad arrivare dai ragazzi che sei mesi fa sono stati ospiti in Toscana per altri corsi: c’è chi cerca contatti per la vendita in America di vino e prodotti enogastronimici, chi pensa alle costruzioni. C’è anche un’azienda toscana che produce valvole idrauliche e i primi contatti in Brasile, anziché tra le Camere di Commercio, li ha cercati propri tra i toscani all’estero che vivono lì.

Toscani nel mondo sempre più ambasciatori delle eccellenze della regione. Di questo più che altro si è parlato a Palazzo Cerretani a Firenze, nel corso dell’incontro tra l’assessore Riccardo Nencini e i quarantove ragazzi e ragazze che da quasi un mese sono a studiare italiano a Siena e a Viareggio. Ragazzi con origini lontane in Garfagnana e Lucchesia per lo più, ma anche Pisa, Pistoia, Firenze, Livorno, Viareggio o l’isola di Capraia.

I corsi di lingua per i giovani toscani che vivono all’estero esistono da parecchi anni: un soggiorno per rinfrescare la lingua di nonni o bisnonni. “Il nostro obiettivo – sottolinea Nencini – è quello adesso di andare oltre: stringere legami che non siano solo turistici o affettivi, ma anche economici, e evitare che certi contatti si perdano”. Magari costituendo anche una sorta di Alumni Association, un registro di tutti i partecipanti ai corsi, costantemente aggiornato.

“Il soggiorno che offriamo a questi ragazzi è un investimento più un regalo” chiarisce Nicola Cecchi, vice presidente vicario dei Toscani all’estero”. E’ sicuramente un’opportunità per i ragazzi, “ma può essere importante – aggiunge – anche per il sistema Toscana e la sua economia”, in cerca di promozione, nuove alleanze e nuovi rapporti commerciali con l’estero.

Non a caso a questa edizione dei corsi di lingua si è affiancata una settimana di incontri a Firenze, promossa da Confindustria, in cui sedici dei quarantove ragazzi, tutti di Argentina e Brasile e tra i 18 e i 31 anni, hanno potuto conoscere un po’ meglio la nostra economia, parlando con gli stessi imprenditori e visitando pure alcune aziende: dall’Antico setificio fiorentino a Ferragamo, fino al castello di Nipozzano dei Frescobaldi. Artigianato, alta moda e vino dunque.

“Le aziende che abbiamo visitato e che visiteremo – spiega Francesco Caracciolo, direttore di Confindustria Firenze, presente anche lui stamani all’incontro con i ragazzi -, non sono che alcune delle imprese, che, con i loro prestigiosi prodotti portano il frutto della cultura e della creatività toscana nel mondo. Prodotti che diventano il più efficace promotore del nostro territorio, ricco di testimonianze del passato ma anche di capacità e di impegno per competere nel presente”.

L’esperienza potrebbe dunque avere un seguito. A frequentare il primo master organizzato da Confindustria sono stati otto argentini e altrettanti brasiliani: sei ragazze e dieci ragazzi, gli stessi che hanno frequentato il corso di lingua a Siena. In trentatre hanno invece partecipato al corsi d’italiano organizzati a Viareggio dall’Università di Pisa. In questo caso non c’erano solo sudamericani, ma assieme a cinque argentini e sette brasiliani c’erano anche quindici toscani che vivono in Canada e negli Stati Uniti, due che arrivavano da Scozia e Irlanda, un australiano e tre dal Sudafrica. L’età era la stessa, da diciotto a trenta anni.

 

Fonte: www.giovanisi.it

«Il treno dell’economia milanese si è rimesso in moto. E’ uscito dal tunnel della crisi. Il segnale di ripresa è stato dato dall’interscambio estero e per l’industria si può dire concluso il ciclo recessivo degli ultimi anni». Con un segnale del tutto rincuorante, il presidente della Camera di Commercio di Milano, Carlo Sangalli, ha commentato ieri il rapporto annuale «Milano Produttiva», giunto alla ventunesima edizione. Un bilancio dell’economia della città e provincia per il 2010.
I dati. Export: +12,8%. Import: +13%. Tasso di crescita: +2,3%, terzo in Italia. Il grafico dell’economia riporta la curva pericolosa degli ultimi anni verso valori positivi grazie ai settori dell’elettronica e telecomunicazioni, il software e la moda. Importanti per questo rilancio sono state le aziende degli stranieri, realtà di un’economia robusta con crescita delle società di capitale (+3,7%). Arrivano a 22.371 le ditte individuali di imprenditori extracomunitari nella provincia. Sono aumentate dell’8,1%: primeggiano gli egiziani, seguono i cinesi e i rumeni.
«Milano produttiva – ha specificato Pier Andrea Chevallard, segretario generale della Camera di Commercio – è un punto di riferimento da cui partire per azioni e interventi mirati alle imprese da parte delle istituzioni». Se la ricchezza e il reddito delle famiglie risalgono rispettivamente del +2,7% e 0,6%, purtroppo continua ad essere in crescita la disoccupazione – dal 5,7% al 6,2% – e soprattutto quella giovanile: 14% per i diplomati e 12,8% per i laureati. Sebbene ancora bassa (+0,6%), la positività dell’indice Icm, che misura le aspettative delle aziende, segnala l’attesa di un miglioramento della congiuntura.
Per un’impresa milanese su due i progetti più importanti sono il sostegno al lavoro, all’occupazione e gli incentivi all’innovazione, mentre una su sei punta sul miglioramento delle infrastrutture. E’ quanto emerge da una ricerca dell’Ispo di Renato Mannheimer su un campione di 500 aziende.
Di Elena Gaiardoni

Gli attacchi speculativi sono riconducibili al mondo delle cosiddette borse alternative. Una sorta di finanza ombra ove si possono negoziare grandi quantitativi di azioni senza che nessuno riesca a vedere i prezzi intermedi della contrattazione.

Gli attacchi che stanno investendo mercati azionari e obbligazionari italiani hanno un mandante: la finanza ombra che ha letteralmente stravolto il sistema economico mondiale e che rischia di produrre danni incalcolabili. Ogni giorno le cronache registrano il ruolo della speculazione nell’andamento altalenante sia dell’indice di Piazza Affari sia dei prezzi dei titoli obbligazionari dai quali dipende il famoso spread, cioè la differenza dell’interesse pagato sui titoli di Stato decennali italiani rispetto a quelli della Germania. La volatilità, cioè l’incredibile altalena che porta le borse a crescere di due punti percentuali per perderne il giorno dopo due o tre, trae origine diretta dalle piattaforme di contrattazione lanciate dalle grandi banche e operanti nel segmento Over the counter, cioè completamente non regolamentato.

Per capire di che cosa stiamo parlando basta qualche dato: durante il lunedì nero dell’11 luglio ad esempio, sul Chi-X (mercato parallelo gestito dalla banca d’affari giapponese Nomura) per il titolo Intesa SanPaolo sono passati di mano oltre 80 milioni di pezzi, rispetto ai 300 circa di piazza Affari (quasi il 30% di quanto scambiato dal titolo in Borsa Italiana); aggregando anche altre piattaforme alternative (in gergo chiamate MTF) come Bats e Turquoise, il valore si avvicina al 50%. Per Unicredit la quota scambiata sui mercati alternativi è risultata nella giornata di lunedì prossima al 25% di quanto fatto in Borsa. In gergo queste piattaforme sono chiamate “dark pools” (pozze scure): si tratta di borse alternative dove si possono negoziare grandi quantitativi di azioni senza che nessuno riesca a vedere i prezzi intermedi della contrattazione. Si vede solo il prezzo finale, quando i giochi sono fatti. E qui la speculazione, soprattutto quella ribassista, impazza con effetti incontrollabili.

L’associazione che raggruppa gli operatori specializzati in questo settore (Isda, International Swaps and Derivatives Association) si sta battendo contro qualsiasi nuova normativa che possa frenare il boom di attività su queste piattaforme che oltre che opache sono il terreno di caccia dell’high frequency trading, l’uccelliera dove il cacciatore spara raffiche di palline utilizzando sistemi informatizzati basati su astrusi algoritmi con l’obiettivo di comprare e vendere decine di milioni di pezzi di un titolo per la durata di un battito di ciglia per realizzare utili giganteschi.

di Andrea Di Stefano

Fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Illusioni pericolose

di Giuliano Amato

Fui io a proporre quello che è oggi l’articolo 50 del Trattato dell’Unione Europea, l’articolo che consente agli Stati membri di recedere dalla stessa Unione. Ma quando lo pensai, e quando fu approvato, a nessuno venne in mente che potesse servire in occasione del fallimento finanziario di uno dei nostri Stati. Nessuno dice ora di volerlo.

Ma quando, tre giorni fa, la commissaria europea per la Pesca, la greca Maria Damanaki, ha detto che senza un accordo con i suoi creditori la presenza della Grecia nel mercato comune era in serio pericolo, abbiamo tutti capito che l’ipotesi del recesso è comunque entrata fra quelle a cui si pensa (tanto più che l’uscita dall’euro senza l’uscita dall’Unione non è legalmente possibile).
È un’ipotesi tutt’altro che facile da praticare, soprattutto non lo è con l’immediatezza che in genere caratterizza le risposte all’emergenza finanziaria. Basta leggere la procedura per rendersene conto. È una procedura di negoziato, intesa a sistemare le complesse partite di dare e di avere che si sono venute formando negli anni di comune permanenza nell’Unione, e per essa l’art.50 prevede un termine di ben due anni.

La realtà è che l’articolo fu scritto e voluto più come deterrente, che come norma destinata ad essere effettivamente applicata. Per anni la strategia ostruzionistica e di logoramento degli euroscettici di stampo britannico si era avvalsa dell’argomento «ci dite che l’appartenenza all’Unione è irreversibile, siamo dunque costretti a stare insieme e allora non potete imporci questo, non potete negarci quest’altro» e così via tirando permanentemente la corda. Bene, dice ora l’art.50, qui nessuno è tenuto a rimanere per forza e se ciò che per tutti gli altri va bene non va bene invece per qualcuno, la porta è lì e quel qualcuno può accomodarsi. Il vecchio ricatto, insomma, non è più possibile.

Eppure oggi di un recesso della Grecia si è cominciato a parlare, sia pure per escluderlo. E in un contesto spietato come quello dei mercati finanziari qualunque ipotesi venga messa sul tappeto diventa sempre uno scenario possibile, sul quale vengono misurate convenienze e del quale, se convenienze possono esserci, qualcuno cercherà di favorire l’avvento. Come siamo arrivati a questo punto nei confronti di un Paese che non è mai stato euroscettico e neppure “euro turbolento”?
Certo, si è scoperto due anni fa che i suoi conti erano truccati e che aveva abbondantemente violato il patto di stabilità, senza farlo trapelare. Ma da allora il Governo Papandreu si è impegnato in un robusto programma di restrizioni e di riforme per rimettere la Grecia in riga. Perché la Grecia è ora in ginocchio e sui mercati pochi credono che riesca a ripagare il suo debito e ci si aspetta invece il “default”? È l’asticella che le è stato chiesto di saltare che è troppo alta, oppure sono i greci che si rifiutano di saltarla e alimentano attorno a sé una crescente sfiducia? E a chi servirebbe l’eventuale e pur denegato recesso, agli stessi greci per sottrarsi a una condizione divenuta per loro insostenibile, o agli altri paesi dell’Eurozona, per amputare la parte infetta ed evitare il contagio?

Chi ha seguito l’evoluzione della vicenda greca sa perfettamente che le responsabilità del temuto disastro vanno ripartite equamente tra i soccorritori della Grecia e la Grecia stessa alle prese con le condizioni che essi le hanno imposto. Dei soccorritori in casi di emergenza si suole dire che “sono corsi” in aiuto di chi aveva bisogno di loro. Ecco, dei soccorritori della Grecia tutto si può dire tranne questo. E il tempo che l’Unione Europea ha fatto passare prima che soprattutto la Germania vincesse le sue interne ritrosie ha consentito ai tassi di interesse sul debito greco di raggiungere vette talmente elevate da rendere per ciò solo problematico un rientro inizialmente molto più praticabile.

Dall’altra parte gli impegni che George Papandreu ha dovuto prendere per il suo Paese erano essi stessi un’asticella troppo alta (in un solo anno avrebbe dovuto ridurre l’indebitamento di ben 7.5 punti) ed hanno per di più incontrato ogni sorta di ostacolo interno, dalla forte ostilità di diversi segmenti sociali, all’irresponsabilità dell’opposizione che l’ha alimentata, alla vera e propria renitenza di chi quegli impegni li doveva eseguire e in molti casi si è ben guardato dal farlo. La conclusione è che la Grecia ha oggi un debito troppo alto da pagare e una propensione troppo bassa a mettersi nella condizione di farlo.

I mercati sono ora in attesa e fanno capire non solo che il default della Grecia sarebbe destabilizzante per tutta l’Eurozona, ma anche che un eventuale allungamento delle scadenze per i titoli greci, specie per quelli in mani private, sarebbe ritenuto equivalente a un default. Ciò significa che a quel punto non sarebbe solo la Grecia a vedere precipitare il suo merito di credito.
In questo clima non è affatto impensabile che qualcuno si chieda: ma allora non sarebbe meno destabilizzante se la Grecia uscisse dall’Unione? Certo non finirebbe di soffrire, anzi con il ritorno alla dracma pagherebbe tutte le conseguenze di una prevedibile, forte inflazione. Ma almeno non sarebbe soggetta a condizioni tanto difficili da rispettare e i suoi creditori, volenti o nolenti, dovrebbero accontentarsi di pagamenti con una valuta sempre più debole, che proprio attraverso la svalutazione (come tante volte è accaduto nella storia) alleggerirebbe il peso del debito. Per parte sua l’Unione Europea eviterebbe di impelagarsi in ulteriori impieghi di risorse e in ulteriori condizioni che, in caso poi di fallimento, la renderebbero sempre più corresponsabile dello stesso fallimento, con effetti ancora più probabili di contagio e di destabilizzazione. Fermarsi ora e amputare la parte malata, e cioè la Grecia, potrebbe invece evitarlo.

Mi si dirà che è inutile anche parlarne perché nessuno ci pensa davvero. Ma non guasta notare che una cosa utile è far presente ai greci – come ha fatto la Damanaki- che il rischio c’è, una cosa ben diversa sarebbe adoprarsi davvero per il loro recesso. Prescindiamo dalla scarsa idoneità della procedura a risolvere un problema di emergenza (i giuristi a questi fini inventano sempre qualcosa). E prescindiamo anche dal guaio in cui si troverebbe la Grecia, condiviso pro quota dalle banche, non solo greche, che hanno in portafoglio i suoi titoli. Ma davvero si eviterebbe il contagio mettendola fuori dall’Unione, dimostrando con ciò che non è più la coesione il principio su cui questa si regge e che i mercati, prendendo di mira qualcuno, possono ottenere un risultato del genere? L’Europa – temo – diventerebbe un carciofo.

Ciò che meno destabilizza è allora continuare a sostenere la Grecia, imponendole condizioni che essa possa adempiere e costringendola davvero ad adempiere. E il recesso resti lì, allo scopo per cui lo si era pensato.

Fonte: www.ilsole24ore.com

L’Italia? Non è pronta per l’economia del futuro. A rivelarlo una indagine di CFMT e Logotel, secondo cui il 70 % delle aziende più avanzate ha ancora un’organizzazione fordista. – L’economia collaborativa, Weconomy, è una rivoluzione che coinvolge tutti, aziende e lavoratori, e cambia il nostro modo di lavorare, ma secondo un’indagine del CFMT e Logotel, non siamo pronti
– Per il 92 % dei manager l’economia collaborativa influenza il loro business, ma il 70 % delle aziende ha ancora la classica organizzazione fordista top-down
– Le aziende più avanzate aprono la rete ai dipendenti (Facebook 30 %) e puntano su trasparenza (58 %), collaborazione (52 %) merito (41 %)
– Nella weconomy lavorare è sostituito da collaborare, comandare da condividere, autorità da autorevolezza, management da engagement.

Milano 24 maggio 2011. L’impresa fordista, gerarchizzata, che programma, standardizza e ingabbia lavoratori, fornitori e clienti in un sistema rigido, autoritario e centripeto non funziona più. L’azienda della Weconomy fa tutto il contrario: democratizza i processi gestionali, co-progetta e stimola tutti gli attori a coprodurre idee, relazioni, valore.

Chi pensa che sia solo una moda, sbaglia di grosso. Ne sono esempio proprio aziende della vecchia economia come Boeing e BMW visto che il 70-80 % dei loro più recenti prodotti (Boeing 787 Dreamliner e BMW X3 o Serie 7) è stata progettata, prodotta e assemblata da una rete globale di fornitori. La stessa Google intraprende ormai da tempo percorsi innovazione con scambio alla pari dei propri dipendenti con altri “big” come Procter e Gamble. E Best Buy, retailer leader in America nell’elettronica di consumo, affida il proprio servizio di assistenza clienti a un Twitter decentralizzato costituito dai propri dipendenti.

A dimostrare che l’economia sta cambiando in senso partecipativo oltre mille (1.057) dirigenti intervistati dal Centro di Formazione Management del Terziario affermano che le modalità di fare business più aperte, più partecipative, più trasparenti, fatte di condivisione, reputazione e collaborazione stanno già influenzando il loro business (del tutto 63,8 % o in parte 28,5 %). E lo affermano consci, peraltro, di non essere pronti alla sfida, perché nel 70 % dei casi hanno un’organizzazione aziendale top-down, per il futuro puntano su co-peration (52 %) e co-working (42 %), trasparenza (58 %), valorizzazione del merito e dello sviluppo professionale (41 %), raccolta di nuove idee anche dal basso e da non specialisti (48 %), delega (47 %). Per sviluppare quest’anima “we” puntano all’interno su formazione più coinvolgente e condivisa (52 %), creatività collettiva (26 %), co-progettazione (23 %) e community per i dipendenti (14 %). All’esterno investono su cooperazione in network con altre imprese (50 %), esplorazione di mercati esteri (20 %) e social strategy per i clienti (18 %). Indice della loro “anomalia” rispetto al sistema consolidato è l’utilizzo da parte dei loro lavoratori dei tanto discussi social network o simili – Linkedin (37 %), Facebook (30 %), YouTube (26 %) – e la volontà dichiarata di puntarci ancor più in futuro.

Insomma, la weconomy è un misto di vecchia e nuova economia dove le tecnologie digitali (la rete, il 2.0 ecc.) sono solo un nuovo e più efficace strumento per liberare e mettere a sistema le energie dei tanti attori coinvolti.
Un modo di lavorare e fare affari proprio al momento di uno sparuto manipolo di imprenditori, dirigenti e aziende fuori da branco, come quei 200 manager che oggi a Milano hanno dato vita al primo Weconomy day, organizzato da Centro Formazione del terziario e Logotel. Tra questi alcuni protagonisti delle più diverse e innovative realtà aziendali italiane – Telecom Italia, Google, Intesa Sanpaolo, Gruppo Loccioni, Politecnico di Milano – insieme a studiosi ed esperti quali Thomas Bialas, Enzo Rullani, Franco Bolelli. Un gruppetto di “irresponsabili” decisi a cambiare le cose.

“Un movimento – dice Giuliano Favini, ad di Logotel – che ha già i suoi adepti con i quali lavoriamo da anni per sviluppare insieme un terreno capace di portare l’azienda naturalmente a democratizzare i processi gestionali, co-progettare e stimolare tutti gli attori a coprodurre idee, relazioni … valore. Oggi non c’è più spazio per gli Archimede Pitagorici isolati, per i Paperon de’ Paperoni autoritari e arroccati, ma l’invenzione, pardon l’innovazione, la devono sviluppare, gestire e mettere a sistema tutti, in tutti gli aspetti della creazione del valore. E fiducia, merito, trasparenza e collaborazione sono le linee guida”.

“Una rivoluzione che – dice Michelangelo Patron, direttore generale di CFMT – ha nel management, nella sua indubbia guida e propulsione, il vero motore culturale e fattuale. E nella formazione lo strumento per aiutare tutti a entrare a piè pari nella weconomy, condividendo i suoi valori (fiducia, condivisione ecc.) e facendo propri competenze e comportamenti adeguati”.

“La weconomy – dice Giuseppe Truglia, presidente di CFMT – ha bisogno di aziende, manager e lavoratori che ci credano e ci investano. Non può essere imposta dall’altro, ma deve essere aiutata dall’alto, anche e soprattutto dal basso e dall’intorno, a diventare quotidianità. In questo senso c’è tanto bisogno che cambi tutto il sistema: la politica industriale, le infrastrutture fisiche e non, la P.A. le imprese, le organizzazioni e gli uomini che rappresentano e guidano questo mondo. C’è bisogno di superare il vecchio andando con fiducia verso un nuovo dove soprattutto le relazioni industriali siano stimolo e facilitatore di questa necessità di lavorare insieme, con trasparenza, fiducia ecc. Questo è il futuro e, se lo sapremo cogliere, anche le tante pmi che caratterizzano la nostra economia avranno spazio e ruolo per essere a pieno titolo il motore della nostra economia. Come in passato, ma passando dall’io al noi. Per essere ancora capaci di creare valore, ricchezza, produttività avendo nella collaborazione di tanti attori, in contrapposizione all’idea del singolo (individuo o azienda) un vantaggio competitivo dinamico, flessibile e più difficile da replicare e copiare. Insomma, dal piccolo è bello all’insieme è meglio”.

Come cambia l’azienda WE

– IN net-working P2P “tutti a tutti”, OUT working “uno a uno” o “uno a tutti”
– IN crowdsourcing (o, appunto, “elitesourcing”), OUT outsourcing
– IN modello border-up (l’evoluzione del “bottom-up” che passa attraverso una governance sostenibile), OUT top-down
– IN co-progettazione aperta, OUT progettazione chiusa
– IN multidisciplinarietà e mash-up delle competenze, OUT iper-specializzazione per “silos aziendali”

Come cambia il lavoratore WE/ WECONOMY WORKSTYLE

– IN condividere, OUT comandare (= dividere)
– IN fluidità nel controllo (flow control), OUT rigidità nel controllo
– IN co-working, OUT working
– IN autorevolezza, OUT autorità
– IN conversazione (= reputazione), OUT comunicazione
– IN coopetizione, OUT competizione
– IN engagement, OUT management

Fonte: www.adnkronos.com
Foto: www.weconomy.it/

di BILL EMMOTT

Non appena pensi di aver decifrato il funzionamento dell’economia cinese, ecco che di colpo cambia radicalmente. Questo è ciò che accade quando in un’economia il Pil cresce del 10% annuo e quindi raddoppia di dimensione ogni sette anni, con enormi cambiamenti sociali. Essa deve continuare a evolversi, adattandosi, trasformandosi.

Ora la novità è che la Cina sta smettendo di essere il maggior centro mondiale di produzione a basso costo. E così facendo assomiglierà sempre di più al Giappone, anche se non ancora a quello degli Anni 70. L’annuncio del 12 maggio di Coach, il grande marchio americano di pelle e accessori, che prevede di spostare la metà delle sue produzioni attualmente in Cina a causa del crescente costo del lavoro è l’ultimo segnale di questo cambiamento.

I livelli salariali in Cina sono in aumento di circa il 20% annuo, superiore alla crescita della produttività, grazie a nuove leggi sul lavoro che hanno rafforzato i diritti dei lavoratori, così come la crescente competitività per la manodopera qualificata e semi-specializzata. Un recente studio realizzato dal Boston Consulting Group ha esplorato le implicazioni di questa inflazione salariale per Cina, Stati Uniti ed Europa.

Gli analisti del Bcg hanno concluso che, in concomitanza con il graduale deprezzamento del dollaro Usa nei confronti della valuta cinese, lo yuan, i salari cinesi nel corso dei prossimi cinque anni passeranno dall’attuale 9% al 17% dei salari degli Stati Uniti entro il 2015. Nel 2000, i salari cinesi erano solo il 3% di quelli Usa. Questo appare ancora come un grande divario, e lo è. Ma il lavoro non è l’unico costo che conta per le multinazionali come Coach. Anche i costi del trasporto e il tempo hanno importanza e l’aumento dei prezzi dell’energia significa che anche i costi di spedizione e trasporto aereo delle merci stanno salendo. Inoltre, la Cina non è l’unico Paese che cambia, o che migliora la produttività dei suoi lavoratori: anche la produttività Usa sta crescendo rapidamente. Per questo motivo, il rapporto del Bcg elenca altre multinazionali che hanno già spostato le loro produzioni dalla Cina, alcuni verso Paesi asiatici a più basso costo e gli altri di nuovo in America: Caterpillar, Ford, Flextronics e anche un produttore di giocattoli, Wham-O. Il settore manifatturiero americano, secondo questa analisi, è orientato a una forte ripresa nei prossimi cinque-dieci anni.

Questo, tuttavia, secondo l’analisi del Bcg, non accade in gran parte dell’Europa, e certamente non in Italia. La nostra produttività cresce molto meno rispetto agli Stati Uniti, grazie a mercati del lavoro poco flessibili e alla scarsità della libera concorrenza; il divario tra i salari del settore manufatturiero in Italia e quelli in America è il più ampio rispetto a Francia, Germania e Regno Unito.

Cosa significa questo per la Cina? Non vuol dire che la Cina presto non sarà più un gigante manufatturiero. In effetti, può ben essere ancora il più grande produttore al mondo. Ma produrrà molto di più per il suo mercato interno in forte espansione e meno per l’esportazione; e, in secondo luogo, i suoi stessi esportatori dovranno orientarsi verso la fascia alta, per creare prodotti di maggior valore, prodotti di alta tecnologia per cui i costi del lavoro sono meno significativi.

Ecco dove è utile l’analogia con il Giappone degli Anni 70. Nel corso degli Anni 50 e 60 l’economia giapponese è cresciuta a tassi annui a due cifre come quella cinese negli ultimi anni, grazie ai bassi costi del lavoro, all’industria pesante, agli enormi investimenti nell’urbanizzazione, a una valuta a buon mercato fissata ad un valore basso rispetto al dollaro, alla mancanza di leggi contro l’inquinamento. Poi tutto è cambiato: il Giappone è stato costretto a rivalutare la sua moneta, i tassi dei salari hanno cominciato ad aumentare, drammaticamente, lo shock del prezzo del petrolio del 1973 ha fatto impennare l’inflazione e soprattutto i costi dell’energia; e le proteste popolari hanno costretto il governo a introdurre severe leggi ambientali e a farle rispettare rigorosamente.

Per un po’ sembrò un disastro, la fine del miracolo giapponese. Ma in realtà era solo l’inizio di una nuova fase di quel miracolo. La combinazione dell’iniziativa nel settore privato con alcuni interventi statali ha trasformato il Giappone: il Paese più sporco e con il maggior consumo di energia sviluppata degli Anni 70 negli 80 era diventato il più pulito e il più efficiente. E l’industria giapponese ha cessato di competere sulla base di acciaio, prodotti chimici, giocattoli, auto di bassa qualità e radio: si è spostata verso l’alta gamma, riuscendo a dominare i nuovi settori dell’elettronica di consumo, dei semiconduttori e delle vetture compatte, soprattutto durante gli Anni 80.

Un risultato simile può essere immaginato nel prossimo decennio per la Cina. Non sarà più una base di produzione a buon mercato per le esportazioni delle multinazionali. La sua moneta gradualmente si sta rivalutando e probabilmente tra poco il processo verrà accelerato, per mantenere il controllo dell’inflazione. Per ragioni politiche le autorità cinesi sentono la necessità di consentire ai salari di crescere, per fermare le proteste dei lavoratori contro il governo e per dissuaderli dal voler imitare le rivoluzioni arabe. Allo stesso modo, la pressione per far rispettare le leggi ambientali del Paese in modo più rigoroso cresce di mese in mese e di anno in anno. In un Paese autoritario, nominalmente comunista, come la Cina, c’è il pericolo che questa trasformazione non avvenga senza scosse, come nel democratico Giappone. Vi è il rischio di instabilità politica. Tuttavia, il Partito Comunista ha imparato la lezione dal Giappone e comprende la necessità di una simile trasformazione per il Paese. Sta lavorando per organizzare il cambiamento senza permettere che questo diventi una sfida al suo potere. Finora è sempre riuscito a gestire tali cambiamenti. Finora.

Traduzione di Carla Reschia

Fonte: www.lastampa.it

Una nuova bolla potrebbe sconvolgere i mercati, i ninja analizzano il mercato mondiale per dare una risposta alla speculazione.

Ultimamente si intensificano articoli e posts che ci portano a riflettere sull’ondata e l’entusiasmo innovativo che sta pervadendo i mercati, ultimo in ordine di tempo è un articolo del sole 24 ore in cui ci si chiede se il livello del flusso di investimenti dei Venture Capitalists in startup non sia l’inizio di una Bolla 2.0!
In realtà il livello di investimenti ha appena toccato un record, nei primi quattro mesi del 2011, secondo solamente al livello toccato nel 2000 alla vigilia della bolla dotcom.

Cinque miliardi e mezzo di investimenti in startup web-based da parte dei Venture Capitalist non sono una cifra trascurabile e movimentazioni di quel genere sono in grado di generare scosse critiche per il mercato.
Ciò che l’articolo però trascura, sono tutta una serie di altre forze che non si possono considerare sconnesse dalla questione bolla.
Valutare l’inizio di una bolla, semplicemente confrontando, peraltro in termini assoluti e non relativi, il livello di investimenti provenienti da VC in startup non è un metodo corretto, quantomeno non può considerarsi completo.

Gli attori di una bolla

Ci sono almeno altre 3 tendenze di mercato di cui in Ninja Marketing discutiamo già da tempo e che non si possono trascurare in analisi di questo tipo: il crowdfunding, gli investimenti bancari in startup come Facebook o Twitter, e l’eventuale comportamento dei portafogli di investimento.

Innanzitutto il crowdfunding, che sembra sia una tendenza verso la quale si vuole canalizzare l’investimento in startup.

Anche la regolamentazione della SEC statunitense stà cercando di allentare i limiti normativi per aprire a questa tecnica di ricerca di capitali, e la newsletter di Marco Magnocavallo ha analizzato il crowdfunding come tendenza in una delle ultime uscite.
Il fondamentale problema del crowdfunding per startup web-based, che si riscontra guardando la tendenza in ottica di bolla, è che l’investimento possa essere in qualche modo influenzato più da una tendenza ad essere Early Adopters di un determinato servizio che da una ricognizione vera e propria delle capacità redditizie di una startup.

Che le banche stiano decidendo di investire in aziende come Facebook o Twitter, Goldman Sachs e Jp Morgan non è più un mistero. In particolare è agevole ricordare che quando Goldman Sachs ha messo sul piatto l’operazione di investimento in Facebook ci sono state non non poche controversie con le Authority di settore statunitensi, e le contrattazioni private del mercato “grigio” hanno fatto registrare un aumento di valore delle azioni di circa il 60% del prezzo di vendita, ancor prima che fossero immesse sul mercato.

E’ necessario inoltre prevedere i comportamenti dei Portafogli di Investimento che investono fondi provenienti dal risparmio privato e potrebbero considerare l’opportunità di riservare all’ambito startup anche una quota dei loro investimenti.
Considerando questi tre fattori aggiuntivi si possono intuire in modo più completo quali sarebbero i risultati di una bolla, oltre a capire come e quante possibilità ci sono che questa possa verificarsi.

Gli States aprono al Crowdfunding

A testimonianza che forse una bolla 2.0 è lungi dal verificarsi c’è invece un provvedimento, attualmente in corso di valutazione presso la SEC statunitense, che stà cercando di aprire il più possibile al crowdfunding, agendo principalmente su di un fronte: si stà cercando di innalzare il limite di 500 azionisti per l’obbligo di diffusione di dati finanziari sensibili riguardo le aziende.
Questo significa che le startup potrebbero divenire canali di investimento, senza dover adempiere agli obblighi normali cui adempiono le imprese che vogliono reperire fondi da privati.

Aumentando quel limite per le startup potrebbe essere più conveniente ricevere fondi da più azionisti con investimenti più bassi, aspetto tutt’altro che trascurabile se si considera che Facebook stà cercando in tutti i modi di tenersi sotto il limite proprio per evitare di diffondere dati finanziari giudicati sensibili.

Questo comporterebbe dunque, una riduzione delle informazioni circolanti riguardo una determinata azienda, lasciando ai manager della stessa potere discrezionale riguardo la scelta delle informazioni da divulgare o meno. Immaginate ora cosa potrebbe accadere se si applicasse questo tipo di sistema al Crowdfunding. La scarsità di informazioni potrebbe dar vita ad un meccanismo perverso in cui i fondi si potrebbero reperire occultando magari informazioni preziose. Non dimentichiamo che lo scandalo Parmalat iniziò esattamente in questo modo.

Aumentando quel limite per le startup potrebbe essere più conveniente ricevere fondi da più azionisti con investimenti più bassi, aspetto tutt’altro che trascurabile se si considera che Facebook stà cercando in tutti i modi di tenersi sotto il limite proprio per evitare di diffondere dati finanziari giudicati sensibili.

Questo comporterebbe dunque, una riduzione delle informazioni circolanti riguardo una determinata azienda, lasciando ai manager della stessa potere discrezionale riguardo la scelta delle informazioni da divulgare o meno. Immaginate ora cosa potrebbe accadere se si applicasse questo tipo di sistema al Crowdfunding. La scarsità di informazioni potrebbe dar vita ad un meccanismo perverso in cui i fondi si potrebbero reperire occultando magari informazioni preziose. Non dimentichiamo che lo scandalo Parmalat iniziò esattamente in questo modo.

Aumentando quel limite per le startup potrebbe essere più conveniente ricevere fondi da più azionisti con investimenti più bassi, aspetto tutt’altro che trascurabile se si considera che Facebook stà cercando in tutti i modi di tenersi sotto il limite proprio per evitare di diffondere dati finanziari giudicati sensibili.

Questo comporterebbe dunque, una riduzione delle informazioni circolanti riguardo una determinata azienda, lasciando ai manager della stessa potere discrezionale riguardo la scelta delle informazioni da divulgare o meno. Immaginate ora cosa potrebbe accadere se si applicasse questo tipo di sistema al Crowdfunding. La scarsità di informazioni potrebbe dar vita ad un meccanismo perverso in cui i fondi si potrebbero reperire occultando magari informazioni preziose. Non dimentichiamo che lo scandalo Parmalat iniziò esattamente in questo modo.

Le bolle sono sistemiche!

La bolla dipende dunque da una serie di aspettative che si vengono a creare rispetto all’andamento futuro previsto per una determinata azienda e ovviamente dalle informazioni che circolano sull’andamento corrente della stessa che possono indurre un investitore ad investire o disinvestire in questa.Nel 2000 alla vigilia dello scoppio della famosa bolla dotcom si era venuta a creare una previsione di valore troppo più alta di quello che si sarebbe potuto poi verificare nella realtà, e il valore che un investitore avrebbe ragionevolmente potuto aspettarsi dall’investimento, diveniva talmente alto quanto surreale semplicemente sulla base delle supposizioni su quello che sarebbe stato il ruolo del web nel futuro.

Al momento del formarsi della bolla dotcom, nel 2000, si consideravano sufficienti visite e permanenza dei visitatori sul portale come condizioni per generare revenues, il tempo ha dimostrato che quei parametri, in se, non sono un tratto distintivo di una startup web-based di successo, o almeno non lo sono se non li si inserisce in un contesto in cui si è in grado di far generare revenues e profitti derivanti dall’utilizzo dei servizi del portale.

La speculazione che gonfia i prezzi e crea appunto le “bolle” è di per sé qualcosa di effimero, aleatorio, che però sposta grandi quantità di denaro su titoli che non sono in grado di garantire rendimenti adeguati poiché non generano valore per il mercato, ma allo stesso tempo, le bolle sono in capaci di sottrarre risorse a quelle attività che invece si propongono di creare valore.

La ricerca sempre più attenta, quasi ossessiva di un alto tasso di crescita, nella misura in cui questo sia più alto non di un periodo precedente ma degli altri rendimenti di mercato contemporanei, ha spesso fatto credere che la ricchezza si potesse creare attraverso meccanismi di alta finanza, e sappiamo bene quanto questo tipo di teoria sia sbagliata e potenzialmente dannosa. E’ stato dannoso alla fine del 2008 quando è esplosa la bolla dei derivati, può essere altrettanto dannoso oggi.

La value proposition: medicina Ninja

In Ninja Marketing abbiamo da sempre considerato la creazione di valore quale condicio sine qua non per essere presenti ed operare in un mercato, e credo che la risposta sulla possibilità che una bolla possa riformarsi dipende proprio da questo punto.
Qualche settimana fa ho scritto un post, un piccolo HOWTO per startuppers che spiegava come testare una startup al fine di valutarne la cosiddetta “value proposition” ovvero la capacità della stessa di inserirsi in un mercato e di generare valore per il mercato intero.

Partendo proprio da quelle considerazioni ritengo che l’unico vettore di una crescita reale, anche finanziaria, sia la ricerca dell’innovazione, e che questa possa risiedere in startup che siano realmente in grado di generare prodotti e servizi innovativi attraverso business models economicamente sostenibili.
Detto questo, i Venture Capitalists hanno affilato le armi e sono perfettamente in grado di distinguere una startup innovativa, l’ombra di una nuova dotbolla è forse proprio lo sperone in grado di frenare eccessivi entusiasmi a riguardo.

Gekko Docet

Concludo con la riflessione finale del film “Wall Street, Money never sleeps”, con l’augurio che l’ondata di innovazione sia considerata una risorsa da mettere a disposizione delle popolazioni e non un sistema per far innalzare i picchi dei grafici di Bloomerg:
“Qual è la definizione di follia? E’ il ripetere continuamente la stessa azione e aspettarsi un risultato diverso. Se è così quasi tutti noi siamo folli, ma non nello stesso momento. E confidiamo proprio in questo, ma questo modo di vivere può durare se sempre più individui impazziscono nello stesso momento? Diventa, come ha detto Gordon (Gekko, ndr) sistemico, come il cancro. E poi che succede? Come ho detto, la madre di tutte le bolle è stata l’Esplosione Cambriana, è successo per caso più di 500 milioni di anni fà. Gli scienziati non si spiegano come accadde, sanno solo che fu un attimo, e da quel momemto all’improvviso apparvero milioni di nuove specie. Quindi, in questo senso, le bolle sono evolutive, eliminano il superfluo, sfoltiscono il gregge, ma loro non muoiono, tornano sotto forme diverse! E quando esplodono portano sempre a un cambiamento, dando vita ad una nuova era.”

Fonte: www.ninjamarketing.it

«Per molti anni prima del 2009 i titoli di Stato della Grecia hanno mantenuto rendimenti degni di un Paese valutato “Tripla A”, sebbene noi avessimo già iniziato a declassare i rating dal 2005. Per contro ora i rendimenti stanno salendo da settimane, iniziando ben prima che noi abbassassimo il giudizio “B”. Questo significa che il rating, da solo, non influenza i mercati». Deven Sharma, presidente dell’agenzia di valutazione Standard & Poor’s, usa un esempio per smontare tutte le accuse di complotto avanzate nei confronti dei rating: a chi dice che sono le loro pagelle a distruggere gli Stati, lui oppone l’andamento dei mercati obbligazionari che sosterrebbe il contrario.

Cinquantacinque anni, indiano di nascita ma americano di adozione, Sharma è diventato presidente della società di rating nel 2007, poco prima dello scoppio della grande crisi finanziaria. Sono passati quattro anni e le accuse, contro Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, arrivano ancora violente. Il procuratore della California, Jerry Brown, sostiene che le tre sorelle «distruggono gli Stati». Pochi giorni fa è stato il ministro greco a scagliarsi contro S&P. Ma per Sharma queste accuse, in fondo, rappresentano quasi un vanto: dal suo punto di vista scontentare così tanti potenti dimostra l’indipendenza delle agenzie di rating e smentisce chi parla di conflitti d’interessi. Lo abbiamo incontrato nella sede milanese di Standard & Poor’s.

In realtà le vostre decisioni, almeno negli ultimi tempi, influenzano eccome i mercati: ogni volta che declassate un Paese europeo volano i rendimenti dei suoi bond e crolla l’euro. Non sarebbe auspicabile un po’ più di cautela da parte vostra?
L’andamento dei rendimenti e delle valute lo decide il mercato in base a molti parametri. Il rating è solo uno di questi, ma altrettanto importanti sono la fiducia degli investitori e il rapporto tra domanda e offerta. Noi, come agenzie di rating, abbiamo il solo scopo di servire gli investitori: segnaliamo i rischi che, in base alle nostre analisi, rileviamo. Niente di più. E le assicuro che i giudizi sono molto azzeccati: in una recente analisi il Fondo monetario ha sentenziato che i rating sugli Stati sono sempre riusciti a prevedere con accuratezza i casi di default.

Si potrebbe malignare: siete voi con i vostri declassamenti a causare una spirale di vendite e, in fin dei conti, ad aumentare il rischio di default di uno Stato! Ovvio che le vostre previsioni siano azzeccate…
Quando c’è un problema economico, in uno Stato come in una società o in una banca, la cosa più importante è individuarlo. Questo è il nostro compito: forniamo un’opinione indipendente. Il problema non sta nei nostri rating, ma nel fatto che in Grecia il rischio economico sia aumentato: per questo gli spread salgono.

Dunque tutte le polemiche sono pure speculazioni politiche? Pure boutade elettorali?
I tempi sono difficili per i politici, perché sono chiamati a prendere decisioni complesse. Ma alla fine sono gli investitori a decidere che prezzo assegnare ai bond: è inutile prendersela con le agenzie di rating.

Il problema è che anche i fondi, le assicurazioni e i fondi pensione sono spesso vincolati nelle scelte di investimento al rating di un titolo: se voi declassate un Paese, tanti fondi sono costretti a vendere i suoi bond.
In parte è vero. Ed è per questo che io credo che debbano essere allargati e resi più flessibili i mandati statutari dei grandi fondi: vincolarli in schemi troppo rigidi che li obblighino a vendere o comprare solo titoli con determinati rating è sbagliato. Qualcosa sta già cambiando, specialmente negli Usa.

Voi siete molto duri con i Paesi europei, ma decisamente più teneri con gli Stati Uniti. Avete solo indicato prospettive «negative» nel rating Usa, ma continuate a mantenere un rating di “Tripla A”: non è eccessivo se si guarda al super-debito e al super-deficit?
Gli Stati Uniti hanno un’economia flessibile e reattiva. Per di più sono avvantaggiati dal fatto che il dollaro è valuta di riserva mondiale. Il rating massimo, di “Tripla A”, è adeguato. Il problema è solo prospettico, per questo abbiamo messo un outlook «negativo» al loro rating.

Non è che siete più teneri con il Governo Usa perché Standard & Poor’s è americana?
La nostra nazionalità non significa nulla. Abbiamo criteri di rating pubblici, dopo aver preso una decisione spieghiamo compiutamente la sua logica. Gli analisti che si occupano di Stati Uniti sono americani ma anche europei. Insomma: non c’è alcun nesso tra le nostre decisioni sul rating Usa e la nostra nazionalità.

I vostri maggiori azionisti (si veda altro articolo) sono i principali fondi Usa, che sono anche gli utilizzatori dei vostri rating. Appare curioso che un fondo come Capital World Investors sia il primo azionista di Moody’s e di McGraw Hill-Standard & Poor’s. Non c’è il rischio di ingerenze?
Questi sono i più grandi fondi al mondo. I grandi investitori hanno migliaia di miliardi di attivi in gestione: probabilmente hanno quote rilevanti in tutte le società quotate a Wall Street. Ma questo non dà loro alcun potere e alcuna influenza nelle decisioni di Standard & Poor’s sui rating.

Se Capital World avesse pesantemente investito in bond greci, forse Standard & Poor’s e Moody’s sarebbero state meno aggressive con Atene… In fondo gli azionisti possono rimuovere i top manager.
Noi non abbiamo idea di quale sia il loro portafoglio. E poi declassiamo centinaia di bond ogni anno, tanti dei quali sono sicuramente nel portafoglio dei nostri azionisti. Non ci sono pressioni, glielo assicuro. Anche perché i rating sono decisi in modo riservato e poi vengono discussi da comitati: ci sono vari livelli di controllo e gli azionisti non hanno modo di entrare nelle nostre decisioni.

Negli ultimi anni sono state realizzate molte riforme, sia in America che in Usa, sulle agenzie di rating. Crede che siano sufficienti per assicurare indipendenza, trasparenza e correttezza?
Per garantire l’indipendenza delle agenzie e per favorire l’accountability è stato fatto abbastanza. Anche sul tema della trasparenza. Si sono fatti passi avanti anche su un altro settore: ridurre la dipendenza dai rating degli investitori. Recentemente negli Usa è stata varata una legge che ridurrà gli obblighi statutari dei fondi ad investire solo in titoli con certi rating: questo è positivo. Anche in Europa la legislazione si sta muovendo in questa direzione.

Dunque le regole attuali sulle agenzie di rating vanno bene?
Sì, abbastanza. Ci sono ancora alcune problematiche. Per esempio il fatto che l’Europa non accetta i rating assegnati a Paesi che hanno legislazioni non compatibili. Questo crea disparità.

Condivide l’idea di dare agli investitori la possibilità di citare in giudizio le agenzie di rating per voti sbagliati?
Assolutamente no. Gli analisti sono già condannabili se diffondessero rating falsi, per truffe. Ovvio. Ma esporli al rischio di cause per rating sbagliati è assurdo: questo vorrebbe dire che ogni volta che noi cambiamo il voto su una società o uno stato, saremmo teoricamente condannabili perché ammetteremmo che il rating precedente era sbagliato.

Sarebbe però il giudice a decidere: un conto è dare la possibilità di fare causa, un conto è condannare.
Sì, ma il rating è una previsione sul futuro: è per sua natura passibile di cambiamento. Se ci fosse questo rischio, nessuno farebbe più il nostro lavoro.

Una delle critiche spesso rivolte alle agenzie di rating – specialmente in Italia – è che penalizzano le piccole e medie imprese solo perché sono piccole. Non sarebbe l’ora di tenere maggiormente in conto le specificità delle realtà locali?
Già lo facciamo in molti Paesi: in India, Russia, Sud Africa, Messico e in altre aree al rating «globale» associamo la possibilità di assegnare un rating «domestico» o «regionale». Questi ultimi sono ad uso e consumo del mercato interno, hanno scale diverse e tengono conto delle specificità locali.

E perché non lo fate anche in Italia che, con tante Pmi, ha l’esigenza di vedere riconosciute le sue specificità?
Potremmo farlo, ma non ci è mai arrivata una richiesta in tal senso. Se ci fosse un’esigenza da parte di investitori locali, lo faremmo.

Fonte: www.ilsole24ore.com

Sono i nuovi oracoli del capitalismo. Muovono un giudizio e determinano le fortune sui mercati di un Paese o di un’impresa. Dalle società di rating ci si aspetterebbe il massimo della trasparenza e il minimo di conflitto d’interessi. E invece le quote di partecipazione di Standard & Poor’s e Moody’s determinano più di una perplessità.
Capital World Investors, una delle più grandi società di gestione del risparmio negli Stati Uniti, ha investito la stessa quota di capitale, cioè circa 2,5 miliardi di dollari, su McGraw Hill (il gruppo che controlla l’agenzia di rating Standard & Poor’s) e sulla concorrente Moody’s. In entrambi i colossi del rating Capital World Investors ha una quota poco superiore al 12% ed è il primo azionista delle due società. Socio delle agenzie di rating è anche un altro fondo americano: State Street Corp.
È il secondo azionista di McGraw Hill-S&P e il settimo di Moody’s. Stesso dicasi per Blackrock, altro fondo Usa: è l’undicesimo socio di Moody’s e il sesto della concorrente McGraw Hill-S&P. Niente di illegale, certo. Però che i fondi siano gli azionisti delle società di rating e per di più che lo siano senza limiti di intrecci di quote lascia perplessi.

Il mercato ha bisogno di giudizi imparziali e massima trasparenza.
Chi dà i voti deve essere come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto