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Eccoci qua, proprio agli sgoccioli di questo strano 2013.
Appena iniziato quest’anno, la mia euforia era alle stelle.
Era il mio anno, cacchio. Era l’anno del Serpente – secondo lo zodiaco cinese – ed era l’anno della mia rivalsa. I miei sogni si sarebbero realizzati, io mi sarei realizzata, tutto sarebbe andato nel miglior modo possibile.
Arrivati a due giorni dalla conclusione di questo strabiliante anno, posso dire che no, non è stato affatto strabiliante.
Ma andiamo con ordine e suddividiamo il tutto come farebbe il buon Paolo Fox.

Versante lavoro: la mia azienda ha chiuso ed io ho perso il lavoro con tre giorni di preavviso. Il ritorno su piazza è stato traumatico – lo è tutt’ora – e le ricerche sono sempre più difficili.
Trovare lavoro è come cercare un unicorno: un’odissea che volge sempre al fallimento.

Versante amore: stendiamo un velo pietoso sui legami affettivi, sia quelli d’amicizia che quelli di coppia.
Il 2013 ha visto la fine di un’amicizia che durava da nove anni per la motivazione più stupida che possa esistere: l’eliminazione da facebook.
Ebbene sì, miei cari: una mia ex-cara-amica non ha più voluto avere a che fare con me perché l’ho eliminata da facebook. Non importa che non ci scrivessimo mai su tale social network – usando, invece, whatsapp e chiamate – né che l’eliminazione sia seguita alla decisione di utilizzare facebook solo per tenermi in contatto con gli articolisti della rivista che dirigo, visto che le redazioni sono, appunto, su questo social  – era ed è il modo più semplice per tenere i contatti con tutti.
No, non le è importato che io facebook lo usi solo per comunicazioni di servizio con la rivista, ha comunque deciso di non volermi più sentire poiché “la cosa che più odia è essere eliminata da facebook senza motivo”. Molto, molto maturo.
Ci sono rimasta male, lo ammetto, ma non credo di essermi comportata in modo spregevole, visto che io ho continuato a scriverle e chiamarla, senza mai aver risposta, ovviamente. Solo quando ho chiesto spiegazioni, lei mi ha detto che ho “anche la faccia tosta” di farmi sentire dopo quello che le ho fatto.
Cosa, vorrei sapere. Cosa ti ho fatto?
Mi stai mandando al diavolo perché ti sono stata vicina per nove anni? Perché ti ho sostenuto quando nemmeno la tua famiglia ti voleva al suo fianco? Perché ti ho aiutata in ogni momento di bisogno? Perché ti sono stata accanto anche a discapito della mia vita?
Bel ringraziamento, davvero.
Dei rapporti “amorosi” non parlo nemmeno. Davvero, ormai non esistono più ragazzi che vogliono conoscerti per poter stare con te? Adesso è sempre così: ti offro un drink, tu mi offri la vagina a fine serata?
Sono rimasta io indietro o il mondo è un tantino fuso?
Non ci sono più ragazzi che corteggiano e se, per puro caso, fai la prima mossa tu, questi pseudo-esseri di sesso maschile ti portano subito a casa loro per poi darti della “puttana” se non gliela dai. Il mondo è andato fuori di testa.

In tutto questo marasma negativo, però, una buona notizia c’è.
Questo è stato l’anno durante il quale ho conosciuto una persona che ora è divenuta un’amica davvero speciale.
Con lei si è instaurato un rapporto meraviglioso di grande condivisione ed empatia, tanto che, dopo soli quattro mesi di conoscenza, abbiamo deciso di fare un viaggio insieme a Londra.
Da pazzi, vero? Come puoi decidere di fare una vacanza assieme ad una ragazza conosciuta tramite la rivista, dopo averla vista solo due volte dal vivo?
Non lo so nemmeno io, devo essere sincera. Non sono una persona avventata, lo sapete bene. Io ragiono e ragiono… e ragiono.
Con lei, invece, ho capito da subito quanto c’intendessimo. Sono bastati due commenti su facebook e già mi sembrava di conoscerla da una vita intera. Ci siamo sentite tramite telefono, lunghe nottate a chiacchierare su skype ed è finita che, già dalle prime chiacchierate, questa ragazza venisse a sapere cose di me che nemmeno le mie amiche più care conoscono.
Abbiamo condiviso pensieri profondi, dubbi e paure che l’altra è riuscita a dissipare o placare.
Trascorrere quasi una settimana con una persona che conosci da pochi mesi e trovarsi meravigliosamente? Sì, mi è capitato proprio questo.
Con lei rido, scherzo e parlo di argomenti talmente frivoli da far arrossire una barbie; con lei, però, riesco anche a fare i discorsi più profondi e mistici che mi sia capitato di riuscire ad affrontare con gli altri.

Ci capiamo, non c’è molto da dire.
Grazie a lei, poi, ho conosciuto altre persone meravigliose che mi sono entrate nel cuore.
Forse  è proprio vero: a volte devi solo prendere l’onda e lasciare che le cose accadano.

Versante salute: non ho avuto l’influenza ed il raffreddore quest’anno, a discapito di un mal di schiena e di una spossatezza degni di una vecchietta. Tutto sommato, mi è andata bene.

Ora, l’unica cosa a cui riesco a pensare è: quest’anno voglio che sia diverso.
Voglio pensare a me, a realizzare davvero i miei sogni. Voglio trovare la mia strada, per davvero.
Per questo, se tutto va secondo i piani, a Settembre partirò per l’Inghilterra per sei mesi con il progetto Au pair.
Ho deciso.
Ho preso l’appuntamento con l’agenzia, sto cercando lavoro per poter mettere da parte i soldi mancanti per aprire le pratiche e per andare via con le spalle coperte e sto rispolverando l’inglese un po’ più colloquiale con qualche libro ad hoc – grazie, Sloan!
In più, credo di avere una possibilità nell’editoria. Forse, credo… Sì, ecco. Credo di avere una piccola possibilità. C’è un editore che vorrebbe leggere qualcosa di mio per valutarlo. Significa che c’è una piccola possibilità se ho davvero talento, giusto?
Non mi sto facendo un film, vero?
Non riesco a realizzarlo. È stato tutto così improvviso che sono qua senza averlo ancora realizzato.
Certo, non mi ha detto che vuole pubblicare ogni mio libro o fare di me la nuova J.K. Rowling, ma già il solo fatto che abbia detto “Mandami qualcosa, vorrei leggerlo” è tantissimo. Più che tantissimo. È un sogno.

Quindi, mi devo dare da fare per far sì che il sogno diventi realtà.

Ho un romanzo quasi concluso – il primo di una quadrilogia di genere gotico/paranormal e tutti questi termini nuovi che descrivono il genere sovrannaturale – ed un altro appena iniziato ed auto-conclusivo di genere psicologico/di formazione nel quale vorrei trattare argomenti come la solitudine, la carenza di affetti, la malinconia, la paura dell’amore e la depressione adolescenziale che attanaglia milioni di giovani nella nostra fredda società.
Ho alcuni racconti di vario genere, uno in particolare che vorrei inviargli. È quello che ho postato qualche tempo fa – Di sole e di notte – solo che vorrei ampliarlo. Originariamente, infatti, era più lungo e meno affrettato. Purtroppo, ho dovuto tagliarlo causa linea concorso dei “30.000 caratteri massimo”.
Pensavo, quindi, di mandargli questo racconto e le due trame dei romanzi sopracitati, così che possa farsi un’idea del mio stile e del mio “talento” – qualora ci fosse, ovvio – e sapere a cosa sto puntando per quanto riguarda i vari generi.
Può andare, che dite?
Prima di fare tutto questo, però, devo fare un’altra cosa: rendermi conto che tutto questo è reale ;)

Ritornando alle somme, direi che è tempo, quindi, di buttar giù un piano d’azione per questo 2014 che ho intenzione di far divenire strepitoso.
Basta astri, basta “forse”, basta “fortuna”.
“I am the master of my fate; I am the captain of my soul.”

 Questo è il piano per il mio 2014:
– Inviare il materiale all’editore ed incrociare ogni dito per l’esito favorevole. Anzi no, niente fortuna, giusto? Riscriviamo.
– Inviare il materiale all’editore, materiale buono, ed essere contattati se questo si rivelasse buono quanto io stessa riesca a vederlo.
– Trovare lavoro, anche uno qualsiasi, per poter mettere da parte i soldi per la partenza.
– Andare in Inghilterra per 6 mesi, migliorare il mio inglese, conoscere una nuova cultura e nuove persone. Creare una nuova me stessa, ripartire da zero.
– RICOMINCIARE e tracciare la mia strada. Voglio che questo 2014 sia il mio nuovo inizio, senza “se” e senza “ma”.

Per tutto questo, il mio 2014 inizia da ora, dal momento in cui realizzo di voler far avverare i miei desideri e realizzare i miei sogni che per troppo tempo sono stati chiusi nel cassetto.
Il mio 2014 inizia ora, dalla mia presa di coscienza e dal mio attivarmi per far sì che tutto ciò che desidero divenga mio.

Siamo noi i padroni del nostro destino, ricordatevelo.

Detto questo, vi auguro un buon anno nuovo, miei cari.
Che  anche voi possiate avere da questo nuovo anno tutto ciò che desiderate e possiate, soprattutto, ritrovare voi stessi, i vostri sogni e le vostre speranze e renderli tangibili e reali.

Auguri  di cuore.

“Di sole e di notte”

 

“Il destino spesso lo si incontra proprio sulla strada presa per evitarlo.”
Il mio nome è nessuno – 1973

Londra.
La città dell’eccentrismo, del tè delle cinque, dei vestiti bizzarri, dello smalto nero sulle unghie, degli artisti, del rock and roll, del teatro e della poesia, del romanticismo ottocentesco, della rivoluzione femminile, della musica e dell’arte di strada.
A Londra puoi essere chi vuoi, accantonare il passato e ricrearti, daccapo; a Londra puoi ricomporre la tua personalità, scegliere il tuo stile di vita, ritornare alla via dei tuoi sogni e realizzarli senza impedimenti, senza costrizioni, senza morale o logica, solo istinto e passione.
A Londra puoi abbandonare il fato, aprire il libro del destino e cancellarvi le scritte a matita, armandoti di penna stilografica colorata, pronta a vergare il tuo nuovo percorso.

Londra, la città della magia.
Londra, il nuovo inizio.

Poggiare il piede su suolo inglese, vedere la scritta che le accoglie ad Heathrow, sentire l’odore della pioggia in un’improbabile giornate di sole, sorridere alla compagna di viaggio ed iniziare a saltellare qua e là, come pazze, attirando sguardi e sorrisi di chi, come loro, sentiva l’eccitazione latente e dormiente che una città come Londra è in grado di risvegliare nei suoi abitanti e nei molti turisti.
Il viaggio programmato molti mesi prima è divenuto reale davanti ai loro occhi felice e ridenti.
Sentiva, lo sentiva dentro di sé Iris… Questo viaggio le riservava qualcosa di inatteso ed inaspettato. Sentiva, la sentiva su di sé, quell’ansia che ti prende prima di un avvenimento importante, quell’adrenalina che sembra scorrerti sulla superficie della pelle, quell’ingarbugliamento di sensazioni ed emozioni nello stomaco, quell’agitazione, quell’eccitazione, quel leggero sentore di paura che rendeva l’attesa qualcosa di piacevole e doloroso al contempo.
Iris sapeva, sapeva perfettamente che qualcosa l’attendeva in quella città dai mille colori ed odori.
Sentiva che quello strano senso di inquietudine che da sempre l’accompagnava nella sua vita finalmente sarebbe scomparso, soffiato via dall’alito caldo di una luce nuova.
Era una mancanza indefinita, quella che la tormentava; una mancanza senza volto né corpo, né consistenza o voce. Era astratta, fumo nei ricordi, nelle sensazioni; allo stesso tempo, però, era qualcosa di vivo e pulsante dentro di lei, una presenza che non mancava mai di bussare alle porte dei suoi stati d’animo, modificandoli prepotentemente, senza annunciarsi.

Un’assenza senza forme, un velo di sofferenza che si posava sul suo cuore impedendole di sorridere davvero, di gioire davvero, sempre con la sensazione allo stomaco che qualcosa mancasse, che qualcosa stonasse.
Che, finalmente, questa sensazione potesse trovare nome o volto?
Iris lo sperava davvero o, per lo meno, sperava che quella settimana di vacanza passasse spensierata, che, per una volta, il suo sorriso coinvolgesse i suoi meravigliosi occhi grigi, che il suo cuore gioisse di una gioia leggera, senza pensieri.
Ci credeva davvero, lo sentiva nel profondo.
Era nella terra della magia, era nella terra del bizzarro, dell’inspiegabile.
Per una volta, Iris Mason avrebbe lasciato che il destino facesse da sé e prendesse in mano il suo cuore e lo guidasse attraverso quel bosco fitto ed oscuro che il suo animo celava, pronto a donarsi alla luce pura ed accecante dell’amore.
Nessuna costrizione, nessun pensiero.
Voleva solo liberare la mente e seguire il flusso degli eventi, dimenticandosi di tutto e lasciandosi trasportare.

Avevano appena posato le valige nella splendida stanza d’albergo che si affacciava direttamente sul Tamigi.
Caleigh si era buttata sul primo grande letto che le sue gambe avevano trovato ed ora si muoveva su quelle lenzuola candide come se si trovasse sulla neve, con le braccia e le gambe a muoversi per dare a quel manto pallido l’immagine di un angelo.
Iris fece un giro per la camera, rimanendone piacevolmente colpita, poi venne attratta dalla tendina verde chiaro che svolazzava quieta infrangendosi sui vetri aperti e donando una parziale vista delle acque scure del fiume inglese per eccellenza.
Si avvicinò a quella stoffa leggera e la scostò, uscendo sul balcone dal quale la città si apriva a ventaglio, mostrandosi nella sua bellezza agli occhi dei viaggiatori.
Era uno spettacolo magnifico poter vedere il cielo tingersi dei colori pastello del crepuscolo. Il rosa, il lilla, l’azzurro tenue che si mischiavano creando una coperta preziosa di colori dolci e gentili, un velo che si posava lento sulla città prima di lasciar spazio al manto di velluto della notte.
Rimase parecchi minuti ad osservare quel cielo splendido, Iris, prima che l’amica la richiamasse.
«Raperonzolo, sto morendo di fame! Che ne dici se andassimo alla ricerca di un bel localino etnico che cucini, che so… Qualcosa di etnico?» disse l’amica, ancora sdraiata sul letto.
Iris scoppiò a ridere davanti ai molti sinonimi che l’amica conosceva e scosse la testa ormai abituata a quel tornado che le aveva invaso la vita anni prima, mentre ancora bambina raccoglieva margherite per farne una collana da regalare alla sua mamma.
Si riprese quasi subito, il salto nel passato le aveva disteso le labbra in un dolce sorriso.
«Certo, mangiona. Andiamo a fare rifornimento di cibo etnico!» le disse con voce greve a mo’ di capitano di bordo.
Caleigh scoppiò a ridere e, prendendo la mora amica sotto braccio, uscì dalla camera, le risa ancora sulle belle labbra delle due.
Erano una strana coppia di amiche, Caleigh ed Iris, anche esteticamente parlando: la prima aveva una pelle dorata, corti capelli d’un tenue castano chiaro ed occhi verdi come le prateria scozzesi. Iris, invece, aveva i colori della notte: capelli neri come la volta notturna, pelle candida come l’astro della notte ed occhi grigi come le nuvole che imperversano nei giorni di pioggia.
Erano diverse, eppure complementari.
La prima sempre allegra e solare, estroversa ed un po’ pazzerella; la seconda più taciturna e malinconica, sensibile e con la testa sulle spalle. Eppure, questa loro diversità le incastonava perfettamente, come pezzi di un puzzle ben congegnato che mostra, nella sua interezza, una splendida immagine, tanto da lasciar lo spettatore senza fiato.
La serata volò via tra un raviolo al vapore ed un piatto di spaghetti di soia, un bicchiere di tè al gelsomino ed una birra cinese dal nome impronunciabile.

Il giorno seguente, la lista delle cose da fare e vedere era chilometrica. Per prima cosa, decisero di visitare il famoso mercatino di Covent Garden. Iris aveva letto molto al riguardo – aveva una passione smisurata per i mercatini ed il vintage – e sapeva che lì l’atmosfera bohémienne era ancora piuttosto marcata, con artisti, veggenti, musicisti, ballerini e pittori che scendevano in strada a mostrare disinibiti la loro arte, deliziando il cuore sensibile dei visitatori.
Con una cartina in mano, rischiando di scontrarsi spesso con i vari passanti, raggiunsero il famoso mercatino non prima d’aver sbagliato fermata della metro, aver chiesto indicazioni ad una nonnina russa che non parlava inglese ed esservi finite in mezzo senza nemmeno accorgersene.
Ridendo come due bambine in un parco giochi, le ragazze rimasero abbagliate dalla vivacità e dal movimento di quel luogo.
In uno spiazzo, dei ragazzi ballavano la breakdance, poco più avanti una coppia di ballerini ballava un tango così sensuale da far arrossire gli spettatori, dall’altro lato della strada, un pittore cieco dipingeva i volti dei passanti, toccandone il profilo e riproponendo su tela ciò che le sue mani avevano sentito, meravigliando tutti per la precisione e la bellezza dei particolari.
Ad un tavolino, proprio sul bordo della strada, due uomini vestiti con tipici abiti ottocenteschi bevevano il tè parlando in un inglese particolare, un accento marcato sotto i lunghi baffi e l’occhietto vispo dietro un monocolo finemente decorato.
Poco più distante, una scimmietta suonava dei piatti ed un uomo con un enorme turbante suonava uno strano flauto davanti ad una cesta.
Più si guardavano intorno, più quell’atmosfera le rapiva entrambe.
Trascorsero tutta la mattinata tra gli artisti e gli oggetti vintage, provando indubbi accessori e bizzarri vestiti, accarezzando un cucciolo di tigre e bevendo strani tè variopinti e profumati.
Proprio mentre guardavano una bancarella di accessori, lo sguardo di Iris cadde in fondo alla via dove una piccola tenda rossa e gialla si apriva nel centro della stradina.
Sembrava una di quelle tende da circo, quelle dove le veggenti ti leggono la mano per pochi soldi.
Senza sapere come, si ritrovò davanti a quella tenda colorata.
Proprio in fronte all’apertura, dietro un banchetto in legno, una donna dai lunghi capelli neri legati in una splendida treccia mischiava delle carte.
Aveva abiti sgargianti, in un tessuto impreziosito da inclusioni perlacee, brillanti ed affascinanti. Il trucco era un decoro artistico sul suo viso che risplendeva di una luce dorata e mistica.
Era una zingara.
La donna alzò lentamente il viso verso Iris che, impalata, la osservava.
Le sorrise conciliante e tornò a mischiare le sue carte, poi parlò con una voce calda ma composta ed autoritaria.
«Ti aspettavo. Benvenuta, Dagaz
Iris si guardò intorno, l’amica l’aveva appena raggiunta.
«Non c’è bisogno che ti guardi attorno, Dagaz. Sei tu colei che attendevo. Avvicinati.» riprese la donna, una mano ad indicarle di farsi più vicina.
Iris e Caleigh rimasero immobili, poi insieme si avvicinarono alla zingara mentre l’amica chiedeva con cenni silenziosi di cosa stesse parlando la donna.
Iris sentiva una strana sensazione nello stomaco, ma non se ne curò.
La donna non guardò nessuna delle due e continuò a mischiare le sue carte, poi alzò lo sguardò verso Caleigh.
«Sono felice che tu sia venuta, ti attendevo da molto… Dagaz.» e concluse la frase voltandosi completamente verso Iris mentre pronunciava quello strano nome.
La mora capì che era proprio con lei che la donna stava parlando.
Caleigh rimase accanto all’amica e la spronò ad avvicinarsi.
La donna le fece cenno di sedersi e Iris obbedì.
Sentiva qualcosa di strano dentro di sé, una sensazione sconosciuta e destabilizzante.
La donna prese il mazzo di carte e posizionò alcune di esse sul banchetto, disponendole in una strana forma, poi chiese ad Iris di indicargliene una.
La ragazza allungò tremante la mano verso la carta del centro, carta che la donna girò con un sorriso.
Erano strani simboli, non tarocchi come credeva. Sembrava una scrittura antica, un po’ come le rune celtiche.
Iris alzò lo sguardo, la confusione sul suo viso.
«Tu sei Dagaz, figlia mia. Sei l’equilibrio fra la notte ed il giorno, l’eterno ritorno differente, la luce dell’alba e del crepuscolo. Tu sei l’alba di un nuovo giorno, tu sei l’oscurità che si trasforma in luce. Tu sei la notte che governa il mondo, il manto buio di velluto che cela gli amanti, il crepuscolo fresco che meraviglia gli uomini. Ed è proprio da quest’oscurità che nasce la tua luce, la luce dei tuoi occhi, la luce nel tuo cuore.» pronunciò la donna con tono dolce e gentile, mentre negli occhi una luce nuova brillava ed una mano accarezzava il palmo di quella di Iris.
La giovane non sapeva cosa dire, ma la donna non le diede nemmeno il tempo di formulare una frase di senso compiuto che continuò a parlare.
«Lui è qui e ti sta cercando, ti cerca da sempre, dall’alba dei tempi. Vi siete trovati e perduti, perduti e ritrovati ed ora il ciclo del tempo del quale sei custode sta per tornare, ancora una volta, ed avrà un volto definito ed una voce reale, avrà braccia possenti ed un cuore pieno d’amore. Il tempo dell’indefinito sta per terminare, ora ciò che desideri ed aneli nei meandri più reconditi del tuo animo sta per prendere forma. Avrà occhi del cielo e del mare ed il sole di settembre tra i capelli. Lui sarà la tua controparte di luce abbagliante abituata a vivere senza ombre, quella luce che ti mostrerà la gioia del sole ed alla quale tu mostrerai la bellezza della luna e della notte. Lui è la tua metà, la tua parte d’anima e di luce che hai perso nel gioco del tempo, sempre destinati a ritrovarvi, sempre destinati ad unirvi e sempre destinati ad amarvi.»
La donna si ritirò veloce all’interno della tenda, mentre le ultime parole lasciavano l’aria nella quale si erano infrante.
Iris era spossata, destabilizzata.
Caleigh le fu accanto in un secondo.
La donna era scomparsa nella tenda, non le aveva chiesto denaro né le aveva spiegato alcuna cosa.
La giovane era rimasta completamente ipnotizzata dagli occhi della donna, capendo solo in seguito il perché di quello strano colore sbiadito: la zingara era cieca.
La voce dell’amica le arrivò quasi lontana. «Iris, lascia perdere. Quella era mezza suonata, si vedeva! Forza, continuiamo il nostro giro, amica mia.» e la prese sottobraccio mentre la mora cercava ancora di capire le parole della strana donna.
Si alzò lentamente e prima che la tenda fosse troppo lontana, udì altre parole, le ultime: «Non cercarlo, figlia mia; sarà lui a trovare te, sarà sempre lui a trovarti.»

La giornata trascorse più o meno serena. Le due amiche girovagarono per il mercatino, pranzarono in uno strano locale orientale, fecero shopping tra i negozi vintage, ascoltarono musica in strada, visitarono il celebre British Museum e passarono la serata tra locali jazz di musica live, tra un cocktail ed uno spuntino.
La notte calò inesorabile anche su Londra e le due amiche si coricarono, pronte a ritemprarsi per una nuova giornata alla scoperta di quella strana ma adorabile città.
Iris fece fatica ad addormentarsi, le parole della zingara ancora nella mente.
Una stella brillò nell’oscuro cielo di Londra mentre le luci della città lasciavano il posto all’ombra della notte.

Il giorno seguente, le due ragazze programmarono un’intera giornata a spasso tra antiche dimore e palazzi, una giornata all’insegna dell’arte e della cultura che sarebbe terminata in bellezza con lo spettacolo preferito di Iris al celebre Royal Opera House, dove dalle ventuno in poi si sarebbe messo in scena il Romeo e Giulietta, eseguito dallo splendido Royal Ballet.
Iris era un po’ spaventata all’idea di tornare a Covent Garden.
Le parole di quella donna continuavano a tormentarla.
Fu per questo che Caleigh la convinse a fare un salto al mercato prima dello spettacolo: voleva parlare ancora con quella donna, chiederle spiegazioni; ma quando arrivarono, una brutta sorpresa le attese. Della donna, infatti, non vi era traccia. Quando chiesero informazioni, un anziano signore che lavorava al mercato da decenni disse che quella donna non era mai venuta prima e che, sicuramente, era un’abusiva senza permesso cacciata in giornata, visto che era scomparsa nel tardo pomeriggio.
Iris sentì la delusione nel cuore.
«Te l’avevo detto, no, che era una vecchia pazza! Forza, sbrighiamoci od il tuo Romeo verrà accalappiato da una Giulietta qualsiasi.» disse l’amica prendendola per mano, mentre correvano tra le vie per raggiungere il teatro, il vestito da sera ed i tacchi ad impacciare i movimenti.

Altri due giorni trascorsero ed ormai la vacanza giungeva vicina alla sua fine.
Iris aveva cercato di dimenticare le parole della donna, avvalorando la tesi dell’amica e si era goduta quei giorni in giro per Londra con un grande sorriso sul volto, il cuore leggero e la mente senza pensieri.
Fu proprio nel pomeriggio del quinto giorno che tutto mutò radicalmente.

Passeggiavano per Camden Town con la mappa in mano alla ricerca di un locale carino in cui pranzare, quando Iris andò a sbattere contro qualcosa, o meglio, qualcuno.
La mora, sentendo il contatto con qualcosa di sodo e caldo, alzò il naso dalla mappa e buttò indietro la testa, incontrando gli occhi più belli che avesse mai visto.
La luce del sole rifletteva su dei capelli biondi ed incorniciava quegli occhi azzurri come il cielo estivo.
“Avrà occhi del cielo e del mare ed il sole di settembre tra i capelli.”
Rimase in quella strana posizione, con la mappa a mezz’aria, la testa tirata indietro e la bocca spalancata per una buona manciata di secondi, poi il sorriso più dolce che avesse mai incontrato la fece riavere.
Si voltò veloce, inciampando nei suoi stessi piedi e finendo tra le braccia del bellissimo ragazzo che si trovava di fronte.
Arrossì per l’imbarazzo e per il contatto, balbettando delle scuse e scostandosi subito dal giovane.
Il ragazzo le sorrise e si passò una mano tra i capelli, leggermente imbarazzato.
«Figurati, non è successo nulla.» le disse gentilmente, poi le chiese se stesse bene ed Iris si aprì in un tenue sorriso.
«S-sì, ti ringrazio.» rispose arrossendo ed apparendo ancora più bella di quanto già non fosse.
Il ragazzo, poi, le porse la mano.
«Piacere, io sono Alexander.» le disse stringendole fermamente la mano.
Iris non riuscì a rispondere, poi una testa più chiara entrò nel campo visivo dei due ragazzi.
«La ragazza qui mezza muta si chiama Iris, vero?» disse Caleigh sorridendo e dando una gomitata all’amica.
Iris si riprese velocemente. «Sì, scu-scusami. Il mio nome è Iris, piacere di conoscerti, Alexander.» disse riprendendo finalmente le facoltà mentali.
Alex sciolse la stretta di mano sorridendo.
«Hai lo stesso nome della dea dell’Arcobaleno, lo sai Iris?» le disse leggero ed Iris scosse la testa.
«Non ne ero a conoscenza.» rispose soltanto e quando il ragazzo si passò nuovamente la mano nei capelli biondi come il grano, Iris la vide.
Il ragazzo seguì lo sguardo della morettina e trovò il suo tatuaggio.
«Ah, sì. Questa è una runa, rappresenta-»
«Dagaz, la runa della luce.» rispose Iris senza staccare gli occhi dal tatuaggio.
Alexander rimase spiazzato, poi però sorrise alla giovane annuendo.
Aveva cercato in tutti i modi di dimenticare le parole della donna, e ci era quasi riuscita, ma tutto quello non le aveva impedito di fare qualche ricerca su quello strano nome con il quale la donna l’aveva chiamata.
Dagaz, la runa della luce.
«Allora, cosa cercavate di interessante sulla mappa?» chiese il giovane, indicando col mento la carta stropicciata tra le mani di Iris.
Fu Caleigh a rispondere mentre Iris cercava di combattere il tremendo e furioso battito del suo cuore.
«Un ristorante etnico, si dovrebbe chiamare… The Jasmin of Java, se non sbaglio.»
Il ragazzo annuì.
«Oh, lo conosco. Si trova proprio dietro l’angolo anche se ammetto che è difficile da individuare tra tutti quei ristorantini e negozi. È un ottimo locale con cucina indonesiana. Se volete, vi accompagno. Stavo proprio per andare lì a pranzare, mi aspettano due amici. Volete unirvi?» disse gentile e Caleigh acconsentì con entusiasmo.
S’incamminarono tutti e tre verso il ristorante, Caleigh solare come mai prima d’allora, mentre sorrideva entusiasta ad una più mite Iris, persa completamente a causa della bellezza dell’architettura che la circondava.
La ragazza si guardava in giro, osservando le costruzioni particolari di quel quartiere. Era così estasiata dall’influenza indonesiana che si aprì in un grande sorriso ed i suoi occhi si illuminarono alla vista di quelle meraviglie architettoniche.
Alexander non si era perso alcun movimento della ragazza, abbagliato dalla luce del suo viso.
Era bellissima con quella pelle di luna, i capelli neri e gli occhi grigi come la pioggia – che poi, chi aveva gli occhi grigi? – le guance arrossate dal sole, gli occhi lucidi ed il sorriso sulle labbra, poi, la rendevano una visione.
Piano, le si avvicinò, senza che la ragazza lo percepisse. Si abbassò alla sua altezza e le sussurrò all’orecchio, facendola scattare spaventata all’indietro: «Gli indonesiani chiamavano il Jasmin di Giava anche “chiaro di luna”, come la celebre sonata di Beethoven. Si dice che il suo profumo fosse delicato come la brezza serale ed il suo colore ricordasse il pallido astro della volta notturna. Credo sia un fiore che ti rappresenti, Iris.» ed allungando una mano, prese qualcosa dietro di lei e poi lo posò tra i suoi capelli, proprio sopra il suo orecchio.
Alex guardava il piccolo fiore di gelsomino bianco che spiccava sullo sfondo scuro dei lisci capelli della ragazza e si rese conto di quanto fosse  perfetto per lei. Splendido e raffinato, dal profumo delicato ma intenso. Perfetto.
Senza aggiungere una parola, entrò nel ristorante, facendo strada ad entrambe verso il tavolo dove due ragazzi lo attendevano.
Iris, entrando nel locale, si poté specchiare nelle vetrate e lì vide il fiore tra i suoi capelli.
Il cuore accelerò, solo un pochino.

Trascorsero insieme una splendida giornata.
Caleigh, durante il pranzo, aveva attirato le attenzioni dei due amici di Alex, mentre Iris chiacchierava meno ed ascoltava molto di più, osservando i gesti dei ragazzi e dell’amica.
Ne osservava uno in particolare, Rick, un ragazzo carino ma dall’aria timida ed impacciata.
Si torturava le mani ed abbassava spesso lo sguardo quando Caleigh, durante i racconti, lo guardava dritto negli occhi.
Aveva capelli scuri ed occhi verdi, proprio come quelli dell’amica. Aveva un fisico snello ma non era molto alto. Nel complesso, però, era un bel ragazzo.
Iris lo osservava, capendo al volo che il ragazzo avesse preso una sbandata per l’estroversa amica che, da quello che poteva vedere, ricambiava.
Che fosse un colpo di fulmine?
Alex, intanto, osservava Iris guardare i due e sorrise.
Quella ragazza lo affascinava sempre più, aveva la capacità di vedere sfumature che agli occhi degli altri sfuggivano.
Proprio mentre gli occhi di Alex si posavano su quelli di Iris, la ragazza voltò lo sguardo incrociandoli e le parole della zingara le arrivarono dritte e potenti nella mente.
“Lui è qui e ti sta cercando, ti cerca da sempre, dall’alba dei tempi. Vi siete trovati e perduti, perduti e ritrovati… Avrà occhi del cielo e del mare ed il sole di settembre tra i capelli. Lui sarà la tua controparte di luce abbagliante.”
Gli occhi azzurri di Alex, i suoi capelli biondi, la luce solare che emanava presero il posto di quel volto indefinito che le faceva battere il cuore, sentire una strana emozione nello stomaco ed una mancanza inconsistente, senza viso.
Iris sentì delle vertigini farle girare la testa.
Si appoggiò allo schienale, poi si scusò dicendo che andava a prendere un po’ d’aria ed Alex la seguì senza farsi vedere.
Fuori dal locale, Iris si avvicinò al muro coperto di gelsomini e ne toccò un fiore con la punta delle dita.
Alex la osservò, le dita lunghe e diafane che sfioravano quel petalo bianco come quella stessa pelle.
Iris sorrise, poi alzò lo sguardo e guardò il cielo oscurarsi.
Delle nubi grigie avevano inghiottito il sole, ma la luce traspariva ugualmente, trovando sempre la via per mostrarsi ed illuminare il mondo.
Mentre guardava il cielo tingersi del colore dei suoi occhi, un leggero miagolio la fece voltare verso la parete di gelsomini.
Proprio al di sotto della piccola panchina in pietra sulla quale si arrampicavano i fiori, un piccolo gatto nero la guardava miagolando, accucciato come una sfinge e meraviglioso come la mistica e misteriosa costruzione egiziana.
Subito, Iris si abbassò ed allungò la mano verso quella piccola e pelosa testolina.
Il gatto, vedendo il movimento, allungò il piccolo collo per facilitare la carezza e, quando la mano entrò delicata in contatto con il manto morbido dell’animale, quest’ultimo cominciò a fare le fusa, miagolando dolcemente.
Iris sorrise ed aggiunse una seconda mano alle carezze.
Il micio apprezzò notevolmente quella doppia carezza, chiudendo gli occhietti chiari e distendendo il musino.
Iris rise di quel musetto compiaciuto fino a quando il gatto non decise di sottrarsi a quelle carezze e farne una a quella dolce umana.
In pochi istanti, il micio si alzò poggiando le zampine anteriori sul ginocchio piegato di Iris, avvicinò il piccolo muso alle labbra della giovane e vi depositò una sorta di bacio, per poi tornare a terra, miagolare e sparire dietro i gelsomini.
Il giovane, che aveva guardato estasiato tutta la scena senza farsi vedere, tornò veloce all’interno del locale con un dolce sorriso a distendergli le labbra.
Il pranzo proseguì allegro. Chiacchierarono, mangiarono e risero moltissimo.
Alla fine del pranzo, decisero di trascorrere tutto il pomeriggio insieme, mentre Daniel – questo era il nome dell’altro amico di Alex – li lasciava per andare al lavoro.
I due ragazzi mostrarono alle turiste locali e luoghi di una Londra ai loro occhi sconosciuta. Salti nel tempo, sorrisi, giochi e divertimento.
Grazie ai due giovani, Iris e Caleigh poterono vedere una Londra che negli opuscoli turistici non veniva menzionata.
Una Londra mistica e magica, nascosta tra piccole vie acciottolate, antiche e sconosciute dimore, locali pittoreschi e dalle entrate seminascoste.
Fu una giornata magnifica.
Quando calò la sera ed i quattro si salutarono, decisero di vedersi il giorno seguente: le due amiche volevano visite il quartiere di Bloomsbury ed i due ragazzi, da perfetti gentlemen inglesi, si erano offerti di far loro da cicerone.
Tornate in albergo, Caleigh si buttò subito sul letto, prendendo un cuscino e portandoselo al viso, affondandovi completamente.
Iris si sedette sul bordo del proprio letto ed attese.
Poco dopo, infatti, dal cuscino sbucò un occhio dell’amica che subito venne coperto, con tanto di risolino isterico e dimenamenti.
Iris scoppiò a ridere e Caleigh si mise seduta, il cuscino ancora tra le braccia.
«Non ridere di me, maledetta! Che razza d’amica sei?» le chiese fintamente imbronciata, cosa che fece ridere Iris ancora di più.
L’amica, però, la guardò storto e così lei alzò le mani in segno di resa, l’ombra di un sorriso ancora sul volto.
«Forza – le disse – sputa il rospo.» e Caleigh lo sputò senza trattenersi.
«Iris, ma l’hai visto? È troppo carino! Sembra così timido e dolce!» disse l’amica con una vocetta da bimba e gli occhi lucidi d’emozione.
Iris le tirò un cuscino addosso e scoppiarono a ridere, poi Caleigh tornò seria.
«A parte gli scherzi, mi piace, I. Mi piace molto.» e sul suo viso comparvero due chiazze rosse proprio sulle guance.
Iris non poteva crederci. Questa volta si era davvero presa un bel colpo di fulmine!
La mora si buttò sul letto dell’amica e la strinse forte, ricambiata dall’amica stessa.
«Dai, domani lo rivedrai… Fatti avanti!» la spronò dolcemente, ma Caleigh si rabbuiò tutto d’un tratto.
«Iris, tra due giorni partia-» ma l’amica non la fece finire.
«Non osare! Tra due giorni partiamo, ma non andiamo mica sulla luna! Forza, volere è potere! E poi, non hai detto che mi avresti seguita alla Oxford se mi fossi iscritta qui? Sai che da sola non ci verrei mai…» lasciò apposta la frase in sospeso e Caleigh, il viso illuminato dalla più dolce delle emozioni, le saltò addosso.
«Ti adoro!»

I due giorni seguenti furono splendidi.
Caleigh, durante la visita ad una famosa libreria di Bloomsbury, prese Rick per mano, facendo diventare il ragazzo di mille colori – ragazzo che, però, non mollò più quella piccola mano.
Alex e Iris, invece, si scoprivano sempre più simili ma allo stesso tempo differenti.
Amavano il teatro, Iris le tragedie ed Alex le commedie; Iris amava il balletto ed Alex l’opera lirica. Amavano l’arte, Iris il periodo romantico, Alex quello neoclassico.
Amavano la letteratura, Iris i grandi autori inglesi come Lord Byron, Shakespeare e Jane Austen, Alex amava i simbolisti francesi ed i poeti maledetti.
Iris amava l’inverno e l’autunno, Alex l’estate e la primavera.
Amavano la musica, però. Entrambi pazzi per la musica classica, si scoprirono fan degli stessi artisti quali Paganini, Mozart e Beethoven, scoprendo che le canzoni preferite dell’uno erano anche quelle dell’altro.
Decisero, così, con una specie di promessa fatta di mignoli incrociati e risate, di ascoltare i notturni di Chopin quella notte stessa sul terrazzo di casa di Alex e, in cambio, Iris avrebbe goduto del sole pomeridiano sdraiata su quel terrazzo il giorno seguente, durante una piccola grigliata, mentre si lasciava baciare la pelle da quell’astro che poco conosceva e guardava Londra immersa nella luce.

Furono due giorni magnifici, così intensi da sembrare mesi.
Avevano davvero ascoltato i Notturni di Chopin sul terrazzo del ragazzo, mentre la brezza leggera dell’eterna città della pioggia faceva increspare la pelle della mora, dando la possibilità ad Alex di tenersela vicina, il suo maglione sulle spalle di Iris e le braccia attorno alla sua vita sottile.
La grigliata aveva visto le doti culinarie di Rick e di suo fratello mettersi in primo piano, affascinando Caleigh ed il suo eterno appetito ancora di più.
Il sole aveva davvero baciato i loro volti e quella splendida giornata era trascorsa tra partire a carte, calcetto e racconti imbarazzanti seduti sui due divanetti esterni, fiorati e morbidissimi.
Il giorno della partenza, però, arrivò ed i ragazzi dovettero salutarsi.
Caleigh e Rick si erano scambiati l’indirizzo e-mail, il numero di telefono ed il profilo di facebook, pronti a sentirsi tutti i giorni; Alex e Iris, invece, si guardavano da lontano, mentre l’ombra dell’addio troneggiava su di loro.

Iris capì che lui era davvero la sua metà.
Lo capì in un attimo.
Pensò al ragazzo ed a quella mancanza senza volto che la tormentava da anni, poi, improvvisamente, il viso di Alex divenne il viso di quella mancanza, i suoi occhi ed i suoi capelli i tratti di quel volto, il suo corpo il corpo della mancanza indefinita.
Si appoggiò alla balaustra del terrazzo mentre la consapevolezza della verità nelle parole della zingara la colpiva in pieno petto.
Lui l’aveva trovata.
Non si accorse di due occhi azzurri che la osservavano, spogliandole l’anima e percependo, finalmente, la resa alla consapevolezza di quella che lui aveva capito – e sempre saputo – essere la sua compagna.
Iris continuava a pensare e ripensare, il cuore che batteva furioso e la testa che le girava.
Come era possibile che quella donna le avesse predetto il futuro?
Come era possibile che loro due fossero destinati?
Com’era possibile tutto ciò? Che fosse realmente magia?
Dietro di lei, una voce si levò dal silenzio, facendola sobbalzare.
«Sei tu, vero?» chiese Alex ed Iris si voltò a guardarlo in quei meravigliosi occhi senza rispondere.
Alex fece un passo avanti, gli occhi completamente trasparenti.
«Sei tu, ne sono sicuro.» disse ancora, muovendo nuovamente un passo.
«Sei tu, sei sempre stata tu ed ora lo sai, non è vero?» continuò il giovane avanzando.
«Sei l’equilibrio fra la notte ed il giorno, l’eterno ritorno differente, la luce dell’alba e del crepuscolo. Tu sei l’alba di un nuovo giorno, tu sei l’oscurità che si trasforma in luce. Tu sei la notte che governa il mondo, il manto buio di velluto che cela gli amanti, il crepuscolo fresco che meraviglia gli uomini.» continuò il ragazzo, mentre Iris si portava le mani alla bocca e reprimeva un singhiozzo, gli occhi spalancati e pieni di lacrime.
«Sei tu, la mia metà perduta. Sei tu.» concluse annullando le distanze e ritrovandosi di fronte alla ragazza.
Iris aveva il volto solcato da due scie acquose, il cuore in subbuglio.
Le mani ora le ricadeva sul petto, dove una teneva l’altra all’altezza del cuore.
Piano, con lentezza, allungò una di esse a sfiorare il volto del giovane davanti a lei, poi gli ripeté le parole della zingara, le lacrime che ancora solcavano il suo volto diafano.
«Lui è qui e ti sta cercando, ti cerca da sempre, dall’alba dei tempi. Vi siete trovati e perduti, perduti e ritrovati. Il tempo dell’indefinito sta per terminare. Avrà occhi del cielo e del mare ed il sole di settembre tra i capelli – e gli passò delicata una mano tra i capelli – Lui è la tua metà, la tua parte d’anima e di luce che hai perso nel gioco del tempo, sempre destinati a ritrovarvi, sempre destinati ad unirvi e sempre destinati ad amarvi.» disse con voce strozzata mentre Alex sorrideva e poggiava la sua mano su quella della ragazza, ora a cingergli il viso.
«Ti ho trovata, vero? Finalmente ti ho trovata.» bisbigliò il ragazzo e, poi, si abbassò su di lei, unendo le labbra a quelle della ragazza in un bacio così dolce da far tremare le gambe ed i cuori, da spegnere la mente e la ragione.
Come se un alone di pura luce li avvolgesse, come se quella labbra avessero trovato la fonte inesauribile di vita e giovinezza, come se quei due cuori avessero trovato le abili mani che ne avrebbero tracciato e sfiorato le corde in un suono d’amore, unico e vero.
Come se due metà si unissero, completandosi e trovandovi la dimora perduta, il calore perduto, la gioia assopita ma mai dimenticata.
Purtroppo, però, il loro tempo era scaduto.
Iris si staccò da lui a malincuore e lo guardò con gli occhi lucidi.
«Non ci siamo nemmeno scambiati i numeri, come ci rivedremo?» gli chiese triste.
Alex scese ancora sulle sue labbra dove le lasciò un casto bacio, poi, a pochi millimetri e con gli occhi puntati negli occhi, le disse «Ti troverò io, ti ritroverò sempre, Iris. Sempre e per sempre, ovunque tu sia, ovunque tu vada. Ricorda, per sempre.» ed un ultimo bacio suggellò un amore scritto nel fato, nato millenni prima ma destinato a viversi e ripetersi per sempre.
Due anime divise trovavano la propria metà, la luce incontrava l’oscurità ed, insieme, si completavano, donando l’equilibrio al mondo ed al loro cuore.
La mancanza senza volto scompariva per lasciar spazio alla luce dai contorni netti e definiti.
Il tempo si era ritrovato e loro si sarebbero sempre trovati, in ogni angolo della terra.
Si sarebbero sempre trovati, nei loro cuori e nei loro sogni.
Per sempre.

È qualche anno ormai che le canzoni di Elisa hanno un forte impatto su di me, spesso divenendo colonne sonore di alcuni periodi della mia vita; periodi particolari, come quello in cui mi ritrovai a camminare ad un metro da terra e tutto mi sembrava meraviglioso.
Un periodo in cui i colori mi sembrarono sgargianti, i profumi leggeri e floreali, il sole tepido e brillante come sono i suoi raggi in una splendida primavera inoltrata.
Era primavera, in effetti, quel periodo in cui…
M’innamorai follemente, forse per l’ultima volta.

In quel periodo, vedevo tutto nelle sue tonalità più forti e più vere, ma vedevo solo una parte dell’arte che è ciò che ci circonda.
I colori dei fiori erano brillanti, il loro profumo forte e fiorito, i raggi del sole tiepidi ma non eccessivi, gli insetti e gli uccellini erano una splendida parte della natura che si risvegliava e germogliava nuovamente, per poi fiorire in tutta la sua maestosità di colori e profumi e sensazioni.
Era tutto rosa.
Rosa, un colore che mi piace solo nella sua tonalità pesca a dipingere i petali di un fiore che da questo colore – il rosa – prende il suo nome.
Rosa. Il cielo era rosa, il vento era rosa, l’amore era rosa, io ero rosa.
Felice, fittiziamente felice.

In quel periodo ero solita ascoltare “Anche se non trovi le parole” della sopracitata Elisa Toffoli.

“E’ pur sempre bellissima un’emozione, con le cadute e tutto il male; come una musica, come un dolore lascia il suo segno e non si fa scordare. L’anima, in ogni sua imperfezione,  ti fa cadere e rialzare, seguire logiche senza ragione, prendere e andare nel nome…
Anche se non trovi le parole, hai girato il mondo dentro a un cuore.
Nessuna replica, poco potere mentre decidi se ti puoi fidare. Il tuo momento ti viene a cercare, puoi solo credere – forse saltare – come un elastico […]”

Camminavo spensierata ed ogni cosa – ogni singola cosa – era leggera e da affrontare con un sorriso.
Un’ora in più sul lavoro? Sorriso, nel cuore e sulle labbra.
Un cambio d’orario con le lezioni private che davo ad alcuni ragazzini – con conseguente corsa affannosa? Sorriso, nel cuore e sulle labbra.
Un’uscita mancata? Un bidone di un’amica? Tutto maledettamente tranquillo, nessuna rabbia o dispiacere.
E nessuna nuova parola vergata su fogli bianchi.

L’ispirazione mi aveva abbandonata. Completamente.

Lì per lì non ci pensai. Avrei scritto dopo, più tardi, entro qualche giorno…
Tanto c’era lui, il suo sorriso, i suoi baci, i suoi messaggi, le sue telefonate… Lui, lui, lui.
Era Estate. Un’estate d’amore, felice e spensierata.

Poi, però, dopo l’Estate arrivò l’Autunno.
L’Autunno. Da sempre sinonimo di caducità e caduta, bellezza sfiorita e fiori appassiti, vento freddo e profumo di foglie cadute.
E come quelle foglie, anche io sono caduta. E mi sono fatta a pezzi.

Tutto divenne scuro. Non c’erano più i profumi dei fiori colorati, ma l’odore di bagnato delle foglie cadute sul marciapiede.
Non c’erano più i tiepidi raggi del sole, ma i venti gelidi e la pioggia fredda e copiosa.
Gli insetti che prima svolazzavano dando colore – le farfalle – ora era divenute marroni cimici dalle ali stridenti.
Gli uccellini avevano smesso di cantare e tutto mi appariva freddo, morto e cupo.
Come il mio cuore.

Ma l’ispirazione era tornata.
Forte e rigogliosa, come una fenice la mia ispirazione era rinata dalle ceneri della primavera e dell’estate del mio cuore ed aveva tramutato il dolore e la sofferenza in nere parole d’inchiostro scuro stilate su candidi fogli lunari.

Scrissi.
Scrissi moltissimo.

Le poesie sembravano nascere dall’inchiostro della penna, con vita propria.
I pensieri vorticavano veloci e la mano li seguiva lesta nell’imprimere ognuno di essi indissolubilmente su quei fogli chiari.
La tristezza divenne lacrima, la lacrima divenne idea e l’idea divenne racconto.
Racconti, storie, romanzi, poesie, saggi, fan fiction… Tutto, tutto diveniva opera.
Ed io ero triste, sola, ammaccata ed infelice.

Poi, la scrittura mi curò.
L’Autunno mi cullò nel crogiolare d’infelicità in cui nuotavo, ormai, senza alcun peso sul cuore ancora spezzato.
L’Autunno divenne rinascita.
Rinascita scura e profonda, come l’oceano che, proprio nelle sue profondità, cela inestimabili tesori.

Scrissi così tanto da sanguinare ed intorpidire le mani.
Riempii fogli e fogli, pagine di word, block notes e post it. Ogni superficie divenne preda e testimone della mia mente, del mio cuore, del mio animo ferito e della mia rinascita.
Scrissi come mai avevo fatto in vita mia.

Mi ripresi, gradualmente.
Piano, la sofferenza e le lacrime lasciarono il posto alla rassegnazione ed al viso asciutto.
Ma, a volte, le lacrime rimangono incastonate fra le ciglia, ricordi perpetui di un dolore profondo e non più pronto a rivedere il mondo.

Poi, la rassegnazione divenne cinismo, il viso asciutto divenne un viso truccato.
L’amore fa male.
L’amore esiste soltanto per alcuni.
L’amore non è per tutti.
Io sono la mia metà. Una mela completa, dimenticata dagli Dei e lasciata vivere sulla terra, destinata alla completezza incompleta, per sempre.
Pecco di superbia, vero?

L’amore è nel destino di tutti. Lo è? Lo è per davvero?

Perché, perché l’amore mi rende sterile? Sterile verso l’arte della scrittura, sterile verso gli aspetti della natura che, sotto la loro patina d’autunno perenne, nascondono un’anima meravigliosamente ricca?
Da innamorata vedevo tutto perfetto, “rosa e fiori”. Da delusa e amareggiata ho ricominciato a vedere quegli aspetti della natura disdegnata dalla gente, quella che appare brutta e decadente ma che, ne sono convinta, al suo interno racchiuda la bellezza più pura e splendente.

Sono anche io così, oramai.
Nascondo uno scrigno segreto di bellezza e amore sotto il velo d’autunno perenne che trucca il mio volto e controlla le mie parole.
Ogni tanto mi chiedo se arriverà mai il Principe Azzurro a tagliare i rovi che precludono la vista alla Principessa che è in me.

Non mostrare emozioni.
Fa’ che il tuo viso sia una maschera senza espressioni.

Controllati.
Non mostrare le tue debolezze, le tue paure e le tue sofferenze.
Pesa le parole ed usale per alzare il tuo muro.
Ferisci, prima d’esser ferita.

Sii sempre gelida; nulla deve scalfirti.
Pesa gli sguardi ed impara a celare l’anima dietro ai tuoi occhi.

Gli occhi non mentono. Mai.

“Il volto è lo specchio della mente, e gli occhi senza parlare confessano i segreti del cuore.”*

Gli occhi, quelli mi fottono sempre.

*San Girolamo

Titolo: citazione del grande Luigi Pirandello.

Ho sempre creduto che, finita la scuola, si sarebbe aperta davanti la mia strada, quella giusta, quella pronta per me.
Ho sempre creduto che finita la scuola sarei divenuta adulta, responsabile, indipendente, autonoma.
Invece… Invece mi ritrovo a sentirmi un’eterna adolescente.
Mi sento ancora quella diciassettenne che riponeva speranza e fiducia nel futuro, senza rendermi conto che quel futuro è arrivato ed è divenuto già passato.
Vedo amici ed amiche sposarsi, andare a convivere, metter su famiglia… Ogni giorno una è incinta, un’altra si sposa, un altro fa progetti di vita. Ed io mi sento piccola.
“Sono troppo giovane per andare a convivere!”
“Sono troppo giovane per sposarmi!”
“Sono troppo giovane per metter su famiglia!”
Il tutto ancora nell’ottica che il futuro che programmo non sia arrivato, che ho tempo; ma di tempo non ce n’è mai abbastanza.
Quelli che, più grandi di me, staranno leggendo queste parole mi prenderanno per una stupida. “Sei giovane veramente a ventiquattro anni” staranno pensando; eppure, quando mi fermo a riflettere capisco che il mondo sta andando avanti senza di me, che il tempo scorre lasciandomi indietro.
Ancora penso a cosa farò quando sarò grande.
Il tempo passa ed io resto ferma, immota, immutata ed immutabile.
I mesi trascorrono, gli anni passano ed io mi ritrovo ad avere un pugno di mosche in mano.

L’altro giorno guardavo un film in televisione. Parlava di due vecchie compagne di classe un po’ svampite che intraprendevano un viaggio per recarsi alla reunion dei compagni di scuola, la famosa rimpatriata dei “10 anni dopo”.
Ho provato a mettermi nei loro panni. Non sono ancora passati dieci anni per me dalla fine del liceo ma, ora come ora, cos’avrei da raccontare io?
Dal punto di vista sentimentale sono regredita a stadio elementari. Mi conosco, so che andrò peggiorando nel mio cinismo e continuerò a rifugiarmi nei libri fino a quando non morirò in una vecchia casa di campagna, circondata da decine di gatti che soffriranno la fame quando me ne andrò.
Punto di vista lavorativo? Mi verrebbe da ridere, ma sarebbe una risata amara.
Cosa fa questa blogger nella sua vita?
Legge, scrive romanzi, racconti e poesie, e dirige un magazine online no profit di cultura asiatica.
Bello. E sarebbe bello davvero se fosse qualcosa di concreto.
Se l’essere articolista e caporedattrice di questa splendida rivista fosse un lavoro, ad esempio.
La questione è una sola: aiutati che Dio ti aiuta.
Ora io mi chiedo, tutto il sacrosanto sbattimento che sto facendo da quando i miei genitori hanno deciso di mettermi al mondo non è ancora servito per darti un’idea generale del mio aiutarmi? Dov’è finita la tua parte, Dio? Io mi sto dando da fare, ma il tuo aiuto mica lo vedo!
Poi mi chiedono se sono cattolica/cristiana/ortodossa/buddista e chi più ne ha, più ne metta.
Sono sincretista. Credo in molte cose e credo soprattutto nella natura, nella Luna e nella magia.
Sono pagana, cristiana, buddista, wiccan, strega… Chiamatemi come volete. Sono una che crede in un Dio cristiano, buddista, taoista ecc. ma che è stufa di non vedere mai un aiuto concreto, che è stufa di vedere come la meritocrazia sia un termine in disuso anche nella fede.

Potrebbe andare peggio, mi dico spesso. Potrebbe andare molto peggio.
È vero, ma potrebbe anche andare meglio, cacchio! Molto meglio.
Ora, io sono una pessimista e fatalista per natura, però… A creder sempre che, alla fin fine, meglio stare così che stare peggio, che ci guadagno? Meglio essere ottimista e poi ricadere al suolo quando la realtà ti sbatterà il suo schifo in faccia, piuttosto che buttarti a volo d’angelo da sola ancora prima.
Io ci provo ad essere ottimista. Ci provo ad aver fiducia nelle persone, a non essere diffidente e non aver paura di essere irrimediabilmente ferita, ma poi… Goddess, poi tutti i coglioni capitano a me!
Sono una bella ragazza – questo è ciò che mi dice la gente ed un po’, ormai, me ne sono convinta – sono, come mi ha definito un ragazzo poco tempo fa “simpatica, colta e con dell’umorismo e del sarcasmo notevole. Hai la lingua biforcuta, ma le tue risposte orgogliose mostrano la forza che c’è in te ed anche la tua fragilità. Sei un tipo in gamba, ed una ragazza davvero bellissima.”
Credo di non averlo ringraziato abbastanza, quel tipo. Mi sono limitata a schernirmi, perché i complimenti, come sempre, mi destabilizzano. Non so mai che rispondere.
Comunque…
Ora, perché mi ritrovo sempre a sentirmi, invece, un pesce fuor d’acqua?
Dio, è così frustrante e triste metter su la faccia sorridente ogni volta che esco, ridere ed essere di compagnia quando tutto attorno a me è sfocato e privo di spessore.
Mi sento sempre nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata.
Non mi piace bere alcolici, fare la smorfiosa e comportarmi da troia – passatemi il “francesismo”, ma quando ce vo’, ce vo’. Per me il sesso non è un gioco e non vado a letto con qualcuno solo per fare attività fisica, ci pensano i chilometri che macino col running.
Non mi piace fare l’oca senza cervello, ridere a battute pessime e passare la serata tra una canna ed un drink. Io non faccio parte di questo schifo di generazione.

“Da quando il sesso è diventato facile, l’amore è divenuto impossibile.”
Sacrosante parole.
Ho letto questa “massima” su non mi ricordo quale social, ma ricordo perfettamente il senso di comprensione che è scaturito in me mentre, per dieci minuti buoni, leggevo questa frase.
Non mi interessa se sembrerò una sfigata-frigida, ma non mi piace aprire le gambe per sport.
Eppure, terrorizzata come sono dall’amore, questa sarebbe la via più facile, no?
Sono una contraddizione unica, che volete che vi dica, ma rimango del mio parere.
Quello che ho fatto, faccio e continuerò a fare sarà sempre dettato da un sentimento.

Io non sono come la maggior parte delle ragazze della mia età.
Preferisco passare il sabato sera nella biblioteca della mia città dove si organizzano incontri nei quali si leggono le poesie di Leopardi accompagnate al pianoforte dai Notturni di Chopin. Il venerdì sera preferisco passarlo a teatro tra balletti ed opere shakespeariane. Piuttosto che andare in discoteca a sentirmi fracassare i timpani da quel rumore, preferisco ascoltare Mozart, Beethoven, Shostakovich, Chopin, Brahms, Verdi, Bach, Saint-Saëns, Mussorgsky, Prokofiev, Tchaikovsky; la musica d’ambiente neoclassica degli Ashram e degli Apocalyptica, quella gotica dei Nox Arcana; il Rock and Roll di Elvis Presley; gli assoli dei Dire Straits, di Simon and Garfunkel, di Slash nelle mitiche ballate dei Guns and Roses; le canzoni rivoluzionarie dei Bauhaus, dei Joy Division, di David Bowie; la musica neogotica dei Within Temptation, dei Nightwish, degli Him con la voce roca e sensuale di Ville Valo; le splendide melodie di Ryuichi Sakamoto, Keiko Matsui, Einaudi ed Yiruma…
Preferisco perdermi tra le pagine bianche di word o, meglio ancora, di un quadernetto ormai quasi pieno, vergare le parole, una dopo l’altra, col nero dell’inchiostro piuttosto che perdermi sul fondo di un bicchiere.
Sarò strana, sarò diversa… Sarò quel che sarò, ma questa sono io, punto.

E questo io ora si sente un po’ più leggero, finalmente.
Ancora in collera col mondo e con l’ingiustizia, ma le parole uscite dalla mia testa e trascritte su questa pagina hanno lasciato un po’ di spazio al conforto, quel conforto strano che ti prende quando ti sfoghi, quel senso di svuotamento che, però, ti fa tirare il respiro per qualche minuto, respiro che tirerò anche io fino alla prossima volta in cui tutti i miei pensieri staranno per eruttare dalla mia mente ed io avrò bisogno di una pagina bianca, di smettere le mie mille maschere e di essere solo me stessa; perché la vera me stessa nel mondo sarebbe calpestata da tutte quelle anime nere che ci vivono, la vera me stessa non esiste che tra queste pagine, quando torna a casa e smette i panni della ragazza felice, solare e col sorriso sulle labbra ogni volta che qualcuno la guarda; ma se davvero qualcuno anziché guardarla si decidesse ad osservarla… Beh, allora vedrebbe la tristezza, lo sconforto ed il senso di non appartenenza che le attanagliano la cassa toracica, vedrebbe dietro i falsi sorrisi e le false risate, vedrebbe dietro le maschere di cristallo che tutti i giorni indossa.

Dove sei, osservatore?

Sognando Londra

London.
Come potete ben vedere dal titolo, il mio sogno più grande – almeno al momento, dopo quello di divenir scrittrice, of course – è quello di mollare tutto, ciapare il primo aereo per Londra con quattro cose nella valigia – ed un libro, ovviamente – e ricominciare daccapo, la volta giusta.

Quanti di noi sognano una cosa del genere? Abbandonare quella che vediamo e sentiamo come una vita di costrizioni, soffocante e senza stimoli, per andare via, lontano – più o meno – e trovare finalmente quel famoso posto di cui tutti parlano: il nostro, il nostro posto nel mondo.

A giugno ho finito di lavorare. L’azienda per cui ero impiegata ha avuto dei problemi di locazione e non so che fine abbia fatto. Peccato, era un bel progetto, giovane e con tante possibilità.
Uno dice «Ma dannazione, a malapena trovi qualcosa che si possa definire lavoro e questo “se ne va” così, senza preavviso?»
Già, perché la qui presente l’ha saputo circa tre giorni prima di dover levare le tende, dopo che due sere prima aveva versato il denaro per il viaggio a Londra che da tempo programmava e per il quale da tempo risparmiava.
Fantastico! Lo stipendio era una miseria e mi sarebbe servito anche quello dei mesi successivi per starci dentro, ed invece mi sono ritrovata con le chiappette per terra nel giro di settantadue ore.
Una meraviglia, non c’è che dire.
«Non mollare, ce la farai.» mi son detta. «Conosci tre lingue straniere, utilizzi il pc ed i suoi componenti come fossi il polipo della pubblicità di quel sito di prenotazione, sei giovane, sveglia e con voglia di fare… Non abbatterti.»
È vero. Sono giovane ed ho una buona conoscenza di ben tre lingue straniere, ma – a quanto pare – se non sei l’amica della cugina della zia del fratello del cognato… Non vali nulla. È frustrante vedere persone che sanno a malapena contare avere un lavoro a tempo indeterminato, nel quale fanno niente tutto il giorno e prendono i loro bei soldini a fine mese, mentre tu ti sbatti per una miseria ed ora neppure quella, quando potresti dare cento volte più di loro – non è essere immodesta e presuntuosa, è essere realista perché, diciamocelo, sappiamo tutti quanto ognuno di noi valga, ed io valgo, come dice la pubblicità della Pantene. Era la Pantene? Non importa, continuiamo.
Alla fine, non credo di chiedere molto… Non intendo avere il sedere di trovare un lavoro superpagato, nel quale fare carriera senza muovere un dito e vivere di questo genere di rendita a vita facendo sì che il mio cervello si ammuffisca lentamente.
Vorrei solo trovare un lavoro che mi dia la possibilità di sfruttare le mie capacità, che mi faccia mettere un po’ di soldi da parte e – soprattutto – mi faccia ottenere quella dannata esperienza che tutti cercano ma che nessuno ha. Io voglio andare avanti con le mie forze e poter realizzare i miei sogni, e due di questi sono divenire una scrittrice ed andare a vivere a Londra.

Cosa fare per realizzarli? Nel primo caso, sto tentando. Credo molto nelle mie capacità, ma non si smette mai di imparare e migliorare. Per questo partecipo a concorsi e, nel frattempo, scrivo su vari siti di scrittura nei quali poter scambiare opinioni con gli altri iscritti. Per questo continuo a leggere come una forsennata… No, lo ammetto. Leggo perché adoro farlo u.u
Comunque, sto cercando di migliorare seguendo critiche e consigli, impegnandomi su più fronti e finendo il mio romanzo che, una volta terminato, lo giuro… Sarà spedito a tutte le case editrici che ho sempre sognato di vedere accanto al mio nome; perché, diciamocelo – again! – se la Mondadori ha pubblicato i libri della D’Urso, la mia quadrilogia deve pubblicarla per forza.
E per il secondo sogno? Dio, quanto mi piacerebbe prendere le poche centinaia di euro presenti sul mio conto ed andare via oggi stesso! Il problema? Quelle poche centinaia di euro mi darebbero un calcio nel didietro entro poche settimane ed io dovrei tornare a mani vuote e con l’animo sotto i piedi. Per questo cerco un lavoro. So, lo sento, che il mio posto non è qui… È in quella città che sento d’appartenere, è lì che ripongo i miei sogni di carriera, di vita, d’amore e chi più ne ha, più ne metta. Quella città mi ha rapito il cuore e se lo tiene ben stretto.

Non credete io sia un’ingrata che abbandona la propria famiglia inseguendo strambi sogni di gloria.
Amo la mia famiglia e lo scoglio più duro sarebbe proprio il distacco, però ho ventiquattro anni, è tempo che io mi allontani un po’ dalle mie radici, non staccandomene, solo allontanandomi, cercando finalmente la mia strada ed imboccandola.
Vorrei davvero trovare quel famigerato posticino nel mondo che è fatto per me, solo ed esclusivamente per me.
Vorrei realizzarmi e smetterla di sentirmi sempre nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata. Tutta questa frustrazione, questo malcontento… Tutto questo mi sta distruggendo. Ho voglia di vivere, vivere davvero. Perché, siamo onesti, fin’ora quasi tutti noi – parlo della maggior parte dei miei coetanei – stiamo solo sopravvivendo, arrancando in questa giungla che ci respinge.
L’Italia, ormai, è solo un nome ed un potenziale che mai verrà sfruttato. È divenuta una terra arida per noi giovani, non per colpa sua ma a causa di chi la governa.
Non c’è vita ora e non ce ne sarà nemmeno in un futuro abbastanza prossimo.
Non voglio ritrovarmi trentenne, con un lavoro saltuario, ancora a casa dei mie e con la frustrazione a fior di pelle.

Voglio una vita mia, una vera vita mia. Voglio poter essere indipendente, autonoma, svegliarmi la mattina sapendo di star mettendo ogni giorno un nuovo mattone per quella che sarà la mia vita.
Ora, purtroppo, mi sveglio solo pensando a quanto mi senta soffocare da questa situazione, a quanto io mi stia perdendo d’animo giorno dopo giorno, a quanto questo malcontento mi stia portando via,  alla deriva della mia vita.

Voglio cambiamenti, dannazione, e li avrò.

Voglio che la vita vera, quella a cui dicono di prepararci appena finita la scuola, si apra davanti a me con prospettive più rosee perché me lo merito, cacchio, ce lo meritiamo. Ce lo meritiamo, ragazzi, tutti noi.
Non perdiamoci d’animo.
Presto, il sogno di andarmene da qui, di mollare tutto sarà realtà. Lo sento.
Il giorno in cui prenderò un biglietto a caso per Londra, solo andata, è vicino. E quel giorno sarò libera.
Libera.
Finalmente.
Libera di sbagliare e capire, di fare la cosa giusta, di imparare e crescere, di avere delusioni e di essere felice.
Libera, solo libera.

“Sapevo che saresti stata troppo orgogliosa per tornare, così ho deciso di venire a prenderti.” – L’amore ai tempi del colera, Gabriel García Márquez

Orgoglio. Amor proprio. Dignità di donna.
Ho sempre visto tutto ciò dietro al mio comportamento.
Ho perso amori ed amicizie, tessendo la ragnatela di giustificazioni “per principio”.
Ho sofferto lontananze forzate, a causa di questo amore per me stessa.
Eppure… Per me è vitale. Come l’aria che respiriamo.
Non è superbia, è amore. Un amore malsano e trasfigurato per la mia persona.
“Perché devo lasciare che gli altri mi feriscano? Io non lo merito”. Questa la mia giustificazione. Solo ora, però, mi accorgo che io stessa mi sono ferita, da sola, più volte.
Proprio il motivo del mio muro d’orgoglio mi si è ritorto contro.
“L’orgoglio è la virtù dell’infelice” diceva François-René de Chateaubriand. Mai parole furono più sagge.

Perché? Perché quest’orgoglio smisurato?
Cosa si cela dietro questo veleno che annienta l’anima senza rendercene conto?
Paura? Sì, paura.
La paura di soffrire, di non essere adeguati, di essere umiliati.
Ho sempre guardato dall’alto in basso quelle persone che riuscivan0 a mettere a tacere l’orgoglio per seguire i sentimenti. “Sciocchi” ho sempre pensato, dall’alto della mia superiorità. Io non mi lascio abbindolare. Non mi farò mai mettere i piedi in testa. Mi voglio troppo bene per farmi calpestare.
Infatti.
Mi sono calpestata da sola.
Eppure non riesco. Non riesco a metterlo da parte. Perché? Come si fa?

Tutta colpa di quei romanzi d’amore che sto leggendo nell’ultimo periodo.
Tutta colpa loro se ora mi affliggono questi dubbi amletici!
Donne che si umiliano per amore, costrette dai loro sentimenti a mettersi alla mercé degli uomini.
Eppure… Queste storie hanno dei lieti fine.
Eppure… Queste donne raggiungono l’amore. Quello vero. Sono amate. E rispettate.
Come è possibile?

Leggevo un racconto poco fa.
Una donna è costretta a sposare il nemico di sempre a causa di suo padre, che l’aveva “venduta” per un debito di gioco.
L’uomo a cui andrà in sposa è borioso, viziato, arrogante. Tutto il meglio di un uomo, insomma. La umilia, la fa soffrire.
La vuole come moglie ubbidiente. Sottomessa in società come tra le lenzuola.
Voi direte, ma perché non scappa? Deve sposarlo a forza?
Tecnicamente, sì. Il contratto matrimoniale pone un vincolo: o il matrimonio, o la morte.
Bene, ed una persona sana di mente qui dice “E va beh, mi tocca!”
Io, invece, mentre leggevo e mi immedesimavo, avevo già tracciato nella mia mente il continuo della storia.
Vedevo me al posto di quella donna. Vedevo me che, pur di non sposare quell’odioso sottogenere maschile, mi uccidevo.
Fatalista, direte. Eppure è così. Io, scrittrice, avrei ucciso la protagonista, piuttosto che darla in sposa a quello lì. Invece lei, stoicamente, ha resistito.
Varie peripezie, gelosia estrema di lui, possessione e umiliazioni. Eppure… Si innamora. Lui, si scopre innamorato di lei da sempre. Aveva indossato una maschera di disprezzo proprio per il principio della volpe con l’uva troppo in alto.
Lei se ne innamora. Scopre di lui lati dolcissimi e gli dona la propria verginità.
Qui mi sono bloccata.
Io avevo già messo la parola fine circa quindici capitoli prima, all’inizio della storia, facendo suicidare la protagonista, in un segno di ribellione e libertà assoluta. Invece, ora, scopriamo che il perseverare di lei, l’ha portata alla felicità.
Come è possibile questa cosa?

Perché io avevo già messo il punto non vedendo le possibilità? Sono così cieca davanti ai sentimenti?
Già, l’orgoglio mi ha resa cieca.
Che sciocca che sono. Tutto ciò in cui credevo, tutto ciò su cui basavo i miei rapporti, si è sbriciolato tra le mie mani.
Si dice che l’ammettere d’avere un problema è il primo passo verso la soluzione e guarigione.
Bene, io ho capito d’averlo. Ho sempre pensato d’essere un tantino estrema… Ma non ci riesco. Non mi ci vedo nell’applicare ciò che ho imparato.

Una situazione del genere è in atto anche nella mia vita privata.
Ho avuto una discussione con un’amica, per una sciocchezza che a me è parsa una catastrofe. Mi pare ancora, se devo essere sincera. Beh, lei ha cercato di contattarmi a “botta calda” ma io mi sono negata. Troppo arrabbiata per pensare lucidamente ad un chiarimento. Poi il tempo è passato. Ora, con la fredda calma, riesco solo a tramare e pianificare vendetta. Che diavolo c’è di storto in me?
Una situazione che si può risolvere in una chiacchierata di quindici minuti, diventa un affronto al mio orgoglio.
E so anche come finirà! Io sarò troppo orgogliosa per andare da lei, lei troppo stupida per capirlo, e ci perderemo.
Ma la colpa, di chi è?

Le persone dicono tanto di conoscerti, eppure non sanno nulla di te.
Se davvero sapessero anche un decimo di quello che suppongono, verrebbero a cercarti dicendoti “Sapevo che saresti stata troppo orgogliosa per tornare, così ho deciso di venire a prenderti.”.

Ma questo, succede solo nei libri.

世の中は
地獄の上の
花見かな

~

Yo no naka wa
Jigoku no ue no
Hanami kana

~

In this world
We walk on the roof of hell
Gazing at flowers

Eccoci qua. Buona domenica a tutti :)
Oggi voglio scrivervi di un haiku, un haiku che adoro e che, ogni qualvolta io lo legga, mi tocca il cuore.

“Nel nostro mondo, camminiamo sopra l’inferno guardando i fiori” – Kobayashi Issa

Letteralmente, la traduzione sarebbe “camminiamo sull’orlo dell’inferno”, come potete ben vedere grazie alla traduzione in inglese qui sopra, ma noi prendiamo per buona la traduzione italiana officiale.

Bene, prima di passare alle domande vi scrivo qualcosa sull’autore.

Issa Kobayashi 小林一茶 (Kobayashi Issa) (15 giugno 1763 – 5 gennaio 1828) è stato un poeta e pittore giapponese.
Con Matsuo Bashō, Yosa Buson e Masaoka Shiki, rappresenta uno degli haijin più apprezzati e conosciuti al mondo.

Kobayashi Yataro nasce nel villaggio di Kashiwabara da una famiglia di agricoltori. Resta orfano di madre a tre anni, e viene cresciuto dalla nonna (che lo lascerà quando lui ne avrà quattordici). Cinque anni dopo il padre si risposa, e due anni più tardi nasce il suo fratellastro. Spedito dopo la morte della nonna a guadagnarsi da vivere a Edo (l’odierna Tokyo), torna ventinovenne al suo villaggio natale. La sua attività in quegli anni risulta poco chiara: il suo nome fu collegato a Kobayashi Chikua, della scuola di haiku Nirokuan, ma non è chiara la correlazione. Negli anni successivi viaggiò per tutto il Giappone, scrivendo moltissimo. Nel 1801 entra in disputa con la matrigna per l’eredità del padre. Si sposa piuttosto anziano, nel 1826, con Yao. Il 5 gennaio del 1828 (secondo il calendario occidentale) un incendio distrugge la sua casa; Issa muore pochi mesi dopo, senza neppure avere il tempo di vedere la bambina che sua moglie porta in grembo.

Scrisse più di 20,000 poesie, introspettive e descrittive, ancora oggi molto celebri. Nonostante questo successo, ebbe sempre molti problemi economici.

Il suo stile, non risentendo dei suoi numerosi problemi personali, mantiene una semplicità quasi fanciullesca, con un uso piuttosto libero anche di frasi colloquiali e termini dialettali. Tra le sue numerose raccolte, si ricordano Oraga Haru (“La mia primavera”) e Shichiban Nikki (“Diario numero sette”).

(Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Kobayashi_Issa)

Issa rimane e rimarrà sempre il mio poeta giapponese preferito. Amo i suoi haiku. Tutta quella correlazione con la natura e i suoi stati d’animo, quel misticismo intriso di religione e sentimento.. quel suo essere semplice e quasi fanciullesco.. Tutto questo, ogni volta, m’incanta.

L’haiku che dà il titolo al post è il mio preferito in assoluto. È così mistico e fatalista ma descritto con termini leggeri e soavi che quasi celano il significato tragico.

Credo che questa poesia abbia più chiavi di lettura. Io, personalmente, l’ho sempre letta con un occhio pessimista.

Nel nostro mondo, camminiamo sopra l’inferno guardando i fiori.
Tutti noi, ogni giorno della nostra vita, ci troviamo a camminare sopra ciò di cui abbiamo più timore e ciò che più ci possa tormentare ma, nonostante tutto, ogni giorno, non ce ne accorgiamo, rapiti dalla bellezza dei fiori. Tutti i giorni ci troviamo a pochi metri dall’atrocità assoluta, ma noi continuiamo a percorrere la nostra strada, rapiti dall’effimeratezza dei fiori.

La nostra traduzione di fiori, deriva dall’originale Hanami – presente nel testo. Va specificato che fiore, in giapponese, si dice hana mentre l’hanami è letteralmente “l’ammirare i fiori” ossia la tradizionale usanza giapponese di godere della bellezza della fioritura primaverile dei Sakura, i ciliegi da fiore giapponese.

Ora, se ci ricolleghiamo al significato che i Sakura hanno per i giapponesi, possiamo capire da dove derivi l’effimeratezza di cui vi parlavo.

In giappone, il fiore di ciliegio è simbolo di caducità. La caducità della vita.
Il fiore di ciliegio rappresenta la natura effimera e transitoria della vita, perché la sua fioritura dura molto poco. Non fa in tempo a fiorire e a far godere della sua estrema bellezza, che il vento già lo sta trasportando via, lontano, staccandolo dall’albero, verso luoghi sconosciuti.

“Il richiamo del fiore di ciliegio va oltre la sua evidente bellezza, a colpire è la sua caducità, il suo essere in piena fioritura solo per pochi giorni.
Il vero senso della tradizione hanami non consiste nel guardare lo spettacolo offerto dalla bellezza dei fiori sull’albero ma nell’osservare con una punta di tristezza e commozione come cadono dall’albero, trasportati dalla brezza primaverile nel breve viaggio che li separa dalla terra ancora fredda. Un modo dolce e allo stesso tempo malinconico per ricordare che ogni vita è destinata a finire.” (http://www.marcoforti.net/sakura-fiore-di-ciliegio.html)

Ecco perché concepisco la poesia in questa visione pessimistica.

Noi passiamo ogni nostro giorno a camminare sul baratro dell’inferno dove anche un soffio di vento, un breve e piccolissimo soffio, può farci precipitare, ma non ce ne rendiamo conto – o forse non vogliamo rendercene conto – perché rapiti dalla bellezza di ciò che abbiamo intorno. Una bellezza effimera, perché destinata a sparire quando la nostra – breve – vita avrà fine. Siamo in bilico. In bilico tra un mondo fatto di bellezza e il vuoto, il vuoto assoluto. In bilico tra la vita e la morte, una linea sottile, troppo sottile.

Ogni volta che do forma a questo haiku, nella mia mente si disegna un’immagine. Un’immagine divisa a metà: una linea scura e netta taglia in due il mio dipinto immaginario. Sopra, una distesa di ciliegi e un manto erboso color cielo al primo crepuscolo: un’infinità di piccoli petali rosa, soffici e leggiadri. Sotto, un baratro simile alle miniature dantesche. Un vuoto a forma conica, terribile e desolato.
Sopra il colore della gioia, sotto il colore del nulla.

Questa poesia è così: con parole dolci e leggere descrive qualcosa che dovrebbe farci tremare le gambe: la fine che si cela proprio dietro l’angolo, o meglio, sotto ai nostri piedi.
Ma i ciliegi son troppo belli, e ci catturano lasciando vagare la nostra mente. Ci trascinano in quella che definisco “a beautiful lie” (già, come la canzone): una splendida bugia. Come la vita. Tutto è una splendida bugia.

Oltre a questa visione, però, potrebbe esserci quell’inversa: la vita è così piacevole e piena di bellezza che non diamo peso al fatto che sotto i nostri piedi ci sia l’inferno.

Tutto sta a voi. Scegliete il bicchiere mezzo pieno o quello mezzo vuoto?

Personalmente trovo la poesia più ricca di significato e più vicina alla mia filosofia di vita vedendo il bicchiere mezzo vuoto.
Ma in fin dei conti, cosa importa? I fiori di ciliegio sono così splendidi da osservare che anche quel breve momento può riempirti il cuore di una tale gioia che tutto il resto… è solo rumore.

“Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti.”
Questa frase mi è sempre stata di grande impatto. Non importa quante volti io riguardi quel film, ogni volta che sento pronunciare questa frase mi sobbalza il cuore.

Bram Stoker’s Dracula, anno 1992 per la regia di Francis Ford Coppola. Un film che ho sempre amato e che continuo ad amare.
Ok, già vedo nasi storcersi. Lo so anche io, ci sono grandi differenze con il libro. Vero, verissimo.
Io parto sempre da questo presupposto:  il libro è il libro, il film è il film.
Il libro è un romanzo ottocentesco che inaugura il periodo di massimo splendore del genere gotico, dove i mostri della notte e non, sono visti solo in una chiave, quella mostruosa. Il film, invece, è un omaggio al genere ottocentesco conosciuto come romanticismo. I mostri vengono visti in chiave umana e trascendente, non sono più bestie che incarnano il moralismo di un’epoca in cui le donne dovevano essere “devote”, un’epoca in cui il sesso era un tabù e la differenza tra i sessi era ben più che marcata.  Il romanzo gotico utilizza la chiave mostruosa per poter bandire comportamenti e immoralità presenti nel periodo ottocentesco e non. Ogni mostro deve esser visto come la personificazione dell’immoralità tanto cara agli occidentali dell’epoca.

Il Dracula – libro – presenta un mostro senza traccia di umanità, che vive per il sangue e che non ha nessuna brama amorosa per la nostra Mina.
Monsieur Coppola, invece, ha voluto donare l’umanità al tanto temuto ed odiato Conte. Vi ha introdotto la vicenda della reincarnazione di Elisabeta – moglie di Dracula umano – e il suo amore puro e incontaminato che varca davvero l’oceano del tempo per ritrovare l’amata. Il film ci presenta un Dracula che vuole evitare le sofferenze al giovane Harker – nonostante suo nemico – cercando di impedirgli di visitare il castello – cosa che lui, ovviamente, non ascolta – per evitare di imbattersi nelle sue mogli e in chissà quali altre atrocità. Troviamo un Dracula spinto dalla forza del suo amore per la moglie, un Dracula umano che piange ogni qualvolta venga pronunciato il nome della sua “Principessa”. Un Dracula che non forza la giovane Mina ma che la corteggia, galantemente. Un Dracula restio alla dannazione della ragazza e un Dracula che si lascia uccidere pur di evitare le sofferenze eterne all’amata.

Per quanto adori il libro – ne ho più versioni sia in lingua che in italiano (soprattutto in italiano, del quale ho cinque o sei versioni, tradotte ognuna da diverse personalità) – devo ammettere che questa umanizzazione, questo filone romantico – inteso come corrente letteraria – mi affascina moltissimo.

L’eroe antieroe, l’amore che supera ogni confine, la bellezza così tanto decantata e la profondità dei sentimenti, mi travolge in maniera assoluta.

La frase che apre il post – che è anche il titolo del post stesso – è ciò che racchiude l’essenza del film e del personaggio principale.

Nonostante sia una divoratrice di romanzi gotici, non posso che essere travolta e affascinata da questo amore puro e sofferto.
Può un amore così potente esistere?
Tralasciamo la questione della reincarnazione  e dell’immortalità per un secondo (tanto la riprendo tra un attimo)  e parliamo solo del sentimento. Può davvero un sentimento essere così forte e duraturo? Può davvero esistere così tanto amore? Si può davvero amare in modo così assoluto e distruttivo qualcuno?

Se davvero così fosse, come si può perdere tutto?

Possibile che siamo su questa terra solo per un lasso di tempo così breve e che tutto ciò che proviamo venga perso nel nulla? Cosa c’è dopo? Dove finiscono questi sentimenti?

Se potessimo reincarnarci anche noi, andremmo alla ricerca del nostro amore passato?
Ogni volta che guardo questo film mi piace poter credere a quest’idea.
Non siamo solo un corpo che muore, un’anima che lascia la terra per qualsiasi posto ognuno di noi sia portato a credere. Non può essere così. Mi sembrerebbe davvero una presa in giro. Tutta la sofferenza, tutto il dolore, le lezioni imparate, l’amore donato e l’amore ricevuto.. non può essere cancellato tutto così..

Mah, forse mi lascio travolgere troppo. Saranno le musiche, i costumi, le battute.. non so, sarà che mi identifico sempre in qualcuno quando guardo i film o leggo i libri, sarà che sono maledettamente empatica.. Sarà quel che sarà, ma io amo questo Dracula. Invidio la donna da lui così amata.

A volte vorrei essere anche io immortale, c’è così tanto da imparare e così poco tempo per apprendere..

Bene, dopo questo strano post vi lascio un video stupendo che ho, casualmente, trovato sul tubo.
La canzone è una cover degli H.I.M. – Join me in death – cantata qui dal gruppo Gregorian insieme alla bravissima Sarah Brightman, e le scene sono invece tratte dal film di cui abbiamo appena parlato. Le scene mostrano la storia d’amore travolgente e tormentata della bella Mina e del maledetto Conte.

Alla prossima!

Mmh.. riflessioni.
Ultimamente sto riflettendo troppo, la testa mi va a fuoco! Ahahahah
A parte gli scherzi, è un periodo davvero strano questo.. Penso e ripenso, penso e ripenso.. Non che sia una novità questa. Sono sempre stata così:  ore e ore a rimuginare sulle cose, giorni e giorni afflitta dallo stesso pensiero.. Il bello è che, dopo averci riflettuto una giornata, trovata una conclusione con tanto di consiglio finale, mi ritrovo il giorno dopo al punto di partenza! Come se la conclusione alla quale ero arrivata il giorno prima non fosse abbastanza, come se mancasse qualcosa, una parte.. Così rimugino e rimugino, con tanto di fronte corrucciata e rughe ben in evidenza.

Ultimamente sto addirittura peggiorando. Ogni qualvolta io mi ritrovi a riflettere sui miei comportamenti e sul mio modo di pensare, finisce che vado a ricercarne casi simili nella psicologia, i classici casi clinici. Cerco sempre una risposta, o meglio un movente, nella psicologia, scoprendo ogni giorno una fobia nuova o una qualche strana affezione della mia mente. Mi scopro ciclotimica se non con qualche disturbo bipolare, depressa, philophobica, chiraptofobica, ipocondriaca, ansiotica.. Un bel mix! Ogni giorno ne aggiungo una alla lista!

Secondo voi, da cosa deriva tutta questa paura? Da cosa deriva il voler cercare la radice in un male psicologico? È forse un voler scaricare la colpa su qualcosa di congenito e quindi non causato da noi stessi? È il cosiddetto capro espiatorio? Non so. Forse alla fine sono io stessa che me ne autoconvinco. Sono io stessa che mi son creata questo circolo vizioso.

Penso solo che..
Penso solo che penso troppo.

Eccomi qua, mentre continuo un paio di riflessioni che mi sono spuntate in testa ieri notte mentre ascolto “Here without you” dei Three Doors Down. Qualcosa di allegro, uh? Ahahahah

Ieri sera, mentre ero a letto, ho iniziato a pensare un po’ qua e là.. e mi sono rattristata. Ogni volta che mi metto a riflettere sui miei problemi esistenziali non trovo mai un’uscita, anzi, si complica ancor di più l’intricato labirinto di pensieri sconnessi che è la mia fragile mente. Riflettevo su ciò che voglio. Ciò che voglio dalle persone.

Ostrega, voglio provare un po’ di sentimento! E che cavolo! Ci rendiamo conto in quale cinico e freddo mondo viviamo? Io stessa sono arrivata a convincermi che è meglio mettere a tacere ogni emozione per evitare di star male. Non c’è sciocchezza più assurda.

La vita è emozioni. Qualsiasi, indistintamente. Se ci riduciamo in essere vuoti e senza sentimento, esseri che nulla può smuovere.. cosa siamo qui a fare? Le belle statuine? Ma sì, lasciamo che il tempo ci scorra tra le dita e che la nostra vita venga vissuta da altri, tanto ne abbiamo altre di vite, no? NO! Non ne abbiamo altre, anzi! La nostra vita è già limitata di suo, non possiamo sprecare il tempo fugace che ci rimane a reprimere le emozioni, richiuderle dietro un muro di maschere e diffidenza. Non possiamo. Stiamo sprecando la nostra esistenza.

Viviamo. Viviamo tutto. Ogni emozione, non lasciamo che ci sfuggano dalle mani!
Pensate ai vostri ricordi. Essi si imprimono nella nostra mente con un’impronta, una differente dall’altra. Quell’impronta è l’insieme delle emozioni provate in quel dato momento. Sono le emozioni che rendono quel momento degno di essere ricordato. Un ricordo è fatto di emozioni. Se non ci lasciamo trasportare da questi sentimenti, quali emozioni possiamo provare? Senza emozioni, quali ricordi possiamo creare? Senza ricordi, che vita abbiamo vissuto? Una vita che non vale la pena di essere ricordata.
Quindi.. buttiamoci! Chi se ne frega se tutto finirà domani, godiamoci il momento!
Viviamoci tutto quello che la vita ci offre e facciamo tesoro di ogni singola emozione.
Cerchiamo ciò di cui abbiamo bisogno! Siamo avidi di emozioni e sentimenti! Prendiamoci ciò che necessitiamo!

Proprio su questo continuo a riflettere.. vivere le emozioni, lasciarsi trasportare..
Porca miseria, voglio un amore che mi consumi!
Voglio un amore che mi divori, che mi faccia a pezzi. Un amore che mi distrugga.
Sì, voglio un amore che mi distrugga.
Un amore che abbatta ogni mio muro e che amplifichi le mie emozioni. Un amore che mi faccia sentire lo stomaco che si contorce. Un amore che faccia cadere ogni mia convinzione. Un amore che distrugga il mio essere.
Un amore che abbatta tutte le mie maschere e che mi faccia provare dolore.

Voglio essere distrutta da quest’amore e rinascere dalle mie ceneri.
Voglio un amore che mi faccia imparare ad amare e lasciarmi amare.

Voglio, voglio eh? Sì, voglio. Pretendo. Esigo.
Lo pretendo, perché ognuno di noi si merita un amore così potente da distruggere ogni cosa.
Voglio sentirmi cadere.. e trovare qualcuno pronto a prendermi al volo, dopo avermi spinta.

Non so se riesco ad esprimere davvero questo concetto. Mi sento un po’ come un esponente del dolce stil novo.. l’ineffabile sta colpendo anche a me..

L’amore di cui vi sto parlando è quell’amore così forte da far crollare ogni vostra difesa, ogni vostra certezza, ogni vostra sicurezza.. il tutto per poi ricostruirle a quattro mani. Un amore capace di spezzarti e di rimetterti in senso, di strapparti e ricucirti. Un amore dannato? No, un amore vero, che ti consumi lentamente dall’interno.. che ti faccia sentire le emozioni provenire dalle viscere del tuo corpo.. che le faccia sentire tue..

Voglio un amore che mi distrugga..