C'era una
lavagna. Sulla quale qualcuno, con un pennarello, tracciava linee e
scriveva nomi. Di fronte una ventina di persone sedute. Tra l'altro
vestite tutte allo stesso modo. Nel silenzio generale, qualcun altro
ha bussato alla porta e ha chiesto scusa per il ritardo.
Probabilmente accomodandosi in uno degli ultimi posti rimasti liberi.
Nessuno ha chiesto giustificazioni: si è subito passati alle vie di
fatto. Esclusione. Sospensione.
Le apparenze
possono trarre in inganno, lo sappiamo. Eppure la scena appena
descritta non ha avuto come scenario un'aula di scuola. Ma la sala di
un albergo. Quella in cui si stava tenendo la riunione tecnica della
Roma, qualche ora prima della gara contro l'Atalanta.
Le regole
sono importanti. Così come gli esempi. E vanno stabili e rispettati.
Ma gli integralismi, le prese di posizione sciocche e ottuse non
hanno mai portato da nessuna parte. Nella vita, come nel calcio.
E se abbiamo
storto la bocca di fronte all'esclusione a Firenze di Osvaldo per
motivi disciplinari, ora è il momento di fare qualcosa di diverso.
Indignarsi non basta più, occorre lanciare l'allarme e dire che
questo modo di gestire una squadra di calcio è sbagliato.
Punire chi
pecca di superficialità è giusto, specialmente se rappresenta uno
dei totem indiscussi dello spogliatoio, come nel caso di De Rossi,
togliere ai giocatori in campo il loro punto di riferimento,
significa mettere in atto un vero e proprio suicidio sportivo.
Anche perché
la squadra inon reagisce sul piano della prestazione, mostrando solo
un eccessivo nervosismo. Le cinque espulsioni dirette, tra Firenze e
Bergamo, sono un dato che deve far riflettere.
Le
sospensioni, le punizioni che hanno come scopo l'educazione, sono
molto più adatte alla scuola dell'obbligo e non ad un club che vuole
crescere in Italia e in Europa.
Probabilmente
ci siamo persi qualcosa. Ma fino a quando lo ricordiamo noi, la sigla
AS Roma stava ad indicare Associazione Sportiva Roma e non Asilo
Statale.