Copisterie e diritto d’autore

aprile 22, 2013 § Lascia un commento

Il caleidofono

DSC_0095Il 28 febbraio 2013 l’agenzia di stampa ANSA titola: “Blitz vigili urbani in copisterie Torino. Nell’ambito di una inchiesta sul rispetto dei diritti d’autore” e prosegue: “Blitz della polizia municipale con perquisizioni e sequestri nelle copisterie di Torino: l’ambito è quello di un’indagine della procura sul rispetto dei diritti d’autore. I negozi interessati, secondo quanto si è appreso in ambienti vicini a Palazzo di Giustizia, sarebbero una trentina, concentrati in prevalenza nella zona di Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche dell’Università. Il problema è legato alla fotocopiatura di interi volumi.”. Nei giorni successivi la stampa riporta la sprotesta degli universitari: “Gli studenti non possono farcela senza fotocopiare i libri: la spesa è troppo alta. Possibile che iniziative di questa severità arrivino proprio in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo?” (La Repubblica, 4 marzo 2013); si avverte l’esigenza di modificare la legge anche da parte delle copisterie: “Noi…

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Copisterie e diritto d’autore: le voci delle copisterie

aprile 22, 2013 § Lascia un commento

Il caleidofono

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Per capire cosa si sia davvero inceppato lo scorso giovedì 28 febbraio, quando, in seguito di un’indagine della Procura della Repubblica, i vigili urbani della città di Torino hanno perquisito e chiuso circa trenta copisterie in zona Palazzo Nuovo, è indispensabile rivolgersi ai diretti interessati; abbiamo quindi interpellato alcuni dei titolari delle copisterie più vicine alla sede storica delle facoltà umanistiche, cercando di osservare la vicenda da un altro punto di vista.

Affrontare il discorso non è semplice, nessuno parla volentieri e si riscontra una generale diffidenza nei confronti di chi chiede informazioni. Alcuni sono però disposti a scambiare qualche parola e, tra loro, anche coloro che sono stati colpiti dalla sanzione penale. L’impressione riscontrata è quella di essere stati “gli unici ad aver pagato”. Le copisterie, di fatto, si trovano ad operare in un terreno scivoloso, dove si incrociano molteplici interessi e dove le regole sembrano fatte apposta per…

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gennaio 19, 2013 § Lascia un commento

TFF – Sarà dedicato a Miguel Gomes l’omaggio della sezione “Onde”

settembre 11, 2012 § Lascia un commento

Riceviamo e pubblichiamo

Sarà il regista portoghese Miguel Gomes il protagonista dell’Omaggio della sezione Onde per la 30ma edizione del Torino Film Festival. Col suo cinema imprevedibile e poetico, questo giovane autore si è imposto ben presto all’attenzione della critica internazionale come una delle personalità più forti e promettenti della recente cinematografia lusitana.

Salutato col suo film più recente, Tabu, come l’autore rivelazione della Berlinale 2012 (dove ha conquistato sia il Premio Alfred Bauer che il Premio FIPRESCI), Miguel Gomes sarà al Torino Film Festival per presentare l’integrale della sua Opera, dai cortometraggi (Entretanto,1999, suo lavoro d’esordio; Inventário de Natal, 2000; Kalkitos, 2002; 31, 2003; Cántico das criaturas, 2006), ai lunghi A cara que mereces (2004), Aquele querido mês de Agosto (2008, che, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, lo impose all’attenzione internazionale), sino al  recente Tabu (2012) che sarà  distribuito in Italia da Satine Film – Archibald.

Nato a Lisbona nel 1972, Miguel Gomes studia alla Escola Superior de Teatro e Cinema della sua città e, dopo essersi fatto notare come giovane critico dalle idee molto chiare, si lancia assieme ad alcuni compagni di studi nella realizzazione di un cinema che rientra fermamente nella tradizione cinematografica portoghese, spingendone però con disinvoltura la traccia storica e antropologica in una direzione più libera e imprevedibile.

I suoi film si muovono sul filo di un rapporto surreale con la realtà, dove i protagonisti sono una variabile impazzita tra età adulta e infanzia, la narrazione ondeggia tra documentario e finzione, tableaux vivants e gusto della miniatura, ricerca dell’estetica vintage e rigore pittorico. Dotato di un’ironia naturale e mai esibita, che gli permette di spiazzare ogni possibile aspettativa, Miguel Gomes è di sicuro uno degli autori più sorprendenti e creativi della sua generazione, capace di dialogare con un pubblico insolitamente ampio, sempre catturato dal fascino delle sue opere.

I beni comuni fra Napoli e Roma, terza parte. Democrazia diretta e scrittura partecipata delle regole.

luglio 13, 2012 § Lascia un commento

Roma, Via Cavour. Sabato 23 giugno, primo pomeriggio.

Sono con Simone – la mia guida romana – sotto il sole del giugno romano, i piedi sentono il calore raccolto e sputato dall’asfalto. Un carro colorato traballa in fondo alla via, viene verso di noi; sopra vedo decine di uomini e di donne: ballano, saltano, le braccia tese verso la strada. Noi percepiamo il tremolio ovattato dei bassi che ancora timido ci accarezza lo stomaco: il carro è lontano e arranca lento, come appesantito – corpi incandescenti e indefiniti sembrano inseguire la dance sparata dalle casse. Il silenzio accaldato della città attende di essere inondato dalla musica del Pride e l’effetto è un poco straniante: un mondo assorto e surriscaldato si prepara ad un’esplosione di vita e di sudore variopinto, di occhi spalancati e di arti incrociati – prima della fine.

«Oggi c’è il Pride, attraverserà tutto il centro», ci hanno detto, la mattina, due ragazze del Valle. Sui divanetti dell’ingresso abbiamo parlato di spettacolo e di lavoro, di occupazione e di gestione del teatro. La discussione è stata interrotta, a un tratto: «dobbiamo fare lo striscione per oggi pomeriggio. Perché non venite? Possiamo incontrarci lì, nelle strade.»

Così ci troviamo in Via Cavour. Intorno sfilano migliaia di persone, i colori accessi sferzano l’aria e giocano con le ombre dei palazzi e i fasci di luce a picco del meriggio. Scrutiamo le scritte e gli striscioni, aspettiamo di incontrare le ragazze e i ragazzi del Valle. Finalmente scorgo un lenzuolo bianco, leggo “Teatro Valle occupato” tracciato lungo il margine inferiore. Amiamo le pratiche orizzontali. È una scritta in stampatello di un rosso granata e attraversa lenta la via.

Amiamo le pratiche orizzontali.

«Come prendete le decisioni?»

«Abbiamo un’assemblea ogni settimana. Vi partecipano tutti i soggetti che vivono questo posto o contribuiscono attivamente al progetto del Valle.»

«Ci sono passaggi controversi, discussioni accese?»

«Hai voglia. Ci si incazza, a volte.»

«E come ne uscite? A maggioranza?»

«Non si vota, qui.»

«Nessuna mano alzata? Nessuna conta?»

«Non si vota. Niente maggioranze, né minoranze.»

«Per consenso.»

«L’assemblea deve uscire con una linea collettiva, costruita nella discussione.»

Marco, il giovane scienziato politico del Cinema Palazzo, mi racconta delle loro assemblee. «Ogni settimana abbiamo un’assemblea. Parliamo di politica e di gestione del nostro spazio. Se siamo in disaccordo su qualcosa si discute a oltranza. A costo di finire alle due di notte.» Anche a San Lorenzo amano le pratiche orizzontali. Mi chiedo se sia sostenibile, in tempi di democrazia deteriorata, ricominciare dalla democrazia diretta, dal consenso. Non saranno ingenui? «Ma no. Che non lo sappiamo come funzionano i gruppi di potere in questa città? Conosciamo i rapporti di forza, li studiamo. E vogliamo contare politicamente sul territorio, ma senza piegarci alle logiche che gestiscono il potere della metropoli.» E i partiti, le amministrazioni? «“Venite qui a vedere come si realizza una politica dal basso”, vorremmo dire loro. A parte gli scherzi: noi non vogliamo trincerarci qui dentro, non ci basta. Siamo coscienti delle dinamiche che governano la città e vogliamo agire per farle saltare. Se decidiamo di confrontarci con le amministrazioni non siamo disposti a cedere la nostra autonomia, l’autonomia dell’assemblea.» Marco ha lo sguardo sicuro. La scommessa politica è la stessa che ha attraversato questi nostri anni, che ha impegnato le nostre generazioni sparse per l’Italia: è possibile una politica aperta alla società civile e indipendente, autonoma? Al di là della militanza e alle scelte di ciascuno, penso a Torino e al panorama politico cittadino che va dai partiti di sinistra fino all’autonomia – la domanda ci riguarda un po’ tutti.

Le pratiche orizzontali sono esemplificate dal percorso più ambizioso che sta coinvolgendo gli occupanti del Valle: la costituzione di una fondazione. Con la Fondazione Teatro Valle Bene Comune, il Valle potrà diventare un soggetto economicamente autosufficiente. «Già da gennaio è possibile aderire con una sottoscrizione e contribuire al capitale sociale depositato in un conto aperto sulla Banca Etica. Contiamo di far nascere la Fondazione nel prossimo ottobre.» Nei mesi scorsi l’assemblea del Valle ha redatto una proposta di Statuto della Fondazione e l’ha resa disponibile su internet. Il testo dello statuto utilizza la piattaforma E-mend, un sistema di riscrittura collettiva in rete: ognuno può avanzare emendamenti al testo, commentarlo, proporre variazioni nella disposizione dei punti. Tutti i soggetti interessati alla ridefinizione della cultura come bene comune possono intervenire nella scrittura delle leggi e sarà l’assemblea del Valle a decidere quali modifiche accogliere e quale variazioni apportare.

Lo stesso percorso di riscrittura collettiva delle regole è stato intrapreso dall’Ex Asilo Filangieri. Dopo le aperture di De Magistris e dell’assessore Lucarelli, gli occupanti hanno ribadito che ogni definizione della natura, degli obiettivi e dello statuto dell’Asilo non può essere un’imposizione dell’amministrazione, ma deve provenire dai cittadini e dai lavoratori che ogni giorno vivono gli spazi occupati. È così che anche a Napoli, a metà giugno, è partito il progetto di scrittura delle regole di autogoverno dell’Asilo. Nuove forme di scrittura legislativa affiancano gli organi tradizionali e istituzionali preposti a definire il diritto e le regole della comunità: sono le assemblee dell’occupazione a essere responsabili della ricodificazione delle leggi e la loro azione diventa una riappropriazione attiva – e condivisa con il resto della cittadinanza – del potere di scrivere e legiferare. Una scrittura oltre la crisi della rappresentanza che coinvolge le democrazie occidentali.

Si conclude la terza e ultima parte delle riflessioni su un viaggio fra Roma e Napoli. Sfreccio verso nord – il tramonto si allunga alla mia sinistra – su treni che raggiungono i trecento chilometri orari; Torino si avvicina insieme alla notte. Con salti veloci percorro a ritroso il cammino della mia esperienza. Gli spazi che ho visitato sperimentano nuove forme di democrazia diretta e rilanciano una scrittura partecipata degli statuti; le occupazioni sottraggono gli spazi urbani al controllo neoliberista e li restituiscono alla cittadinanza; i lavoratori dello spettacolo impiegano il loro tempo libero per sperimentare nuove forme di politica culturale e sottrarsi allo sfruttamento e al precariato; i luoghi del sapere e della creatività sono secessioni dall’industria culturale e dai modi di produzione del capitalismo corrente e aprono a nuove pratiche di collettivizzazione dei mezzi di produzione dello spettacolo. Scrivo queste parole sul mio portatile – ho trovato una presa sotto il mio tavolino – e l’ultimo sole della giornata si riflette sul metallo cromato del treno che divora il paesaggio.

Francesco Migliaccio

(qui la prima parte, e la seconda)

I beni comuni fra Napoli e Roma, seconda parte. Le fratture spaziali nella società dello spettacolo.

luglio 7, 2012 § 1 Commento

Piazza dei Sanniti, Roma, di fronte al Nuovo Cinema Palazzo; un sabato di fine giugno.

Nel cuore di San Lorenzo sta per calare il sole mentre sono seduto sull’asfalto di Piazza dei Sanniti. Di fronte a me, su un palco montato lungo un tratto della piazza, suonano alcuni musicisti del quartiere. Sorseggio la mia birra e muovo lo sguardo dalle loro mani e alle loro labbra, vedo i tecnici del suono alla mia destra e un viavai di persone sotto il palco. Percepisco la presenza di studenti universitari, bambini del quartiere, qualche anziano, una madre con il passeggino. Per un attimo vedo una donna su un balcone: ha un vestito estivo, i gomiti appoggiati sulla balaustra, il piede destro – fuori dalla ciabatta – tiene il tempo contro la caviglia sinistra. Sono seduto in mezzo alla piazza, appoggio i piedi sull’asfalto e dietro al palco montato in poche ore si staglia un edificio, alto, dai colori caldi – domina tutta la piazza. Sulla facciata una scritta a caratteri neri, sbilenca: ExCinema Palazzo.

San Lorenzo: quartiere popolare di Roma, una cultura antifascista affonda le radici nelle strade strette, il quartiere dilaniato dai bombardamenti alleati del 1943 – era estate anche allora. In poche centinaia di metri, lungo Via dei Volsci, ho visto una palestra popolare, uno spazio occupato dal collettivo di genere del quartiere, un piccolo antro gestito dai redskin: bandiera italiana e falce e martello. Dietro alcuni caseggiati c’è Esc: lo spazio occupato in tumulto, il punto di San Precario.

Ma di fronte a me, nello spegnersi di un pomeriggio inondato dalla musica, ho l’Ex-Cinema Palazzo. L’Ex-Cinema Palazzo avrebbe dovuto diventare un casinò. La società deputata alla conversione dell’edificio apparteneva al giro della cricca, dei palazzinari: Anemone, Balducci e compagni. Per fermare l’ennesima speculazione edilizia gli abitanti del quartiere e alcuni lavoratori dello spettacolo si sono organizzati e nella primavera del 2011 hanno occupato lo stabile. Con un’azione di forza gli occupanti hanno sottratto la struttura agi affaristi romani e hanno evitato che le sere di San Lorenzo fossero invase dalle luci dello spettacolo e dai capitali del gioco d’azzardo. Il Cinema è uno spazio riconquistato, una secessione spaziale, una frattura entro i luoghi dominati dall’industria del gioco e dal capitalismo più sregolato.

Le porte del Cinema Palazzo sono sempre spalancate, il luogo è accogliente. Franco è un occupante della prima ora. Ha i capelli grigi, il volto scavato, e da una vita ormai vive a San Lorenzo. Accanto alla spillatrice mi ha raccontato la storia del quartiere e ha ricordato la genesi dell’occupazione: «la prima in Italia. Noi abbiamo aiutato il Valle e, le altre realtà cittadine [Napoli, Catania, Palermo] hanno continuato la nostra strada.» Franco lavora fuori, in città, e ogni giorno attraversa la soglia del Cinema Palazzo e contribuisce alla sua esistenza. Parlo con lui e in piazza un gruppo blues scandisce il lento tempo della sera di San Lorenzo. Franco ha appena dato la vernice al pavimento oltre il quale si apre la sala del palco, dedicata a Vittorio Arrigoni – mentre spilla le birre fa attenzione che nessuno calpesti il colore fresco, nero come il catrame.

Incontro Marco all’ingresso: ha poco più di vent’anni e studia scienze politiche. Insieme a Sabatino a costruito un’aula studio, al primo piano. «A Roma sono poche le aule aperte alla sera. Non ci sono spazi per gli studenti. Così abbiamo adibito un’ala del palazzo ad aula studio – resta aperta fino alle due e mezza di notte.» I suoi occhi sono sempre spalancati. Gli consiglio di godersi l’esperienza che sta vivendo, di trattenerne i ricordi. «Me lo dicono tutti», mi risponde.

Anche il Valle avrebbe dovuto essere privatizzato quando a giugno (subito dopo il referendum su acqua e nucleare) alcuni attori di teatro e lavoratori dello spettacolo hanno deciso di gestirlo e di permetterne l’ingresso alle compagnie teatrali e ai cittadini. Le occupazioni stanno segnando un confine nello spazio sociale, producono singole secessioni nella geografia del capitale e sperimentano forme alternative di gestione economica della cultura nel cuore delle metropoli italiane. I soggetti attivi dell’occupazione – come scritto nella prima parte – spesso lavorano fuori dal luogo conquistato, ma vi entrano ogni giorno per impegnarvi il tempo libero sottratto al lavoro precario. Entrano ed escono, superano più volte la membrana fra il mondo normale e quello sperimentale.

Il movimento fisico sulla soglia (al di qua, al di là) è utile anche per leggere gli altri soggetti protagonisti: non gli occupanti, ma i cittadini che fruiscono degli spettacoli e delle proposte culturali. Le fasce più eterogenee della cittadinanza – questa forse è la differenza più evidente dai centri sociali tradizionali – entrano ed escono dai luoghi occupati, fruiscono gli spettacoli, appartengono per brevi lassi di tempo alla secessione.

Durante una riunione all’Asilo della Conoscenza di Napoli ricordo che uno degli occupanti ha iniziato a battere i piedi per terra. «Noi questo posto lo dobbiamo vivere, lo dobbiamo attraversare», e batteva le suole contro il pavimento. «Questo posto è reale, fisico, ma esiste davvero quando ognuno di noi vi entra e contribuisce alla sua gestione, alla creazione di cultura, all’invenzione di nuove pratiche artistiche e politiche.» Mi è rimasto impresso questo gesto dei piedi, il battito ritmico sul pavimento. Credo che ognuno dei luoghi occupati che ho visitato esista nella sua particolarità spaziotemporale: ogni luogo è una singolarità, un perimetro delimitato da fratture nel tessuto urbano ed economico. Quando si producono riflessioni di ampio raggio su quanto sta avvenendo in Italia e quando si citano, fra una virgola e l’altra, i diversi spazi occupati, non si deve dimenticare che ogni luogo ha una sua esistenza particolare, uno specifico insieme di regole, pratiche e strategie. Ogni spaziotempo – proprio in quanto singolarità – è irriducibile agli altri.

I luoghi occupati, quindi, vanno intesi come differenze spaziotemporali, scarti, isole alternative e porose. Se è vero che il capitalismo contemporaneo si riproduce in una società dello spettacolo pervasiva e alienante, il sistema sembra sempre meno integro e totale. Forse è proprio l’arte (e il teatro prima di tutto) a tentare una nuova forma di resistenza allo spettacolo del capitalismo: a una secessione nello spazio urbano corrispondono nuove forme di autonomia della creatività e della performance. L’arte è la prima sfera a tentare di sottrarsi al dominio integrato delle merci e dell’industria culturale: lo spettacolo teatrale si produce come alternativa allo spettacolo integrato del capitalismo; i palchi accolgono e sperimentano le scosse politiche che latitano in altri spazi sociali.

Francesco Migliaccio

(qui il link alla prima parte)

I beni comuni fra Napoli e Roma, parte prima – Tempo del lavoro, tempo dell’occupazione

luglio 3, 2012 § 5 commenti

Napoli, piano terra dell’Ex Asilo Filangieri, ultimo martedì di giugno.

Nel ventre del centro storico, a due passi da San Gregorio Armeno, ritrovo l’Ex Asilo Filangieri, lo spazio occupato a marzo da La balena, un collettivo di lavoratori della conoscenza e dell’immateriale. Sono le sette di sera, assisto a una riunione organizzativa. Gli occupanti hanno deciso di realizzare un talk show – il Talking Asilo – da trasmettere in streaming. Il Talking Asilo sperimenta forme alternative di comunicazione mediale: una trasmissione in diretta arricchita da dibattiti, sketch improvvisati e collegamenti dalle occupazioni di Roma, Catania, Milano e Palermo. Come tutte le espressioni culturali realizzate nell’Asilo, anche il Talking Asilo nasce da un processo creativo collettivo e partecipato e ha l’ambizione di coinvolgere e raggiungere gli strati più eterogenei della popolazione napoletana e nazionale.

Le ragazze e i ragazzi in riunione lavorano nello spettacolo – attori di teatro, sceneggiatrici, tecnici video – e in due ore immaginano la puntata a venire, discutono le idee e i temi da affrontare. Fra di loro c’è Ciro: alto, magro, un poco di barba. Ciro fa la televisione, si occupa delle operazioni di regia durante le dirette dagli studi televisivi e gran parte degli accorgimenti più acuti emergono dalla sua esperienza. A un certo punto si rivolge a tutti noi, seduti in cerchio: «A fine luglio non posso darvi una mano, perché sono a Londra, con Sky». Deve lavorare per la trasmissione di Ilaria D’Amico. Immagino il classico dibattito sulle olimpiadi, uno studio scarno e illuminato a giorno, i bilanci di una giornata di gare, gli atleti italiani con gli occhi sgranati, una medaglia che oscilla pesante dal loro collo. Ciro si divide fra il lavoro retribuito e l’aiuto volontario entro i confini dell’Asilo. Fra Londra e Napoli.

Non credo che Ciro sia un occupante assiduo dell’Asilo. Eppure ne incarna la peculiarità più interessante: alcuni lavoratori dello spettacolo, precari e spesso sfruttati, occupano un luogo e vi sperimentano nuove connessioni fra economia, cultura e lavoro. E sfuggono – sono brevi tratti di tempo – al malessere e all’alienazione contemporanei. Gli occupanti restano lavoratori: continuano, là fuori, a vivere alla giornata, ad attendere gli stipendi di produzioni esaurite e dimenticate. Ma una parte del loro tempo libero, del loro tempo non alienato, è dedicata alla costruzione di una alternativa possibile. Un frammento di tempo giornaliero è sottratto all’industria culturale per coltivare l’alternativa: una cultura disponibile ai cittadini (un bene pubblico) e sottratta alle logiche vigenti del mercato.

Pochi giorni prima ero su un divanetto del Teatro Valle. Era sabato – il sabato del Pride di Roma – e parlavo con Orsetta, attiva fin dal primo giorno di occupazione: «Gli artisti che propongono qui i loro spettacoli non sono retribuiti, di norma. Propongono le loro performance qui, sul palco del Valle, per contribuire all’esistenza di questo spazio e del progetto di società che abbiamo iniziato a pensare. I soldi raccolti dalle offerte volontarie del pubblico sono impiegati per sostenere la struttura e per pagare le trasferte e le attrezzature degli artisti.» Non ho capito fino in fondo la portata delle sue parole finché un’altra giovane occupante, a Napoli, ha ricordato che l’Ex-Asilo Filangieri «è un luogo aperto agli artisti che hanno un’idea creativa, ma non dispongono dei mezzi per realizzarla, per metterla in scena. Noi dobbiamo fornire gratuitamente i mezzi per produrre gli spettacoli a chi non ha i soldi per finanziarli.» Intuisco, allora, che gli occupanti si sono appropriati dei mezzi di produzione dello spettacolo (il teatro, le attrezzature sceniche) e li hanno messi a disposizione degli artisti e dei cittadini. Gli incassi delle serate devono rendere sostenibile la manutenzione e il potenziamento degli strumenti di scena, delle apparecchiature di ripresa e della struttura complessiva dello spazio occupato.

Avevo le spalle sempre più affondate nel divano di pelle, poco lontano dalla porta d’ingresso del Valle; una domanda è sorta spontanea: la prospettiva non dovrebbe essere anche quella di retribuire gli artisti secondo il giusto valore del loro lavoro? «L’orizzonte a cui miriamo è quello, certo. Per il momento dobbiamo sopravvivere: permettere la realizzazione degli spettacoli proposti dai soggetti che aderiscono al nostro modello e resistere qui dentro, in modo da dare forma al progetto politico che qui a Roma stiamo sperimentando insieme all’Ex-Cinema Palazzo. Molti di noi hanno perso molto tempo qui dentro, e molti soldi: per questo raggiungere un’autonomia e una sostenibilità totale è la nostra vera scommessa.» Grazie all’imminente costituzione della Fondazione Teatro Valle Bene Comune, il Valle è la realtà più vicina, forse, a realizzare un sistema autonomo e autosufficiente: diffondere la cultura come bene comune, controllare i mezzi di produzione spettacolare e retribuire il lavoro di tutti i protagonisti delle produzioni.

Gli artisti e i lavoratori dello spettacolo nell’Asilo di Napoli e nell’Ex-Cinema Palazzo e nel Teatro Valle, quindi, coltivano parte del loro tempo libero per sperimentare nuove forme di diffusione e di gestione economica della cultura. Immagino una membrana che divide il tempo normale (quello del lavoro: precario, alienato, diretto dalle logiche neoliberiste) da piccoli spazi di tempo nuovo (il tempo libero dedicato all’appropriazione e alla gestione collettiva dei mezzi di produzione dello spettacolo). I soggetti occupanti, ogni giorno, si spostano da una condizione di lavoro all’altra: attraversano la membrana.

È tardi, a Napoli, è calata la sera e cammino in Via dei Tribunali – i negozi chiudono e per strada restano i banchi delle friggitorie, dense di odori. Ho un’allucinazione: se è vero che il capitalismo contemporaneo si riduce a un’immensa fantasmagoria di spettacoli – dove si dissolve il confine fra le merci, i prodotti della conoscenza e i linguaggi pubblicitari – forse mi trovo di fronte a una zeppa, forse ho assistito ai primi tentativi di far saltare gli ingranaggi della società dello spettacolo. La produzione del valore si concentra sempre di più nella conoscenza, ma alcuni lavoratori si stanno appropriando dei mezzi di produzione del nostro Occidente post-industriale. E li stanno collettivizzando. Cala la notte su Napoli, ma alcune luci si accendono e illuminano flebilmente i vicoli del centro.

Francesco Migliaccio

A Ken Loach il Gran Premio Torino della 30^ edizione del TFF

giugno 29, 2012 § Lascia un commento

Ken Loach è il regista a cui è andrà il Gran Premio Torino della 30^ edizione del Torino Film Festival. Ken Loach sarà presente a Torino insieme allo sceneggiatore Paul Laverty per ricevere il premio e per presentare l’anteprima italiana di The Angels’ Share, una commedia su un gruppo di giovani disoccupati di Glasgow che trovano la salvezza e una vita migliore grazie al più puro malto scozzese. Distribuito in Italia da Bim, The Angels’ Share ha vinto il Premio della giuria all’ultimo festival di Cannes.

I Gran Premio Torino è stato istituito a partire dall’edizione del 2009 del TFF. Il riconoscimento viene assegnato ogni anno ai cineasti che, dall’emergere delle nouvelles vagues in poi, hanno contribuito al rinnovamento del linguaggio cinematografico, alla creazione di nuovi modelli estetici, alla diffusione di nuove tendenze contemporanee.

Nel 2011, il premio è stato assegnato a Aki Kaurismäki, per il rigore e la pulizia del suo linguaggio, la sensibilità della sua rappresentazione del mondo contemporaneo, la comprensione e l’ironia con cui si avvicina a un’umanità normale, sempre più sola, confusa e in cerca di rapporti veri.

A presiedere la giuria del Concorso Internazionale Lungometraggi del 30° Torino Film Festival sarà invece Paolo Sorrentino, regista e scrittore, tra i più stimolanti autori italiani contemporanei.

Appello del Collettivo Universitario Liberi Orientamenti: Eterosessuali, non lasciateci soli al Gay Pride

giugno 14, 2012 § 25 commenti

Siamo il C.U.L.O., collettivo autogestito, autoformato e autoerotico universitario che da anni cerca di fare politica dentro e fuori l’Università per cambiare la percezione sociopolitica del nostro corpo, dei nostri diritti alla libera scelta e dell’autoaffermazione dell’essenza di noi stessi, per noi stessi, su noi stessi e sugli altri corpi quando siamo fortunat* e riusciamo a copulare.

Dopo un grande dibattito orizzontale, verticale, assembleare, in apnea e alla missionaria, siamo giunti alla decisione di partecipare al Gay Pride di Torino 2012, nonostante in movimenti e le realtà associative che si occupano solitamente di questa battaglia.
Vi preghiamo, eterosessuali: noi crediamo davvero che sia una lotta di civiltà e liberazione collettiva quella che passa per la sessualità e l’espressione di se stessi, però, diciamocelo, tendenzialmente i gay, le lesbiche e i transessuali sono gente insopportabile. È difficile farci politica assieme e alle associazioni dei genitori e amici degli omosessuali diamo tutta la nostra solidarietà e comprensione. Davvero, eroici. Siete ancora amici di quella gente?

Eterossessuali aiutateci: come ogni anno, in barba alla bellissima tradizione di rabbia e fame di giustizia sociale da cui nasce il Pride, il Pride si riempie di realtà commerciali che fanno a gara a chi ce l’ha più lungo, l’impianto, e chi ha il cubista con la mutanda più riempita sul carro. Queste realtà non si fanno affatto problemi a farsi la guerra per chi riesce a coprire la sigla altrui. Contrariamente allo scopo, almeno dichiarato, degli organizzatori della manifestazione, non c’è nessuna volontà di sensibilizzare e informare gente nuova sulle tematiche che si portano in piazza, ma solo l’interesse ad accalappiarsi più clienti possibili tra quanti fanno già parte di una popolazione gay o gay friendly. Per carità, ci va tutto bene. I cubisti con il megapacco li guardiamo con interesse anche noi, ma almeno si smettesse di far finta che questo abbia a che vedere con le nostre rivendicazioni. Si potessero risparmiare quegli interventi tra Lady Gaga e Madonna in cui si allude con qualche frase a non meglio identificati diritti; ovviamente dicendo cose quanto più banali e generali possibili, così siamo d’accordo, ci siamo detti che scendiamo in piazza per la nostra autoaffermazione e poi si ritorna a ballare i Jeopard.

Amici eterosessuali, voi siete lontani da tutto ciò e vi sembrerà fantascientifico, ma sapeste quali intrighi e quali equilibrismi per organizzare party ufficiali: cospirazioni da romanzo di George RR Martin perché tutti possano avere una fetta di dj-set.
E le realtà politiche sono anche decisamente peggio.
Non importa quanto realmente si spendano durante l’anno sulle battaglie del mondo lesbico, gay e transgender: tutti i circoli Arci diventano improvvisamente gay-friendly il giorno del Pride. Da Gianca (dove un po’ tutt* noi collettivant* andiamo a limonare, per cui ok, va bene) alla bocciofila corsara sono tutti improvvisamente paladini dei diritti civili. Poi il rapporto Arcigay e Partiti Delicati è qualcosa che ci fa letteralmente infuriare e negli anni ci ha stancato: poltrone che si rincorrono e si scambiano, rappresentanti politici invitati nell’autocompiacimento e nella scarsa voglia di criticare ed arrabbiarsi con chi è sordo alle nostre richieste e non ci ha mai rappresentato.
Per non parlare della discoteca, autotrasformatasi in associazione lgbt per poter esserci due volte: un’operazione così richiede più fegato che cuore.
Ovviamente la volontà è sempre quella di non scontentare nessuno: per cui sono tutti invitati a partecipare e a costruire le rivendicazioni. Piuttosto chiediamo meno, parliamo in modo generale e inclusivo, ma sia mai che non permettiamo alle fasciste velate di scendere in piazza. In fondo il Pride è colore, e una bandiera in più non stona mai, attenzione solo a non abbinare blu e nero, cafone vero.
Insomma, il Pride è una cosa necessaria oggi più che mai per le rivendicazioni di una parte di popolazione discriminata e priva di tutele legali, importantissima, e che per questo non è possibile lasciarla gestire alle realtà LGBTQI. Vi preghiamo eterosessuali, non lasciateci soli. E’ evidente che così non otteniamo risultati e continueremo a non ottenerli. Unitevi nel nostro simbolo e nella nostra bandiera, che unisce davvero tutti perché il culo piace proprio a tutti.

Libertà è emancipazione

C.U.L.O. Collettivo Universitario Liberi Orientamenti.

Scrivere con i piedi: fenomenologia della letteratura calcistica

giugno 4, 2012 § Lascia un commento

Perché i capolavori di Baggio, Ibrahimovic e Del Piero sono le novità letterarie più interessanti degli ultimi vent’anni


Il grande laboratorio culturale dello stivale italico si è sempre imposto, nel corso dei secoli, nel mondo “occidentale”, ancora prima dell’esistenza stessa di un mondo occidentale. Sembra una tesi di difficile sostenibilità, e andrebbe sicuramente meglio argomentata, ma tale operazione prevederebbe una ricerca ben più approfondita di questo breve articolo. Vi basti, quindi, sapere che la mia mamma dice che sono bello e commenta con simpatici buffetti questa come altre teorie.

In Italia la letteratura sta imponendo un nuovo genere letterario, di avanzata ricercata decostruttiva e che pone l’artista, badate bene artista, non scrittore, in una nuova dimensione di contaminazione tra diverse forme d’arte. Anzi, in una dimensione in cui non esistono più né forme né arte. Feroce amante e crudele distruttore della forma letteraria. Dimenticatevi poeti, drammaturghi, novellisti, saggisti, giornalisti e scrittori. La nuova forma della parola scritta è affidata a chi ha raggiunto le più alte vette artistiche né con le mani, né con la voce, ma con i piedi.
Il nuovo risorgimento della letteratura italiana è affidata ai calciatori, delle cui invenzioni letterarie sentivamo tutti bisogno.

Prima di passarne velocemente in rassegna i principali capolavori, voglio spendere qualche parola su questo nuovo genere letterario.Contrariamente a quanto succede per altre categorie professionali che si dedicano in un secondo momento alla scrittura, i calciatori rimangono calciatori anche, e soprattutto, mentre scrivono. Non come dei banali presentatori televisivi o degli attori qualsiasi. Loro non imitano gli scrittori, non producono romanzi né inventano eroi del noir. Rimangono calciatori che scrivono. Spesso fantasisti che inventano un nuovo spazio di fantasia, strappandolo al mondo della comunicazione mediatica e degli sponsor.Non cadono nemmeno nella facile trappola del saggio dell’esperto del settore: sì, si parla di calcio nelle loro produzioni, ma mai manuali di calcio o saggi. Sono di solito autobiografie, perché il calciatore-creatore sa che quello che i suoi lettori vogliono: la narrazione dall’eroe delle proprie gesta, come se la società dello spettacolo chiedesse a Odisseo di reinventare il proprio mito e di sostituire la tavola di Alcinoo con il best-seller da scaffale. Poche autobiografie nella storia della letteratura risultano altrettanto sincere, con una tale sovrapposizione tra autore che si racconta, personaggio e percezione del personaggio da parte dei lettori. Allora troveremo un Cassano, autore non di uno, ma di due libri, impegnato a difendere la sua immagine e il suo bisogno di narrare se stesso come un Pierino pestifero e geniale, un Baggio, vero padre di questo genere letterario, a distribuire sorrisi ed ascetismo fin dal titolo. Ma addentriamoci meglio, seppur brevemente, in questo genere letterario.

Roberto Baggio

L’Omero della letteratura calcistica. Autore da aforisma prima ancora del suo debutto letterario, genio indiscusso e indiscutibile del calcio e padre di un genere letterario. L’umanità non può esaurire la sua gratitudine verso questo personaggio, per certi versi controverso, con il solo pallone d’oro. La sua celebre affermazione: “I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli” ha da tempo superato, almeno nel mondo italofono, le migliori citazioni di Wilde o Schopenauer. Ricordiamo solo come sia stata ripresa da Claudio Riccio nel suo struggente addio alla politica, per dimostrare come le parole di Baggio siano entrate nell’immaginario collettivo. E se i più crudeli e ingrati hanno ricordato al vecchio portavoce della Rete della Conoscenza come i tifosi di mezza Italia apostrofassero il fantasista con il celebre coro “Baggio puttana hai fatto tutto per la grana”, non possiamo non riprendere questo episodio come simbolo dell’assunzione artistico-calcistica del grandissimo calciatore nell’Olimpo dei grandi della Storia.
Perle di saggezza, riflessioni da buddista occidentale, amore per il calcio, ma anche per le polemiche con gli allenatori della propria carriera. Ironia, sorrisi e lacrime distribuiti con saggezza e una affabulazione sorniona: “Una porta nel cielo” contiene già tutti gli ingredienti che verranno ripesi da quanti ripercorreranno sul campo e nella scrittura i passi del codino più famoso della storia dello sport.

Francesco Totti

Saggiamente il Francesco nazionale sceglie di non raccontare la propria biografia, ma di lasciare che l’intento del libro faccia emergere il proprio Io umano, artistico e calcistico. Come i veri creatori del mercato d’arte Totti legge e sfrutta il momento storico in cui la sua opera nasce e si dispiega: mentre il mondo mediatico crudelmente lo bolla come illetterato coatto, egli, er Pupone, si fa rapsodo di se stesso e raccoglie i frutti di questo crudele ritratto di lui dal mondo dello spettacolo creato: raccoglie tutte le barzellette su di sé e ne fa un libro.
Geniale il titolo del libro. Davvero, ho sempre apprezzato i titoli che raccontano chiaramente, senza inganni, a cosa il lettore sta per andare incontro: “Tutte le barzellette su Totti (raccolte da me)”. Fa uscire con forza l’autore-rapsodo, e l’immagine che vuole trasmettere di sé nell’opera, anche forse nell’intento benefico dell’opera. L’Unicef, ovviamente. Istituzionale ed universale, e poi a tutti piacciono i bambini.

Antonio Cassano

Autore di due opere, nulla fa emergere la struggente bellezza dell’invenzione del mito del meridione, del Sud del Mondo, come la penna dell’irriverente barese. “Dico tutto” sottotitolo: e se fa caldo gioco all’ombra, scritto con la collaborazione (supervisione? correzione grammaticale?) di Pierluigi Pardo, è un ritratto irriverente, ma sinceramente genuino e buono di questo ragazzo, riscattatosi da una condizione di disagio e povertà con il pallone (e la scrittura, ovviamente). Lo stile nella sua semplicità e nei suoi rimandi al linguaggio più colloquiale ammicca ai grandi narratori americani e ai primi libri di Culicchia e Brizzi. Nella sua seconda opera, “Le mattine non servono a niente, e altre 364 cassanate in forma di aforisma per vivere un anno da fantasista”, scritto sempre con la collaborazione di Pardo, l’autore rinnova l’immagine di un sé fantasioso prima ancora che fantasista cimentandosi, però, in un nuovo genere letterario, quello appunto dell’aforisma. Inarrivabile e rinnovatore di se stesso… quanti “scrittori colti” del panorama italiano dovrebbero guardare alla bibliografia di Cassano con umiltà!

Zlatan Ibrahimovic

Il più grande tra tutti i protagonisti di questo genere, e probabilmente tra gli autori viventi. “Io, Ibra” è un libro da mettere nella vostra biblioteca a fianco ai grandi scrittori del Novecento. Uomo della strada, cresciuto tra il freddo e i campi di cemento di Rosemberg, il ghetto dell’isola di Malomoe con tanti bambini dell’Est come lui. Nelle pagine il giocatore svedese, assieme a Lagercrantz David, fa rivivere una vita non solo di disagio e povertà, ma anche di cattiveria. Con un realismo che pochi altri hanno saputo raggiungere e che lo collocano di diritto nel Paradiso dei Narratori della Sfiga, tra Zola e Verga.Una scrittura fatta di rivalsa, muscolare, che non risparmia critiche né fa sconti a compagni e allenatori. Un uomo che ringrazia sempre solo sé stesso, le sue gambe e il suo cuore. Che per servire sé stesso non ha mai esitato a cambiare continuamente squadra, nazione, lingua e vita. E non solo seguendo ingaggi più alti, anzi, ma sempre alla ricerca di nuove sfide e nuove opportunità. Tante bandiere, nessuna bandiera. Anarchia e sudore.

 

Alessandro Del Piero

Giochiamo ancora”, scritto con Crosetti Maurizio (anche se, contrariamente a quanto fanno gli altri scrittori-calciatori, non cita il coautore in copertina), ci presenta un Del Piero inaspettatamente flaubertiano, che ammicca al romanzo borghese. Uomo della provincia bene dell’operoso Nordest. Famiglia borghese, scuole calcio accompagnato dal papà, quei bambini buoni e simpatici che si fanno ben volere da tutti. Scrittura pulita, elegante addirittura, quasi leziosa. La ricercatezza della struttura nella divisione dei capitoli: il ricorrere al numero dieci, a sottolineare l’identificazione con la squadra, l’essere bandiera e simbolo della stessa, non abbandonarla mai, nemmeno nei momenti difficili. Anche quando vuol dire rinunciare alle grandi sfide, al Calcio con la C maiuscola per dedicarsi al alla B. Quell’elargire consigli da padre di famiglia e buonismi. Un po’ Coelho vecchia maniera, un po’ debutto letterario di Baggio. 
Minchia se ti odio Del Piero.

In realtà l’elenco di calciatori-autori è ancora lungo: Buffon, Inzaghi, Stankovic, Eto’o e molti altri, ma sono tutti riconducibili in qualche modo agli autori qui analizzati: autobiografia, autoironia e autopromozione del mito di sé. Perché nell’era dello spettacolo l’eroe non ha solo il dovere di essere eroe, ma deve farsi promotore del suo più alto valore morale: la creazione di sé stessi come oggetto di consumo. Forse solo la scrittura sudata e feroce di Ibra e la sua sfacciataggine sanno far emergere le contraddizioni di questo modello letterario: questi eroi-calciatori-narratori del mondo dello spettacolo sportivo che li ha creati.

Pivo Andrić

Nota dell’Autore:
L’autore vuole condividere con i lettori dell’Ode la gioia per il ritorno del Torino in serie A.