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1301997

Un dossier spiega i ritardi: mancano i tecnici.

Ispezionati in Piemonte circa settanta istituti

Dopo la tragedia del liceo Darwin sembrava che finalmente la sicurezza degli edifici scolastici avesse assunto la giusta importanza nei piani del governo. Ma a quasi otto mesi da quel tragico 22 novembre 2008 si nota come poco o nulla sia stato fatto. Le commissioni istituite dal ministero dell´Istruzione che dovrebbero verificare le condizioni delle scuole, ed eventualmente segnalare problemi di tipo non strutturale riguardanti per esempio le controsoffittature, lavorano a passo di bradipo. Ad esprimere preoccupazione per la situazione è lo stesso Ministero. Nella relazione di un suo rappresentante presente alla prima riunione, tenutasi il 23 giugno a Roma, del “Tavolo di monitoraggio” che si deve occupare della prevenzione di eventuali rischi connessi alla vulnerabilità degli edifici scolastici, ha evidenziato «che, al momento, lo stato delle attività di monitoraggio si pone in Piemonte all´incirca al 2% (9 a livello nazionale) del previsto e questo fa sorgere dubbi sul rispetto dei termini previsti». Dubbi che sono certezze se si pensa che il termine previsto, o quantomeno ipotizzato al momento dell´istituzione di questi controlli, è il 6 agosto 2009. Ma perché questi ritardi? A spiegarlo è l´assessore all´Istruzione della Regione Giovanna Pentenero: «Questi ritardi stratosferici sono dovuti ad un unico preciso motivo, la carenza di tecnici ministeriali per effettuare i controlli». I controlli devono essere effettuati da commissioni composte obbligatoriamente da un tecnico nominato dall´ente proprietario dell´edificio, da uno incaricato dalle autonomie scolastiche e da un terzo rappresentante del Provveditorato, direttamente dipendente dal Ministero dell´Istruzione. Peccato che i funzionari del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche adibiti a questa mansione siano, in Piemonte, in tutto 10 per un´ora sola alla settimana. Si capisce quindi come con questi numeri, e a questi ritmi, il monitoraggio potrebbe durare anche sei anni. «Se si guardano i dati – continua Pentenero – si può notare come le regioni del Sud siano più avanti in questo lavoro rispetto a quelle del Nord. La spiegazione è molto semplice, lì i funzionari del Provveditorato sono molti di più che da noi». In Piemonte finora sono state controllare 69 scuole su 3.233, equivalente al 2% di tutti gli edifici scolastici. Come fare per uscire da questa impasse? La soluzione per l´assessore regionale è solo una, «far si che siano direttamente gli enti locali ad occuparsi di questa questione, senza dover aspettare il Provveditorato. Una soluzione già inserita per altro nell´intesa tra Stato e Regioni, che noi attueremo a breve, seppur consapevoli che sia una svalutazione dell´impegno preso dal governo su questo tema mesi fa. Ho già predisposto otto incontri con le province e i comuni piemontesi nei quali prospetterò loro la possibilità che siano gli enti locali ad autocertificare gli edifici scolastici». Di questi ritardi e di come poter arrivare ad una soluzione condivisa tra stato e regioni se ne riparlerà forse il 14 luglio nella seconda riunione del “Tavolo di monitoraggio”.

di Tomaso Clavarino

La Repubblica Torino

(11 luglio 2009)

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A Torino si prepara un’Onda no global contro il summit sull’università Corteo nazionale degli studenti il 19 maggio nella città sabauda. Per contestare la riunione dei rettori di tutto il mondo Mentre a Palazzo Chigi ministri e rettori si incontravano per delineare il programma di quello che sarà il G8 dell’Università previsto dal 17 al 19 maggio a Torino, gli studenti torinesi esprimevano la loro contrarietà nei confronti di questo appuntamento. Promosso dalla Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane), il G8 University Summit, uno degli appuntamenti di preparazione al vertice di luglio alla Maddalena e al quale parteciperanno i rettori e i presidenti degli atenei degli stati membri dell’istituzione del G8, insieme a quelli di molti altri paesi del mondo, si propone come momento di confronto sul contributo che le università possono dare sui temi dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale che sia. «Sappiamo bene che il G8 non ha nessuna credibilità alla luce delle chiare responsabilità che ha rispetto alla crisi globale in corso e risulta paradossale che sia proprio questa istituzione a voler porre rimedio a ciò che ha contribuito a causare – affermano in un comunicato gli studenti dell’Onda torinese – È inaccettabile quindi come i rettori, pretendendo di rappresentare tutto il mondo dell’università, vadano a interloquire con gli stati membri del G8, legittimando così il sistema economico-politico che da questi viene avallato». Quella che emerge è quindi una spaccatura sempre più netta tra rettori e studenti, tra le figure istituzionali che rappresentano il mondo accademico nelle alte sfere e le persone che vivono quotidianamente l’università, che pagano le tasse sempre più salate e che vedono sempre più svalorizzato il loro percorso di studi. «Nel summit verrà proposta l’immagine vincente di un’università trasformata e globalizzata – continua il comunicato – in realtà abbiamo oggi un’università in crisi, contraddittoria, con un livellamento verso il basso dei saperi trasmessi e che sfrutta i soggetti che li producono condannandoli ad una condizione di lavoro e di vita precaria». L’Onda torinese si propone quindi di organizzare un contro-G8 aperto a tutti. «Nei giorni del summit – spiega Marta – organizzeremo dibattiti, incontri, conferenze e assemblee aperte a tutti, studenti, docenti, lavoratori, insomma tutti quelli “che sono l’Università”». È stato lanciato poi per martedì 19 maggio un corteo nazionale che si snoderà per le vie di Torino e che si prevede farà convergere nella città sabauda migliaia di giovani. Sarà il ritorno dell’Onda in chiave anti-G8, dove le mobilitazioni dell’autunno incroceranno quelle della scorsa settimana contro il G20 di Londra e la Nato di Strasburgo. Gli studenti torinesi lanciano una stoccata preventiva alle Ferrovie dello Stato: «Auspichiamo che per i giorni del summit non si ripeta il solito schema per cui viene negato, dietro costi improponibili, il diritto alla mobilità dalle proprie città. Non vorremmo di nuovo ritrovarci, dopo le mobilitazioni di quest’autunno, a condurre trattative interminabili con le Ferrovie dello Stato». La mobilitazione studentesca prenderà avvio mercoledì prossimo quando si svolgerà un’assemblea pubblica cittadina, alle ore 17.30, a Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche, «per cercare di creare una rete contro questo G8 – continua Marta – nella quale si proverà a costruire rapporti più approfonditi con quelle realtà territoriali come i no Tav, i no Dal Molin e via dicendo, che si sono mossi in questi anni per la salvaguardia dei beni comuni».

di Tomaso Clavarino

il Manifesto 12/4/2009

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di Tomaso Clavarino

TORINO – A poco più di una settimana dalle cariche nell’atrio di Palazzo Nuovo, torna alta la tensione all’Università di Torino. Già dalle prime ore della mattina, mentre gli studenti iniziavano ad entrare in facoltà, si è capito che sarebbe di nuovo stata una giornata a rischio. Una decina di aderenti al Fuan con bandiere e volantini si era appostata all’inizio della scalinata d’ingresso con l’intento di fare propaganda per le imminenti elezioni universitarie. In poco tempo si è formato un folto gruppo di studenti, non solo dei collettivi, che ha iniziato a sbeffeggiare i giovani neofascisti che improvvisamente hanno deciso di togliere le bandiere dalle aste ed entrare in università per tenere un’assemblea nell’aula dei rappresentanti di giurisprudenza, quindi non un loro spazio. Gli studenti antifascisti hanno allora formato un cordone per bloccare l’accesso agli esponenti del Fuan. Sono volati spintoni e insulti fino a quando, a detta dei ragazzi dei collettivi, uno dei responsabili di Azione Universitaria, noto alle cronache cittadine per essere il promotore delle ronde con baschi e cani lupo, ha rifilato un pugno ad uno studente. In quel momento è partita una scazzottata che le forze dell’ordine hanno velocemente fermato, scortando poi gli esponenti del Fuan all’interno dell’aula dove hanno provato a tenere questa assemblea. Provato perché i giovani dei collettivi hanno iniziato a battere sui vetri e lanciare slogan costringendoli ad abbandonare mestamente l’università. «Anche in questo caso le violenze sono partite da loro – racconta Vincenzo del Collettivo Universitario Autonomo – Sono dei provocatori, devono capire che non si possono presentare all’università solo durante le elezioni a propagandare le loro idee razziste e xenofobe». Una scazzottata che non ha visto, per fortuna, l’intervento violento delle forze dell’ordine come la scorsa settimana. Che però lascia interdetti molti «addetti ai lavori». Inizia a circolare la voce che queste provocazioni del Fuan abbiamo uno scopo ben preciso. Per la prima volta infatti si presentano alle elezioni universitarie, o quantomeno hanno fatto richiesta di candidatura, esponenti di Casa Pound Torino, Blocco Studentesco e altre sigle della destra estrema, tutte raccolte nella lista Arcadia. Ebbene, ieri mentre Fuan e Collettivi si fronteggiavano a Palazzo Nuovo, il gruppo Arcadia volantinava tranquillamente davanti alla sede di Giurisprudenza in lungo Dora. Una coincidenza che non è passata sottotraccia. L’idea di un Fuan parafulmine che catalizzi l’attenzione dei media su scontri e provocazioni per lasciare campo libero ad una lista ancor più destrorsa non pare più essere un’utopia.

il Manifesto 20/3/2009

APERTURA   |   di Tomaso Clavarino – TORINO

TORINO Scontri all’università. Il rettore non avrebbe chiamato gli agenti

Non se ne sentiva proprio la mancanza ma, puntualmente con l’avvicinarsi delle elezioni universitarie, sono tornate le manganellate e le cariche all’interno di Palazzo Nuovo, storica sede delle facoltà umanistiche dell’Università di Torino. 
La presenza di alcuni esponenti del Fuan-Azione Universitaria, gruppo di estrema destra legato ad Alleanza Nazionale protagonista nel corso degli anni di iniziative di stampo neofascista come il tentativo di entrare a Palazzo Nuovo per commemorare la marcia su Roma, gestore di un sito, http://www.ilfronte.org, dove le croci celtiche sono d’ordinanza e dove viene scritto apertamente che il fascismo non fu una dittatura ed infine organizzatore delle ronde cittadine, ha indispettito gli studenti dei collettivi e dell’Onda torinese che hanno organizzato un presidio con slogan ed inviti ad uscire dall’Università. A surriscaldare ancor di più gli animi è stata, per l’ennesima volta, la massiccia militarizzazione da parte delle forze dell’ordine degli spazi universitari. 
Dopo aver “sequestrato” alcuni isolati di città pochi mesi fa per permettere l’inaugurazione dell’anno accademico, dopo aver caricato la scorsa settimana un gruppo di studenti che protestava per un volantinaggio del Fuan presso la sede di Giurisprudenza, una cinquantina di agenti in assetto antisommossa hanno scortato e protetto la decina di esponenti del Fuan dividendo di fatto l’atrio in due. Una presenza non giustificata quella delle forze dell’ordine, vista anche la mancata autorizzazione del Rettore all’ingresso in Università. «Seppur la questura continui a dire di avere avuto l’autorizzazione del Rettore – spiega Ennio – ci è stato confermato dal Rettore stesso che questa autorizzazione non è mai stata data per cui la polizia non avrebbe proprio dovuto presentarsi all’interno degli spazi universitari». Dopo un’ora e passa di slogans e inviti a lasciare l’atrio la situazione è degenerata quando dalle fila degli studenti antifascisti sono state lanciate delle uova ed un fumogeno all’indirizzo dei cordoni di polizia. In quel momento sono partite una serie di cariche molto violente ed ingiustificate che si sono protratte nei corridoi di Palazzo Nuovo fin quasi al primo piano. Ragazze e ragazzi impauriti e disarmati, a volto scoperto, hanno iniziato a correre per le scale inseguiti e manganellati dai poliziotti. Si sono poi formati cortei spontanei all’interno del palazzo di via Sant’Ottavio che sono incappati in altre cariche da parte delle forze dell’ordine che hanno spinto gli studenti fuori dall’Università. Persino chi non ha partecipato ai tafferugli perché magari non condivideva appieno la linea dei collettivi è rimasto colpito dalla violenza delle cariche. E’ questo il caso di Luisa che dice « ho avuto davvero paura, mi sono chiusa in un bar perché ho visto la polizia rincorrere e manganellare a destra e a manca, senza una logica. Non partecipo alle attività dei collettivi ma trovo inaudita la risposta della polizia». 
Il bilancio è di alcuni feriti sia tra gli studenti che tra le forze dell’ordine, quattro fermati, tre dei quali rilasciati e denunciati a piede libero ed uno tramutato in arresto. Subito dopo la fine degli scontri gli studenti si sono recati in rettorato occupandone la sede e chiedendo che il Rettore prendesse posizione sui fatti della mattinata. Nel tardo pomeriggio è poi stato diramato un comunicato del Senato accademico attraverso il quale l’Università condanna la violenza in generale e fa intendere di voler aprire un’indagine interna sui fatti accaduti. Un comunicato che non soddisfa per nulla gli studenti che invece chiedevano una presa di posizione netta degli organi accademici. E’ più esplicito nel dare un giudizio sull’operato della polizia l’assessore regionale all’Università, Andrea Bairati in quota Pd: «Se, come pare di capire, la presenza delle forze dell’ordine non è stata autorizzata dal rettore, beh questo è un fatto molto grave che ha sicuramente contribuito ad aumentare la tensione piuttosto che a diminuirla». I ragazzi rivendicano il loro antifascismo, si sentono gli ultimi baluardi a difesa di questi principi, non vogliono lasciare spazio a gruppi che fanno del razzismo e della xenofobia i loro cavalli di battaglia. «Noi non vogliamo – dice Fabio – che all’interno dell’Università vengano propagandate idee fasciste e razziste. Se a Torino, a differenza di altre città italiane, la presenza di gruppi neofascisti è, fortunatamente, esigua, è perché non gli si concedono spazi». 
Anche perché a presentarsi alle elezioni universitarie quest’anno non sarà solo il Fuan. E’ infatti di sabato scorso la notizia che una nuova lista, chiamata Arcadia, composta dal Blocco Studentesco e da Gioventù Italiana, il gruppo giovanile de La Destra, si presenterà alle elezioni universitarie. « Sono gruppi neonazisti che incitano all’odio – spiega Dana – siamo certi che se si presenteranno, come pare visto che hanno già iniziato la loro campagna elettorale scortati dalla polizia, otterranno ben pochi voti».
il Manifesto 10/3/200904

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di Tomaso Clavarino – GENOVA
SAMPDORIA Cassano e Pazzini come Vialli e Mancini, un coppia che fa sognare i tifosi e interessa la nazionale

Il Genio e il Pazzo. Li hanno soprannominati così, a Genova, sponda blucerchiata, Antonio Cassano e Giampaolo Pazzini. Uno «genio» del pallone lo è per davvero. Forse il più grande talento italiano degli ultimi anni, sicuramente il più chiacchierato. Quando prende palla sembra irridere gli avversari, ma non lo fa con malizia e spavalderia, alla Ibrahimovic o Cristiano Ronaldo per intenderci, ma con naturalezza, perché lui con il pallone c’è cresciuto e, quando gli capita tra i piedi, come i bambini al parco o in piazza a Barivecchia, non se lo vuole proprio far portare via. E allora va avanti portando la palla sotto i tacchetti, come a calcetto, finta a destra, rientra sul sinistro, tunnel in mezzo a due e passaggio filtrante. Come dicono i più maligni: «i difensori del Genoa della passata stagione se la sognano ancora di notte la serpentina nel derby dell’anno scorso».
L’altro «pazzo» lo è solo di nome ma non di fatto. Se lo vedi sembra il classico bravo ragazzo, educato, pacato, mai una parola fuori posto, mai una lamentela. Nella vittoriosa partita di Coppa Italia contro l’Inter ha fatto a sportellate con Materazzi e, mentre l’interista si lamentava continuamente con l’arbitro, lui è ha parlato con i gol (due) limitandosi a chiedere al massimo l’ammonizione per l’avversario dopo l’ennesimo fallo da dietro. Tutti gli esperti del settore lo ritenevano ancora una promessa incompiuta, ma Pazzini sotto la Lanterna ha trovato affetto, fiducia e la carica necessaria per sbocciare definitivamente. Ha segnato otto reti in nove partite fin qui giocate, da quando è arrivato a gennaio dalla Fiorentina, dove si era immalinconito in panchina all’ombra di Gilardino. E’ diventato il finalizzatore delle invenzioni di Cassano, dimostrando una freddezza tale sotto porta che neanche i più ottimisti si potevano aspettare (a Firenze in effetti litigava col pallone e vedeva la porta sempre più piccola). Lo dice sempre il Pazzo, in tutte le interviste: «a Genova mi hanno accolto con affetto, mi hanno fatto sentire importante, mi hanno dato fiducia».
Un po’ come capitato al Genio che, arrivato a Genova dopo i due anni buttati al Real madrid, ha trovato un ambiente che gli ha permesso di consacrarsi definitivamente. Insomma la nuova coppia gol del calcio italiano che, vista anche l’età dei due giocatori (27 anni il primo, 24 il secondo), potrebbe diventare, se solo il ct Lippi avesse il coraggio di andare contro le grandi squadre, la coppia titolare della nazionale. C’è chi li chiama già i «Gemelli del gol», rievocando Vialli e Mancini. Un paragone molto pesante, forse azzardato. Vialli e Mancini hanno fatto la storia della Sampdoria. Hanno dato tanto alla compagine blucerchiata e tanto hanno ricevuto. Hanno fatto sognare i tifosi, li hanno spinti a fare fiaccolate per convincerli a non andare via (Vialli) e li hanno feriti a tal punto che uno sconfinato amore è diventato, se non odio, quantomeno disprezzo (Mancini). Certo è che il Genio e il Pazzo ricordano molto i gemelli del goal. Un fuoriclasse ed un falco d’area di rigore. Ma la strada è ancora lunga e la storia tutta da scrivere. «Sono nel pieno della maturità – sostiene il direttore generale doriano Beppe Marotta – tra un po’ l’accostamento potrebbe diventare realtà».
Un primo tassello potrebbe essere la Coppa Italia. Se la Sampdoria riuscisse a portarla a casa sarebbe il primo trofeo dell’era Garrone così come il primo trofeo della Samp di Paolo Mantovani fu la Coppa Italia del 1984/85. Corsi e ricorsi che alimentano ancora di più i sogni dei tifosi doriani. Ma i più realisti sanno che difficilmente questa squadra potrà ricalcare le orme della Samp d’oro di Mantovani. Innanzitutto perché non c’è più il Presidente, Paolo Mantovani, un tifoso prima ancora che un presidente, un papà per tutto l’ambiente, che attorno ai gemelli del goal aveva costruito forse la migliore squadra del tempo, prendendo i più forti giovani in circolazione e affiancandoli a giocatori esperti. Gente come Attilio Lombardo, Fausto Pari, Toninho Cerezo, Moreno Mannini, Luca Pellegrini e via dicendo, insomma una squadra fatta per vincere. La Sampdoria di adesso è lontana anni luce da quella che per un decennio vinse coppe e scudetto, ma ha due campioni lì davanti, la nuova coppia gol del calcio italiano, e i tifosi sognano. Per ora la Coppa Italia, poi chissà.

il Manifesto 7 marzo 2009

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Sarà un capodanno all’insegna della musica dance quello che andrà in scena all’Oval la notte di San Silvestro. Sul palco, allestito all’interno della struttura che durante le Olimpiadi ha ospitato le gare di pattinaggio velocità, si alterneranno alcuni dei più importanti protagonisti della scena dance internazionale lanciati, in quella che sarà un vera e propria maratona di musica elettronica , dal gruppo rock torinese per eccellenza, i Subsonica. La band capitanata da Samuel accompagnerà gli spettatori fino al brindisi di mezzanotte per poi lasciare spazio prima ad un live dei Motel Connection e poi ai tre dj-set che faranno ballare giovani e meno giovani fino alle prime luci dell’alba. Dopo il live del trio, nato nel 2000 a Torino, composto da Samuel, Pisti e Pierfunk, sarà la volta, in ordine di apparizione, di Boosta, Mauro Picotto e Josh Wink. «La prevendita dei biglietti sta andando a gonfie vele, sono già stati staccati migliaia di tagliandi» fanno sapere gli organizzatori, che ricordano le modalità di acquisto dei tagliandi «il costo della serata è di 35 euro se si acquistano i biglietti in prevendita, tramite i circuiti ticketone, vivaticket e ticket.it, di 45 euro se si decide di prenderli direttamente alla porta la sera stessa dell’evento. Incluso nel prezzo anche un flut di spumante». Chi volesse anche partecipare alla cena di gala, organizzata su di una terrazza panoramica allestita all’interno dell’Oval, dovrà rivolgersi alla Souait Entertainment (011-0608216) per prenotare e poter così gustare, al prezzo di 120 euro (incluso il biglietto d’ingresso per la serata), un ricco menu innaffiato da vini piemontesi e champagne. Per chi invece volesse mangiare qualcosa “al volo” durante lo show, sarà allestito un punto ristoro con panini, hot-dog, hamburger e patatine. Sono dell’ultima ora le novità che riguardano i mezzi di trasporto per poter raggiungere il palazzetto sede dell’evento. «Siamo giunti ad un accordo con Gtt – spiegano gli organizzatori – che aumenterà la frequenza dei passaggi del tram 18 blu, da ogni ora a ogni mezz’ora, per poter così raggiungere l’Oval più velocemente e senza il rischio di muoversi in macchina, magari dopo aver bevuto un bicchiere di troppo». La linea 18 blu, che fa parte del servizio nightbusters messo in piedi dal Gtt per le notti festive, avrà i capilinea in piazza Vittorio, come tutte le altre linee notturne, e in corso Maroncelli. La fermata alla quale bisognerà scendere è quella in prossimità di Eataly e del centro commerciale 8 Gallery, all’altezza di via Nizza 230. Da lì bisognerà poi fare una breve passeggiata per raggiungere l’ingresso dell’Oval i cui cancelli apriranno alle ore 20. Per poter avere ulteriori informazioni è possibile consultare il sito internet dedicato all’evento, www.futurfestival.com, sul quale, oltre al programma completo e alle indicazioni per raggiungere la location per chi dovesse arrivare da aeroporto e autostrade, sono anche segnalate delle convenzioni con hotels cittadini per chi venisse da fuori città e volesse passare a Torino qualche giorno e non solo la notte di San Silvestro.

Tomaso Clavarino

La Repubblica 28/12/2008

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A Torino iniziative nei supermercati e alla Feltrinelli

Sono le 16, le vie del centro di Torino sono stracolme di persone. Va in scena lo struscio pre natalizio. C’è chi compra, chi entra nei negozi e ne esce senza sacchetti e chi guarda solamente le vetrine, tutti in rigorosa fila indiana, immersi in quel lungo serpentone che si snoda per le centrali via Roma, via Po e piazza Castello. Sembra tutto nella norma, ma non lo è. C’è qualcosa che disturba questa scena “idilliaca”. Una musica molto forte si incunea nel vociare degli amanti dello shopping. «Cos’è sto casino?» si chiedono in molti. Sono i ragazzi dell’Onda. Liceali ed universitari si sono dati appuntamento davanti alla libreria Feltrinelli per continuare la protesta, iniziata in settimana, contro la mercificazione della cultura, le politiche di copyright e il caro-libri. “Contro la crisi autoriduzione” è la scritta che capeggia sul banchetto allestito all’esterno della libreria, sul quale sono stati riversati centinaia di libri usati, provenienti dalle biblioteche dei ragazzi, offerti in omaggio ai passanti. Passanti che, all’inizio un po’ intimoriti da questa iniziativa che ha scombussolato la monotonia del sabato prima di natale, hanno usufruito in buon numero di questo “servizio”. Anche, e soprattutto, quando sul banchetto sono stati rovesciati alcuni scatoloni di libri fuori catalogo ottenuti dopo un lento, ma fruttuoso, “lavoro ai fianchi” della direzione della libreria, da parte degli studenti.

«In un paese sempre più colpito dalla crisi economica prodotta dai banchieri e dagli imprenditori, così come dai governi di destra e di sinistra degli ultimi anni – hanno affermato in un comunicato – gli studenti precari hanno deciso di riprendersi una parte di quella ricchezza intellettuale che contribuiscono ogni giorno a produrre, ma della quale vengono quotidianamente espropriati. Il costo sempre più scandaloso dei libri di testo e delle opere scientifiche e letterarie impedisce ai giovani e ai precari di accedere a un sapere indispensabile per la formazione culturale di tutte e tutti. Anche regalare un libro, per queste vacanze, risulta per molti difficoltoso: i prezzi si aggirano su una media dei 30 euro, un costo proibitivo per la generazione degli 800 euro al mese». Questa iniziativa si lega a quella portata avanti, sempre dagli studenti dell’Assemblea No – Gelmini, martedì scorso, e si inserisce nella battaglia a favore di un sapere libero. Dopo un presidio sotto la Siae, in serata gli studenti si sono diretti verso il cinema Greenwich, in via Po, e lì, mettendo in pratica l’autoriduzione, hanno potuto godere gratuitamente di tre spettacoli cinematografici, permettendo anche ai passanti e a chi fosse interessato di prendere parte agli spettacoli.

Una settimana quindi di autoriduzioni e di lotta per sopravvivere alla crisi, quella che è andata in scena a Torino durante lo shopping natalizio. Una settimana che ha avuto, forse, il suo apice, nel tardo pomeriggio di sabato quando, un gruppo di una decina di persone, travestite da babbo natale, sono entrate in un supermercato della periferia torinese e lì, dopo aver riempito i carrelli di generi alimentari e di prima necessità, sono usciti senza pagare e si sono messi a distribuire i prodotti ai passanti e agli avventori. Hanno poi lasciato dei volantini, non firmati, con scritto “Ma quale caro vita?Il cibo c’è, basta andarselo a prendere”. Un’iniziativa quasi “hollywoodiana”, che può strappare un sorriso, ma che fa riflettere, insieme alle altre iniziative di questi giorni, sulla situazione nella quale si trovano a vivere sempre più famiglie italiane, senza soldi per potersi comprare da mangiare e per togliersi lo sfizio di un libro. Non è stata solo Torino però a vivere un week-end pre natalizio, diciamo, un po’ movimentato. Anche a Bologna, e più precisamente a Casalecchio di Reno, un centinaio di attivisti del TpO, dopo aver fatto la spesa al supermercato Esselunga, ha preteso lo sconto del 25% sui prodotti in vendita. La richiesta non è stata accettata dalla direzione del supermercato che, anzi ha pensato bene di chiudere il negozio. Gli attivisti sono quindi usciti dal punto vendita e hanno attraversato il centro commerciale in corteo scandendo slogans quali «Noi la crisi non la paghiamo!» e «Prima di tutto, Natale per Tutti».

Un insieme di iniziative, compiute si da attori diversi, ma che hanno in comune il desiderio di far aprire gli occhi, soprattutto in un periodo come quello natalizio dove lo shopping va per la maggiore e tutti mettono in mostra i loro buoni sentimenti, sulla difficile situazione di giovani, precari, famiglie e anziani che sempre più difficilmente devono fare a meno, non solo più oramai di piccoli svaghi e piaceri, ma di beni di prima necessità.

Tomaso Clavarino

Il Manifesto 23/12/2008


…peccato, si stava musicando ” il Vaticano annegherà, con dentro il papa”!

C.B.

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Hanno atteso 70 giorni prima di poterlo riabbracciare ma ora i famigliari di Santos Mirasierra, il tifoso marsigliese ingiustamente imprigionato a Madrid da più di due mesi, possono tirare finalmente un sospiro di sollievo: Santos è libero. La notizia è rimbalzata sui quotidiani francesi e spagnoli nel tardo pomeriggio di martedì, lo stesso tifoso marsigliese ne è venuto a conoscenza guardando i telegiornali in cella. E’ stato rilasciato dopo il pagamento di una cauzione di 6mila euro, cifra versata dall’Olympique Marsiglia, squadra della quale Santos è un acceso tifoso. Ma non è libero per sempre. La condanna a 3 anni e mezzo di carcere inflittagli venerdì scorso dal tribunale spagnolo rimane, i giudici hanno accettato il ricorso in appello del suo avvocato per cui, sino alla data del processo, Mirasierra potrà stare a casa con i suoi amici e forse tornare al suo posto di lancia-cori nel virage marsigliese.
La scarcerazione è segno di un tentativo dei giudici madrileni di limitare i danni derivati loro dalla vicenda. Innanzitutto attorno alla storia di Santos, arrestato con l’accusa di aver aggredito un poliziotto dopo la partita del primo ottobre tra Atletico Madrid e Olympique Marsiglia, dopo una violenta carica della guardia civil ed in seguito condannato per dei fatti non commessi e chiaramente smentiti da testimonianze e filmati video, attorno a questa vicenda si è creata un mobilitazione fortissima. In Francia, Spagna, Italia e in altri paesi, ci sono state raccolte di firme per chiedere la sua scarcerazione: sono intervenuti ministri, sportivi, giornalisti, attori, diplomatici. Sono state organizzate manifestazioni e cortei che hanno visto la partecipazione di migliaia di persone che chiedevano la sua liberazione. Evidenti agli occhi di tutti erano infatti le responsabilità della polizia spagnola e del club madrileno, scaricate su Santos. Il suo rilascio è un mezzo passo indietro che ammette gli errori delle autorità giudiziarie madrilene e che ai più sembra anche dettato dal tentativo di limitare possibili rappresaglie durante la partita di ritorno fra Om e Atletico, delle quali si era sparsa voce, soprattutto via internet. Per la cronaca, la partita, giocata martedì sera, è finita 0-0 ed è stata contraddistinta da un clima più festoso del solito, vista la notizia della liberazione del capo ultras del Marsiglia.
La famiglia ha dovuto attendere più del previsto nei pressi della prigione madrilena in quanto mancava un documento necessario per la liberazione, che è poi avvenuta nel tardo pomeriggio di ieri.
Tomaso Clavarino
il Manifesto 11/12/2008

Santos è libero!

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Finalmente! Dopo 69 giorni di detenzione, a due giorni dalla condanna in primo grado a 3 anni e mezzo, il tifoso marsigliese, Santos Mirasierra, per il quale si è mobilitato tutto il mondo delle tifoserie organizzate, e non solo, è stato rilasciato oggi pomeriggio su cauzione.

6000 euro, questa è la cifra che è stata pagata interamente dall’Olympique Marsiglia, e che permetterà a Santos di tornare a casa sua in attesa del processo di appello.

La condanna quindi rimane, non viene cancellata, e per questo la mobilitazione < deve continuare>, affermano gli ultras marsigliesi.

E’ comunque già un piccolo passo verso quella che si spera possa essere la sua assoluzione in appello.

T.C.


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Una location avveniristica, della musica di livello ed una regia d’avanguardia. Questi tre elementi, messi insieme, daranno vita al primo grande evento di capodanno a Torino. Non solo più, quindi, concerti in piazza e fuochi d’artificio, ma un festival musicale di richiamo nazionale.

Il Futur Festival, questo il suo nome, è nato dalla collaborazione tra Movement e Casasonica, due delle realtà più vivaci del panorama musicale torinese,«dopo il grande successo di Movement ad halloween – spiega Juni Vitale, uno degli organizzatori – abbiamo pensato di organizzare a Torino un capodanno diverso, che potesse richiamare gente anche dal resto d’Italia, e che potesse offrire qualcosa di alternativo ai giovani torinesi, molti dei quali, ci sembra di aver capito, sono stufi di festeggiare in piazza o nei soliti locali ». La location sarà l’Oval, «un modo per far vivere di più strutture bellissime, che in giro per il mondo ci invidiano, ma che purtroppo sono poco sfruttate», e sul palco si alterneranno musicisti e djs di fama internazionale, per quello che sarà, non un concerto, non una serata techno, ma un festival musicale nel vero senso della parola, con concerti live affiancati da diversi dj set.

Apriranno le danze i Subsonica, a tutti gli effetti la punta di diamante della scena musicale torinese, che, per la prima volta a Torino, saranno seguiti sul palco dai Motel Connection che, nati nel 2000 dall’incontro tra Samuel, voce dei Subsonica, Pisti e Pierfunk, sono una delle realtà più innovative della musica club italiana. Dopo questi due concerti live sarà la volta dei dj set che si alterneranno fino all’alba e che vedranno al lavoro sui mixer tre dj diversi, ma tutti di livello.

Il primo sarà Boosta, tastierista dei Subsonica che da alcuni anni è impegnato con ottimi risultati anche in consolle, seguito da Mauro Picotto, piemontese anche lui ed uno dei più famosi dj del mondo. Fondatore dell’etichetta Meganite, le sue serate si svolgono in alcuni dei locali più famosi del globo come il Ministry of Sound di Londra, lo Space di Miami o l’Arc di New York. Picotto chiuderà il cerchio degli artisti piemontesi e lancerà in consolle l’ospite straniero della serata, Josh Wink. Nato a Philadelphia è uno dei personaggi più stimati del mondo della musica techno, e porterà a Torino il suo inconfondibile sound, sperimentale ma allo stesso tempo ballabile. Artisti di primo piano per una serata che, nelle intenzioni degli organizzatori, «dovrà essere anche un momento di celebrazione per la vittoria di Torino come “Capitale europea dei giovani per il 2010”».

Un evento che non sarà gratuito, ma che «costerà 35 euro – afferma Juni Vitale – un prezzo popolare visti anche i costi dei locali per la sera di capodanno, che arrivano a costare anche 100 euro» e che, gli organizzatori sperano possa richiamare non meno di 8mila persone, «la cifra minima, ce ne aspettiamo ben di più ». «Si cercherà di rendere questo evento il più sicuro possibile – continua Vitale – e proprio in quest’ottica abbiamo chiesto al comune di intercedere con Gtt per predisporre dei collegamenti con l’Oval per far si che si possa raggiungere con dei mezzi pubblici. Il comune si è mostrato subito disponibile ma da Gtt non abbiamo ancora ricevuto risposte». Risposte che gli organizzatori sperano possano arrivare a breve, «per così poter organizzare al meglio il primo grande evento di capodanno nella storia di Torino».

Tomaso Clavarino

La Repubblica 7/12/2008

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IL TIFOSO DEL MARSIGLIA FERMATO A MADRID
Tre anni e mezzo. E’ questa la pena che Santos Mirasierra, il tifoso dell’Olympique Marsiglia detenuto dal primo ottobre a Madrid dopo gli scontri avvenuti allo stadio Vicente Calderon per la partita di Champions League tra Atletico Madrid e Om, dovrà scontare nelle carceri spagnole. Non sono bastate ai giudici le testimonianze degli altri tifosi, degli stessi poliziotti, dei gendarmi francesi al seguito: testimonianze che scagionavano Santos, del tutto estraneo ai fatti. Non sono bastate neanche le riprese televisive spagnole, nelle quali si notava con chiarezza come Mirasierra si fosse solo frapposto tra i tifosi e la guardia civil che li caricava senza motivo. Cercava di mediare con i poliziotti, lui che ha anche il passaporto spagnolo e quindi poteva dialogare con loro.
Il presidente dell’Om, Pape Diouf, si è detto scandalizzato dalla sentenza. «Non avrei mai pensato che una tale ingiustizia fosse possibile in una capitale europea come Madrid. E’ una cosa insopportabile». L’accusa aveva chiesto 8 anni, i giudici sono stati più «clementi» stabilendo che Santos avrebbe attentato all’incolumità di un agente brandendo un oggetto pericoloso eprovocandogli alcuni punti di sutura. Ora gli avvocati di Mirasierra ricorreranno in appello sperando che le testimonianze che smentiscono questa ricostruzione possano far cambiare idea alla Corte.
Mercoledì in aula, con occhi lucidi e grande commozione, Santos aveva detto: «è vero, sono un ultras, ma non sono né un hooligan né un criminale». 48 ore dopo è arrivata la condanna. Adesso si teme per l’ordine pubblico visto che mercoledì sera a Marsiglia giocherà l’Atletico Madrid: in rete circolano già minacce di guerra ma il gruppo principale del tifo marsigliese ha dichiarato di non volere vendette, solo giustizia.
Tomaso Clavarino
il Manifesto 6/12/2008

Impressioni sul film di Matt Aselton

La vita è una vasca piena d’acqua da cui non si può uscire, ma non per questo bisogna smettere di nuotare: questo è ciò che vuol dire Gigantic, mostrandoci nella prima scena il ratto da laboratorio numero 7, che si arrende sempre troppo presto durante i test sulla depressione. E Brian, il giovane protagonista della storia, sembra avere lo stesso problema di questo animale: taciturno e introverso, desidera da sempre adottare una bimba cinese. Alla fine del film ci riuscirà, con al suo fianco una ragazza, Happy, con cui iniziare una probabilmente felice relazione d’amore.
La storia in effetti racconta di un riscatto, in primo luogo da parte di Brian ma anche da parte di Happy; entrambi i giovani per alcuni lati si sentono insoddisfatti della propria vita, ma riusciranno a farsi forza e a non cedere, sconfiggendo gli ostacoli che, inevitabilmente, si incontrano. Lei capirà che, nonostante l’arrivo della bimba adottiva, vuole continuare la sua relazione con Brian, e quest’ultimo realizzerà il sogno della sua vita dopo anni di attesa.
La trama, di per sé, non è particolarmente originale, e pecca forse di esilità: ma questa mancanza è compensata da una buona caratterizzazione dei personaggi, compresi quelli di contorno, da dialoghi vivaci e divertenti, e parentesi surreali, cospargendo sul film una patina di bizzarria senza scadere nel ridicolo.
C’è il barbone che attenta continuamente alla vita del protagonista, senza nessun motivo evidente; e Brian ha sempre la peggio negli scontri con quest’uomo, non riuscendo nemmeno a ferirlo per quanto lo colpisca. Nel loro ultimo incontro, però, subito dopo la cena per festeggiare l’adozione a cui Happy non è venuta, riesce finalmente ad averne ragione, uccidendolo. Forse perché ha infine capito di dover andare avanti in ogni caso, per quanto possa essere ferito, in questo momento, dall’assenza di Happy o, più in generale, dalle normali avversità della vita?
E da notare è il fatto che, a colleghi o familiari che gli chiedono ragione dei lividi provocatigli dal barbone, Brian li attribuisce sempre ad una “partita fra amici”; alla domanda di Happy, invece, quando è per lui ancora una sconosciuta, risponde con la verità, “sono stato aggredito da un barbone”, tornando però, qualche giorno dopo, quando fra loro si è creato un legame e ha nuovamente subito uno scontro con quell’uomo, alla scusa della partita. Perché alle persone che si hanno più vicine non si possono confidare i propri problemi più difficili – e inspiegabili, come la quasi apatia che sembra appartenere al protagonista del film.
Tutti i personaggi della commedia, comunque, hanno un che di surreale e assurdo, come a dire che la normalità non esiste – e questo è semplicemente un dato di fatto da accettare: il padre di Happy, così, è un ricco uomo d’affari con delle idee tanto recise quanto immotivate su praticamente qualsiasi argomento, abituato a poter trattare chiunque come un inferiore. Ma non risulta, in fondo, antipatico, poiché lo spettatore è messo in condizione di vederne le debolezze e i lati più umani, ad esempio nel suo affetto per la figlia. La famiglia di Brian è anch’essa composta da persone tutt’altro che positive, e tuttavia non antipatiche: il fratello che ha degli affari più o meno legali con degli imprenditori cinesi e passa le serate ad ubriacarsi, il padre che non si è mai comportato come tale per sua stessa ammissione e, affrontando l’argomento, se la cava con un discorso tutt’altro che sensato. C’è poi l’amico scienziato, quello che fa gli esperimenti sui ratti e passa la vita in laboratorio a bere vodka mischiata ad alcohol etilico nei becher, e la madre di Happy che nemmeno riconosce la figlia al telefono, totalmente incapace di darle aiuto e conforto in un momento di bisogno.
L’opera prima di Matt Aselton, quindi, è una gradevole commedia sulla vita e le persone, una riflessione leggera ma non per questo meno valida.

Maria Luisa Brizio

Impressioni sul film di Rupert Wyatt

Durante la proiezione di The escapist ritenevo che scriverne la recensione fosse un compito non troppo impegnativo. Un film scorrevole, ben orchestrato, dal linguaggio fluido e dal ritmo coinvolgente. Poi sono arrivati gli ultimi dieci minuti, e ho scoperto che il film è più profondo di quanto lasci apparire.
La conclusione attiva nell’assetto narrativo spunti e significazioni rimasti latenti: è una chiave che apre uno scrigno di sensi fin a quel punto ben celati da un linguaggio attento a non discostarsi troppo dagli schemi tradizionali. Nonostante la rivoluzione di prospettiva apportata dal finale, ho intenzione di dividere questa recensione in due parti: il film “normale” (tutta la pellicola escluse le ultime sequenze), e il film più profondo (la ri-lettura della normalità seguendo un percorso interpretativo illuminato dalle rivelazioni in chiusura).
The escapist racconta la fuga da un carcere di massima sicurezza di cinque detenuti. Frank, condannato all’ergastolo, è il più vecchio e ha ideato il piano in tutti i minimi dettagli. Ha deciso di fuggire perché la figlia è in fin di vita e vuole rivederla un’ultima volta.
La struttura narrativa si svolge su due piani temporali ad alternanza reciproca: il tempo della preparazione e il tempo della fuga. Lo spettatore assiste all’evolversi del progetto nella mente dei cinque, poi incorre in una sequenza ad alto contenuto di azione in cui i protagonisti stanno già scappando, per poi di nuovo tornare indietro nel tempo alle fasi di progettazione. Il tempo presente (pensare la fuga) si proietta sulle frequenti prolessi (ciò che avverrà) in un movimento oscillatorio incessante, avanti e indietro. La costruzione formale è una prima occasione per ragionare sul binomio immaginazione-realizzazione: può il pensiero essere così pragmatico da adeguarsi all’evento dell’azione? L’immaginazione può agire sulla realtà? Questo aspetto tornerà utile quando parlerò del finale.
La suspence è degna del miglior film di azione e lo spettatore è gettato nei sotterranei della prigione per seguire la rapida marcia dei fuggitivi incalzati dalle forze dell’ordine. Frank e il ragazzo più giovane del gruppo riusciranno a raggiungere la metropolitana, lo sbocco alla società civile, alla libertà. La macchina da presa inquadra gli ultimi, difficili passi di un Frank ferito e spossato avviato all’imboccatura del tunnel. Dal basso verso l’alto, il protagonista compie la sua ultima ascesa verso un mondo senza celle. The escapist potrebbe essere un film sull’aria aperta, sulla dolcezza del vento e sul candore delle farfalle. Un film sulla libertà contrapposta alle angustie e alle ingiustizie della reclusione.
Ma non è così. L’ennesimo sbalzo indietro, nel presente, riporta lo spettatore alle ultime fasi del progetto di fuga. Quando tutto è pronto, Frank riceve una visita dalla moglie: la figlia è morta. La sua fuga non ha più senso. Mentre i compagni fuggono davvero, Frank è coinvolto in un regolamento di conti fra detenuti e viene accoltellato a morte.
Tutte le prolessi inserite dall’inizio del film non sono che gli ultimi atti di immaginazione di Frank: come sarebbe andata se fosse fuggito con gli altri. Compie un atto di invenzione pura. Le scale della metropolitana affrontate a fatica sono solo nella sua testa. Il cielo, le nuvole, l’aria sono un’immagine della sua mente, sono il suo ultimo sforzo di rompere con l’uniformità grigia in cui da anni è recluso. Prima di morire, Frank confida al suo assassino che la vera libertà sta nella forza del desiderio: l’andare oltre, il trascendere le pareti scrostate della realtà per lasciarsi avvolgere dalle possibilità infinite delle costruzioni narrative. Nei suoi ultimi attimi di vita non fa che ri-creare un film (un romanzo, un racconto breve…): un personaggio interno alla narrazione diventa il responsabile fittizio della narrazione stessa.
Il carcere non è più un’enclave in cui gli scarti dell’umanità sono reclusi in nome dell’ordine sociale; non è più uno spazio a sé, un’eccezione alla retta via. Il carcere diventa allegoria dell’intera società molteplice e frantumata, grigia, drogata e controllata da un potere corrotto: la nostra realtà. Non c’è via di uscita pragmatica, al momento: tutto va troppo male. Del resto, come fuggire dalla realtà stessa?
Forse solo tramite il sogno. Il vero fuggitivo è l’autore di immaginazioni proiettate al (im)possibile. Non è un caso che l’ultimo atto di Frank prima di essere pugnalato è quello di terminare la lettura di un romanzo. L’immaginazione al potere, allora, anche a costo di essere un potere immaginato, fragile a confronto con la forza bruta della materia.
I sotterranei della prigione sono spazi costruiti dall’immaginario del protagonista: l’architettura del sottomondo ricorda incredibilmente le ambientazione di Alien, o de Il signore degli anelli. Frank perpetua per l’ennesima volta un impulso inalienabile all’uomo: inventare, opporre una soluzione fantastica al brutto del qui e ora. Il significato del film, allora, non è un semplice percorso dialettico fra prigione e libertà. Il senso in gioco riguarda anche il rapporto fra realtà e finzione. Viviamo in un’epoca in cui non si riesce più a credere in un altro mondo possibile, la gabbia che ci rinchiude al di qua di Utopia è infrangibile. La condizione della contemporaneità è una prigione buia e ingiusta, le sbarre sono solide. È bene iniziare a non accettare più le regole e a far suonare i nostri oggetti metallici contro queste sbarre. Tornare a fare rumore perché ci sentano, di nuovo. Arriveranno tempi in cui potremmo costruire mondi possibili e anche realizzabili. Ora non ci resta l’immaginazione come unica pulsione propositiva.

Francesco Migliaccio

Impressioni sul film di Woo Ming Jin

Mentre entravo al cinema per assistere allo spettacolo, ho cominciato ad immaginarmi un po’ come potesse essere un film malese.
Sì, insomma, nonostante mi sia già imbattuto in film estremo-orientali, non avevo mai nemmeno sentito parlare di un film malese.
Mentre rimanevo seduto in attesa che la proiezione iniziasse mi sono reso conto che non sapevo cosa aspettarmi: è stata un’autentica prima volta.
Successivamente, ho letto che Kurus era stato inizialmente ideato per la televisione malese, e solo in seguito si è pensato ad un allargamento per il “grande” pubblico.
Si tratta, se vogliamo definirlo così, di un prodotto DOC.
Il film, infatti, agli occhi di un occidentale si presenta inconsueto.
Inconsueto, perché nel corso dell’ora e trenta minuti circa, mantiene un ritmo costante, sembra quasi che niente possa smuovere lo scorrere lento ed inesorabile degli eventi, che ti costringe ad una visione totalmente diversa da quella, per noi più consueta, dei prodotti holliwoodiani, in cui dal momento in cui ti siedi fino ai titoli di coda è il ritmo e la rapida successione dei fatti a trasportarti all’interno della storia. In Kurus, invece, il ritmo ricorda quello dei granelli di sabbia in una clessidra: all’inizio si pensa che il fondo non si riempirà mai e invece, quasi incredibilmente, dopo un’ora ci si accorge che la testa della clessidra si è svuotata. Il film è sicuramente meno noioso che guardare per un’ora i granelli di sabbia di una clessidra, la storia mi ha interessato ed è narrata con molta semplicità e un po’ di tenerezza per certi aspetti.
Alì, il quindicenne protagonista della vicenda, si ritrova a doversi dividere tra i problemi dell’adolescenza e una condizione familiare non troppo rosea: vive col padre che non riesce a pagare i suoi debiti di gioco, il bulletto della classe lo tormenta, la nuova professoressa d’inglese molto avvenente gli mette in circolo gli ormoni e sembra, però, ricambiare le attenzioni del giovane protagonista.
In quest’opera, ed è il regista stesso a dirlo, c’è anche un po’ di autobiografia: “Io stesso avevo una cotta per la mia insegnante a sedici o diciassette anni e in quel periodo le cose erano sempre innocenti ed eccitanti. Immagino che il film sia per me una sorta di fantasia, perché nella vita reale la mia insegnante non si è mai accorta di me”.

Simone Traversa

Impressioni sul film di Andrzej Wajda
Nel 1940 15.000 ufficiali polacchi furono trucidati dai sovietici e gettati nelle fosse comuni, nella foresta di Katyn, a Ovest di Mosca. Fino alla caduta dell’Unione Sovietica, le forze politiche in Polonia hanno sempre sostenuto che i responsabili dell’eccidio fossero i tedeschi, nel ‘42, durante l’offensiva nazista in territorio russo. In un’intervista rilasciata ultimamente, il regista, Andrzej Wajda, afferma di aver voluto scavare nella storia del suo paese per disseppellire una verità dimenticata per almeno cinquant’anni. Una volta crollato il muro, oggi, nel 2008, sembra esserci la serenità storica per indagare fra le pagine più sanguinose del regime comunista.
Katyn è un film sulla verità. Una verità assoluta (verrebbe da scrivere Verità, per seguire l’intento del regista) che si contrappone a tutte le piccole verità relative, legate agli interessi economici e politici del potere. Il film diventa allora una testimonianza di realtà: Wajda ricostruisce l’evento assumendo il punto di vista duplice degli ufficiali polacchi prigionieri in URSS e delle famiglie rimaste in Polonia. Il dramma umano degli individui si mescola al desiderio collettivo di una Polonia libera da qualsiasi occupazione o ingerenza straniera. Il filo narrativo, sotto questa luce, si dispiega chiaro e lineare: una nazione divisa in due durante la guerra, la comunità polacca dilaniata dai soprusi dell’Ovest (i nazisti) e dell’Est (i comunisti), la fine della guerra, il Blocco Sovietico e il Patto di Varsavia, una Polonia controllata da Mosca. Nel mezzo si trova la popolazione, si trovano i cittadini che accettano il nuovo ordine a aderiscono al Partito, i dissidenti che pagano con la vita le loro posizioni, le persone che semplicemente si adeguano, nella ricerca individuale di un futuro un poco migliore. Tutto con il terribile sfondo del massacro. Il film si avvia alla conclusione mostrando le pagine del diario dell’ufficiale Andrzej: la scrittura che riempie ogni giorno si interrompe all’improvviso. Morte per i prigionieri di guerra, umiliazione e sofferenza per i famigliari rimasti ad attenderli.
Tutto sembra coerente e l’analisi potrebbe fermarsi qui. Un piccolo tassello però non mi pare funzioni. Cercherò, d’ora in avanti, soffermarmi su quello.
Come ho scritto, il film è la manifestazione di una verità sepolta da decenni. Sepolta da che cosa? Dai racconti, dalle narrazioni, dalle versioni di come sono andate le cose. Nel film si mostra come le due forze in guerra (i nazisti prima, i comunisti poi) confezionino filmati di propaganda per ottenere il consenso della popolazione. Sono due i filmati propagandistici ricostruiti secondo i linguaggi dell’epoca e inseriti da Wajda nella narrazione. Entrambi raccontano delle fosse di Katyn. Alla versione proiettata dai nazisti nel corso dell’occupazione tedesca del territorio polacco segue quella sovietica durante la controffensiva che porterà alla caduta del Terzo Reich. Sono esattamente identiche nella forma: i cadaveri vittime delle esecuzioni sommarie, i primi piani sui teschi forati dai proiettili, la riesumazione di corpi senza nome, gli uffici sacrali delle autorità religiose, il monito a ricordare l’eccidio nel momento in cui si sta fondando il nuovo Stato polacco. Le variazioni del contenuto sono poche ma decisive: la responsabilità del crimine (i comunisti per i tedeschi e viceversa), il riferimento al nuovo ordine politico (di matrice nazista per i primi, di costituzione sovietica per i secondi). Ogni forza in campo cerca di ottenere il consenso e il controllo sulla popolazione tramite i mezzi di comunicazione di massa. Sono le strutture retoriche, le tecniche discorsive, a proporre una determinata verità anziché un’altra. La verità viene costruita dall’immagine e dalla narrazione, in base ai fini politici da raggiungere. Ci si potrebbe aspettare dal film un ragionamento su questo aspetto, sulla soggettività della macchina da presa, sul pericolo di creare opinione tramite l’illusione dell’oggettività. Wajda non percorre questa strada, sceglie (pretende?) di mostrare la realtà proprio nell’oggettività dell’accaduto. Non compie allora lo stesso errore dei cine-giornali? Davvero si può accedere alla Verità tramite la macchina da presa?
Prima di proseguire, voglio sgomberare il campo da qualsiasi fraintendimento: non ho nessuna intenzione di entrare nel merito storico di questioni dibattute da decenni, ma cerco di attenermi principalmente a osservazioni di carattere estetico. Inoltre non voglio certo sostenere un principio di relatività estrema secondo il quale non sia definibile cosa sia realmente accaduto. Abbiamo ottime prove e giustificazioni per poter affermare che siano stati effettivamente i comunisti i responsabili della strage. E ogni condanna storica e politica che contestualizzi l’accaduto è doverosa. Esprimere artisticamente un nucleo di concetti, tuttavia, è molto più complesso che attribuire la verità o la falsità di un’affermazione, o di un evento storico.
Riprendo l’analisi del film. Nell’ultima parte vengono esposti gli omicidi nella loro più disarmante crudezza. In primo piano si assiste a molteplici esecuzioni: stanza buia, pistola sulla nuca, il colpo esplode, il sangue schizza sulle pareti, i soldati sovietici puliscono le pareti e ripetono il macello. I corpi vengono poi portati fuori e gettati nelle fosse comuni, con i volti imbrattati di sangue, lo sguardo perso nel vuoto, i visi emaciati. La via del realismo più amaro viene intrapresa attraverso la violenza e l’immediatezza dell’immagine. Ma non è solo una sensazione di realtà? Non è uno degli espedienti più riusciti nel cinema contemporaneo per far credere al pubblico che quella che si mostra sia proprio vero? Eppure non è che costruzione, non è che effetto. Vorrei porre una domanda, nonostante è probabile che rimanga senza risposta: perché la ricostruzione del film dovrebbe essere più Vera di quella proposta dal cine-giornale nazista? Escludo dalla comparazione la ricostruzione sovietica, che è inficiata da una falsità chiara (non sono stati i nazisti a compiere quella strage). Il filmato nazista, invece, esprime la stessa versione proposta da Wadja, ma non c’è dubbio che il regista la consideri pura propaganda e la metta sullo stesso piano di quella proposta dai sovietici (il parallelismo formale descritto sopra ne è chiara testimonianza). Le soluzioni sono due: o il film costruisce la verità senza raggiungere la Verità (come il filmato di propaganda, e le finalità del regista sarebbero disattese) oppure se ne discosta assumendo un valore essenziale superiore. Per la seconda possibilità, insisto nel chiedermi: se ne discosta in cosa? Di certo Katyn non è identico alla comunicazione di massa tipica nel clima bellico. Inoltre sono cambiati i parametri di fruizione e le tecniche di costruzione dell’immagine ed è estremamente differente il genere di riferimento: finalità politica da una parte, finalità estetica universale dall’altra. Non credo tuttavia che le differenze, per quanto abissali, possano permettere al cinema (e a qualsiasi atto artistico rappresentativo) di raggiungere l’universalità del fatto come esso è. E poi: l’arte può essere così universale da non avere nulla a che fare con il contesto storico da cui nasce? Se così fosse, la Verità sarebbe raggiungibile. Il problema è tutto qui: non credo che si possa fare arte fine a sé stessa, arte slegata dalla contingenza. Wadja lo crede e decide di costruire degli effetti stilistici (il sangue che schizza in modo da provocare i gorgoglii di impressione fra il pubblico) che hanno un fine così trascendente (la testimonianza della Realtà) da liberarsi della connotazione finzionale da cui si generano.
Sono più propenso a credere nell’illusione referenziale, se la referenza è posta tramite l’esasperazione della violenza, il troppo di realtà. Un’illusione che coinvolge il pubblico fino a far perdere il contatto fra realtà e finzione, fra costruzione narrativa e tangibilità degli oggetti.
Alla domanda: “Perché si può parlare, oggi, della strage di Katyn?”, Wadja risponde che il crollo del muro e del regime hanno permesso un clima più disteso e più aperto alla discussione storica delle ferite più aperte. È vero, ma il clima non è certo a-storico, nonostante sia stata teorizzata la fine della Storia proprio dopo il crollo dei socialismo (è un caso di fortuita coincidenza?). Altre forze e altre dinamiche continuano a persistere e ognuno deve farci i conti. Anche il cinema.
Il realismo dell’Oggettività Pura presuppone che tutti gli spettatori siano ingenui, che dimentichino la compresenza di realtà e finzione. Nella contemporaneità non possiamo più esserlo e non ci resta che aprire il giornale. E notare i rapporti in politica estera che stanno coinvolgendo Polonia, Russia e Stati Uniti.

Francesco Migliaccio

Impressioni sul film di Stephen Frears

Il film risale al 1985, è stato annoverato tra i cento film inglesi più belli del XX secolo. Questo, certo, non è una garanzia del fatto che il film possa piacere, ma di sicuro è una garanzia del fatto che quello che si va a vedere non sia un film di serie B, o peggio.
Il film ripercorre la storia del giovane Omar, figlio di un giornalista socialista pachistano emigrato in Inghilterra, caduto in disgrazia a causa dell’etilismo. Omar ha uno zio (Nasser), anche lui in Inghilterra, un imprenditore che gestisce un parcheggio, e in più anche un piccolo traffico di stupefacenti per “arrotondare” le entrate. Omar si ritrova così preso fra più fuochi: da una parte il padre che spera di vederlo proseguire gli studi all’università, dall’altra lo zio che vede in Omar un ottimo successore e vuole che si occupi degli affari di famiglia, da un’altra la figlia dello zio che animata dal fuoco delle passioni adolescenziali vorrebbe portare avanti una relazione con lui e fuggire da una famiglia che la opprime, ed infine ci sono le sue aspirazioni e i suoi sogni.
Riesce a farsi consegnare dallo zio in custodia una lavanderia che si trova in uno stato pietoso, dicendogli che riuscirà a risistemarla, e da questo proposito nasceranno molti problemi e colpi di scena: per rimettere in piedi la lavanderia Omar assumerà un suo vecchio amico d’infanzia (Johnny), ex nazista, col quale instaurerà una relazione sentimentale, e sempre per la lavanderia Omar ruberà della cocaina allo zio, avendo bisogno di soldi.
Il film potrebbe ricordare vagamente l’ascesa di Tony Montana in Scarface, anche se con molte differenze, prima tra tutte la nazionalità dei due protagonisti, la quale in My beautiful laundrette ha un’importanza fondamentale. La storia, infatti, gioca molto sul forte attaccamento alle tradizioni e da parte della famiglia di Omar, e naturalmente mostra anche i paradossi che ne scaturiscono: molto significativa (e intelligente) è la scena in cui Nasser fa sfrattare un barbone da un suo appartamento, e quando gli si rinfaccia che una cosa del genere sarebbe anche potuta capitare ad un pachistano, lui risponde “Io di lavoro faccio l’imprenditore, mica il pachistano”.
Altra differenza sostanziale è il fatto che Omar sia omosessuale e che debba dibattersi tra lo zio che lo vuole come sposo per sua figlia, e la sua omosessualità.
La figura di Johnny ha, inoltre, un significato molto importante: inizialmente viene semplicemente assunto come operaio per ristrutturare la lavanderia: strana anomalia un pachistano che assume un inglese ex nazista. Se la si volesse leggere in chiave filosofica si potrebbe parlare di un capovolgimento della dialettica servo-padrone.
Le tematiche affrontate sono quindi molto serie ma, come tutte le opere inglesi, anche questa non rinuncia alla sdrammatizzazione: un esempio è quello sopracitato dello zio Nasser, ma ce ne sono molti altri presenti nel film.
Non è un film che lascia indifferenti, anzi fa molto pensare, e anche se il film ha ventitrè anni li porta bene e continua ad essere attuale.

Simone Traversa

Impressioni sul film di Francisco Franco – Alba

L’esordio alla regia cinematografica del messicano Francisco Franco-Alba convince positivamente per la profondità dei temi e la delicatezza con cui sono trattati: i due nuclei tematici della storia sono, da un lato, il dualismo famiglia/mondo esterno, l’identità delle proprie radici in opposizione a un mondo altro in cui reinventarsi, tema legato a filo doppio ai problemi dell’adolescenza e della scoperta della propria sessualità.

La storia, in breve, è la seguente: Helena è una giovane ragazza che dedica tutto il suo tempo ad assistere la madre morente e ad occuparsi del fratello adolescente, Sebastiàn; egli è attratto da un compagno di scuola, Juan, con cui intesserà una relazione che finirà a causa della partenza forzata di quest’ultimo, poco dopo la morte della madre. Queste vicende porteranno, alla fine, alla disgregazione del nucleo familiare e alla vendita della casa dove i due ragazzi sono sempre vissuti.
Ciò che la storia esemplifica è perfettamente espresso dal titolo: a un certo punto della vita tutti si trovano a dover “bruciare le navi”, tagliando col proprio passato per andare avanti, nonostante la paura dell’ignoto. E importante forse non è tanto il fatto in sé di lasciarsi tutto alle spalle quanto il percorso attraverso il quale si arriva a questo punto, che non è altro se non un’esplorazione del proprio sé.
Tutti, si diceva, affrontano nella propria esistenza un punto di non ritorno che li pone di fronte a una scelta, così oltre che sulle vicende dei protagonisti il regista getta uno sguardo distratto sulla storia di una suora, insegnante di Sebastiàn, che lascia il velo per iniziare una relazione d’amore.
Grazie soprattutto ad un’ottima recitazione i personaggi sono vivi e coinvolgenti, e i rapporti interpersonali traggono una grande forza espressiva più da sguardi e da gesti che dalle parole in sé.
Così il legame fra i due fratelli, all’inizio, si presenta forte ed affettuoso, chiaramente dominato da Helena: essa è il prototipo della custode del focolare domestico, attaccatissima alla sua famiglia da cui cerca di escludere qualunque “estraneo” che, anche se con buone intenzioni, voglia aiutarli. E tuttavia tiene una bacheca con le pubblicità di viaggi in paesi lontani e canta appassionatamente una canzone che recita “un giorno me ne andrò da qui e non tornerò mai più”, il che suona, al termine della visione, più come una profezia inconsapevole che come un reale desiderio della ragazza. Essa è testarda e possessiva, con un carattere difficile e scontroso, ma saprà accettare, finalmente, la diversità del fratello e la non-esclusività del loro rapporto.
Taciturno e introverso, invece, è Sebastiàn; l’incontro con Juan lo cambierà profondamente, rendendolo più forte ma comunque non abbastanza per salire con lui sul pullman che lo porta via dalla sua città. Da quel momento, dall’allontanamento del ragazzo di cui era innamorato e dalla scoperta, da parte della sorella (che subito non l’accetta), della sua omosessualità, inizia il suo distacco dalla famiglia, dalle sue radici. Lo scontro con Helena è duro, aperto, in particolare quando lei strappa davanti ai suoi occhi i ritratti che Sebastiàn aveva fatto di Juan, come a negare l’esistenza di quest’ultimo, e qualsiasi rapporto avesse avuto con suo fratello.
Perché, per Sebastiàn, i disegni sono il mezzo di comunicazione della sua intimità: segnano le tappe del suo attaccamento a Juan, dipingendo il suo volto, dipingendo il mare che gli ha fatto immaginare di vedere. E strappare il ritratto di Helena, invece, è la presa di coscienza della fine del loro rapporto così come lo conoscevano, privo di increspature, avendo imparato, almeno Sebastiàn, di non essere nemmeno lui stesso così come si conosceva. La sequenza filmica che narra l’episodio è molto intensa, nella sua perfetta simmetria: durante il sonno di Helena, che dorme sullo sfondo, Sebastiàn seduto alla scrivania strappa i disegni che la ritraggono, e che il giorno dopo la stessa Helena, durante il sonno di Sebastiàn, che dorme sullo sfondo, seduta alla scrivania ricompone con lo skotch – come a restaurare la situazione iniziale, priva di conflittualità.
Un altro personaggio interessante nella storia è Ismael, l’amico di sempre, che cerca di proteggere Sebastiàn e gli vuole sinceramente bene, sino a provocare l’allontanamento di Juan; e l’unico bacio omosessuale che si vede nel film è proprio quello che Sebastiàn, ubriaco, dà a Ismael dopo la partenza di Juan – come a punirlo per quello che ha fatto. La reazione di Ismael è la fuga, letteralmente, fra le braccia di una ragazza che, in seguito, sposerà.
Quemar las naves, in definitiva, è un’opera matura ed espressiva, fra i film in concorso certamente uno dei più validi; e da parte mia resto nell’attesa curiosa dei futuri lavori cinematografici di Francisco Franco-Alba.

Maria Luisa Brizio

Impressioni sul film di Dennis Gansel

– Credete che oggi sia possibile una dittatura?
– No, non più. Siamo preparati, abbiamo imparato cosa significa il nazismo

Una domanda di un professore delle superiori, a una classe di ragazzi tedeschi. La risposta è condivisa. Non ci sono più i presupposti per compiere gli stessi errori. Rainer Wenger, professore di storia con un passato da anarchico, propone una prova sperimentale per verificare l’assunto. Autarchia nella classe per una settimana intera: gli studenti si alzano in piedi per parlare, si devono riferire al professore con deferenza, si vestono tutti uguali (jeans e camicie bianche), inventano un saluto per riconoscersi, stampano un simbolo. Creano un’onda (Die Welle), un corpo unitario, compatto e coeso. Gli individui (prima litigiosi, indecisi, indolenti…) diventano gruppo, coordinati e organizzati in nome di un’unione tetragona, fino a dominare l’ambiente scolastico. Con un problema: se c’è un gruppo, c’è anche un fuori, un esterno a, un altro. L’avanguardia da una parte, i dissidenti (pochissimi) dall’altra.
Un piccolo totalitarismo adolescenziale in vitro, in cui ogni pensiero prende forma solo se è maggioritario, solo se è conformato alla corrente più forte e trascinante. Tutti fanno con decisione quello che tutti fanno: uno dei circoli viziosi più pericolosi della storia. Finirà in tragedia, con uno sconsolato monito alla vigilanza critica continua, perché il fascismo sembra più longevo di quanto si sia sperato.
Ma il problema è più complesso di quanto possa sembrare a una prima occhiata. Il gruppo (la sua autorità, le sue regole, i suoi linguaggi) è una via di fuga proprio per chi non vuole essere emarginato. La maggioranza forte, l’uguaglianza delle camicie bianche, diventa la risposta alla solitudine, alla paura, al disagio di fonte a un mondo dal futuro sempre più sfumato. L’individuo che non è sincronizzato con la realtà, che è fuori luogo e fuori tempo, è disposto a privarsi della personalità, pur di esser parte di un’unità più ampia.
Ma il problema è più complesso anche a una seconda occhiata. La dialettica singolo/comunità non si può ridurre soltanto all’insicurezza post-moderna da una parte e alla via totalitaria dall’altra. Ribalto il problema: che dire dell’individuo self-made contrapposto all’unione di una comunità in lotta per i diritti? Forse un’onda pluri-individuale è indispensabile se davvero si vuole rincorrere un mondo migliore. E l’individualità non è che egoismo interessato. Tento di porre un’altra domanda per trovare una soluzione provvisoria: gruppo di chi? Formato da quali criteri? Alla base dell’autarchia di estrema destra c’è sempre una discriminazione razziale (il colore della pelle, il colore della camicia). Costruire una comunità aperta a tutti, allora, in cui si conservino le singole identità? Troppo bello (forse troppo retorico) perché non sia solo una proposta provvisoria.
Ancora, un po’ più in là. A sinistra, oltre l’autarchia reazionaria. Centralismo democratico o dissidenza? Il Partito o il libero pensiero? Il problema è così serio che per cercare una risposta si è arrivati a una soluzione definitiva: niente più sinistra.
Le problematiche sollevate da Die Welle sono così complesse da concretizzare il rischio di cadere fuori tema. Non ho parlato del film, che è molto bello. Il pubblico ha apprezzato. Tutti quanti, all’unisono, hanno applaudito.

Francesco Migliaccio

Sprechi in Comune

A Torino spesi 600mila euro in lavori di ristrutturazione di una scuola da abbattere

La scuola elementare Collodi, di corso Benedetto Croce 26, verrà demolita entro il 2011. Ma soltanto l’anno scorso il comune ha speso 600mila euro per una serie di interventi di risanamento. La decisione, che è stata presa all’interno del Piano triennale delle opere pubbliche 2009/2011, è così motivata dall’assessore alle risorse educative Luigi Saragnese:« abbiamo deciso, per evidenti motivi di costi, che sia più conveniente, nel caso, come questo, di edifici di una certa età, abbattere e ricostruire ex novo la scuola piuttosto che lavorare alla sua ristrutturazione». Quindi la scuola non sparirà, non sono previsti piani di accorpamento in quanto, come precisa l’assessore «la presenza di questa scuola è assolutamente necessaria per soddisfare le richieste del territorio», ma verrà ricostruita. Il termine dei lavori di abbattimento e riedificazione, previsto secondo il piano triennale per il 2011, sarà tuttavia posticipato, a detta di Saragnese, di un paio di anni, viste le difficoltà del comune a reperire le risorse necessarie, «si slitterà presumo al 2013». La decisione coglie impreparati sia il dirigente scolastico che sostiene di «non essere al corrente della decisione» che il presidente della circoscrizione 9, Giovanni Pagliero, che afferma di essere stato a conoscenza soltanto dell’ipotesi dell’abbattimento. L’opposizione attacca, in particolare il consigliere circoscrizionale Alessandro Lupi che ha seguito passo per passo l’evoluzione di tutta la vicenda, «mi sembra davvero singolare che si decida di abbattere e ricostruire un edificio dopo che, appena un anno fa, sono stati effettuati degli ingenti lavori di ristrutturazione ». Lavori, quelli ai quali si riferisce il consigliere, che sono stati approvati con due delibere, una del 24 agosto del 2005 e l’altra del 24 aprile del 2007, e sono costati, al comune, quasi 600mila euro. «Nella scuola c’erano problemi strutturali per i quali sono stati necessari degli interventi – continua Lupi- c’erano crepe e infiltrazioni d’acqua, quello che sorge spontaneo chiedersi allora è se, vista la decisione di abbattere l’edificio, questi problemi permangono. Nel qual caso sarebbe un pericolo continuare a mandare i ragazzi a scuola». Sulla questione sia l’assessore che il dirigente scolastico rassicurano dicendo che «non vi è alcun tipo di problema, si è svolto pochi giorni fa un controllo e non è risultata nessuna anomalia».Inoltre Saragnese ribadisce che la decisione di rifare ex novo l’edificio «è stata presa non per problemi persistenti ,ma, bensì, in un ottica di risparmio».

Tomaso Clavarino

La Repubblica 28/11/2008