Classe Media Blues


MIDDLE CLASS BLUES

wir koennen nicht klagen.
wir haben zu tun.
wir sind satt.
wir essen.

das gras waechst,
das sozialprodukt,
der fingernagel,
die vergangenheit.

die strassen sind leer.
die abschluesse sind perfekt.
die sirenen schweigen.
das geht vorueber.

die toten haben ihr testament gemacht.
der regen hat nachgelassen.
der krieg ist noch nicht erklaert.
das hat keine eile.

wir essen das gras.
wir essen das sozialprodukt
wir essen die fingernaegel.
wir essen die vergagenheit.

wir haben nichts zu verheimlichen.

wir haben nichts zu versaeumen.
wir haben nichts zu sagen.
wir haben.

die uhr ist aufgezogen.
die verhaeltnisse sind geordnet.
die teller sind abgespuelt.
der letzte autobus faehrt vorbei.


er ist leer.

wir koennen nicht klagen.

worauf warten wir noch?
CLASSE MEDIA BLUES

Non possiamo lamentarci.
Abbiamo da fare.
Siamo sazi.
Mangiamo.

Cresce l’erba,
il prodotto sociale,
l’unghia delle dita,
il passato.

Le strade sono vuote.
Le chiusure sono perfette.
Le sirene tacciono.
Questo passa.

I morti hanno fatto il loro testamento.
La pioggia è cessata.
La guerra non è stata dichiarata.
Questo non è urgente.

Noi mangiamo l’erba.
Noi mangiamo il prodotto sociale.
Noi mangiamo le unghie.
Noi mangiamo il passato.

Non abbiamo nulla da nascondere.
Non abbiamo nulla da perdere.
Non abbiamo nulla da dire.
Abbiamo.

L’orologio è caricato.
La vita è regolata.
I piatti sono lavati.
L’ultimo autobus sta passando.


È vuoto.

Non possiamo lamentarci.

Cosa aspettiamo ancora?

(Hans Magnus Enzensberger)

Odio gli indifferenti...



Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.


L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.

L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.

Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrificio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.


Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti. 

ANTONIO GRAMSCI

Eduardo


<<A vita è tosta e nisciuno t'aiuta...
e si 'na vota quaccuno t'aiuta,
è solamente pe' te dicere 
"t'aggio aiutato">>

La nuova paura dell’Occidente.


Quelli che, come me che scrivo e voi che leggete, stanno dalla parte di gran lunga privilegiata del mondo hanno forse perso il significato drammatico della parola straniero. Se i rapporti sociali fossero perfettamente equilibrati, la parola straniero, con i suoi quasi sinonimi odierni (migrante, immigrato, extra-comunitario) e le loro declinazioni nazionali (magrebino, islamico, senegalese, rom, cinese, cingalese, eccetera), sarebbe oggi una parola neutrale, priva di significato discriminatorio.
Non sarebbe più una parola della politica conflittuale. E invece lo è, e in misura eminente. Se consultiamo costituzioni e convenzioni internazionali, traiamo l´idea che esiste ormai un ordinamento sopranazionale, che aspira a diventare cosmopolita, dove almeno un nucleo di diritti e doveri fondamentali è riconosciuto a ogni essere umano, per il fatto solo di essere tale, indipendentemente dalla terra e dalla società in cui vive. Questo è un progresso della civiltà. Nelle società antiche, lo straniero era il nemico per definizione (hospes-hostis), poteva essere depredato e privato della vita. Il presupposto era l´idea dell´umanità divisa in comunità separate, naturalmente ostili l´una verso l´altra. Lo straniero, in quanto longa manus di potenze nemiche, era da trattare come nemico. Da allora, molto è cambiato, innanzitutto per le esigenze dei traffici commerciali. Il nómos panellenico e lo jus gentium, lontanissimi progenitori del diritto internazionale, nascono da queste esigenze. L´universalismo cristiano, in seguito, ha dato il suo contributo. Nella medievale res publica christiana e nello jus commune l´idea di straniero perde di nettezza, sostituita se mai, nella sua funzione discriminatoria, da quella di infedele o di eretico.
E l´universalismo umanistico e razionalistico ha dato l´ultima spinta. Il concetto di straniero, nella sua portata discriminatoria, non è però mai morto, anzi ha sempre covato sotto la cenere, a portata di mano per affermare "legalmente" l´esistenza di una nostra casa, di un nostro éthnos, di un nostro ordine, di un nostro benessere.
I regimi totalitari del secolo passato vi hanno fatto brutale ricorso. Ad esempio, per restare da noi, la "Carta di Verona", manifesto del fascismo di Salò, all´art.7 dichiarava laconicamente: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri», come prodromo della confisca dei beni e dello sterminio delle vite. Una sola parola, terribili conseguenze. Si può ben dire che, dopo quelle tragedie xenofobe, la "Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo" del 1948 rappresenti, nell´essenziale, la condanna di quel modo di concepire l´umanità per comparti sociali e territoriali, ostili tra loro. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti»: l´appartenenza a uno Stato o a una società, piuttosto che a un´altra, passa in secondo piano e non può più essere motivo di discriminazione. Ciò che conta è l´uguale appartenenza al genere umano e la fratellanza in diritti e dignità non conosce confini geografici, etnici e politici. Da allora, l´idea di una comunità mondiale dei diritti ha fatto strada. Le convenzioni e le dichiarazioni internazionali si sono moltiplicate e hanno riguardato ogni genere di diritti.
Se si tratta di essenziali diritti umani, la protezione non dipenderà dalla nazionalità, riguardando tutte le persone che, per qualsiasi ragione, si trovano a essere o transitare sul territorio di un Paese che aderisce a questa concezione dei diritti umani e non è condizionata dalla reciprocità. Tutto bene, dunque? La parola straniero non contiene oggi alcun significato discriminatorio o, almeno, è destinata a non averne più. Possiamo stare tranquilli?
Proviamo a guardare la questione dal punto di vista degli stranieri che stanno dalla parte debole e oggi si riversano nei nostri paesi. Essi sono alla ricerca di quelle condizioni di vita che, nei loro, sono diventate impossibili, spesso a causa delle politiche militari, economiche, energetiche e ambientali dei paesi più forti. Si riconoscerebbero costoro in quella "famiglia umana" di cui parlano le convenzioni internazionali sui diritti umani? Concorderebbero nel giudizio che la parola straniero non comporta discriminazione? La trappola sta nella distinzione tra straniero "regolare" e "irregolare". Ciò che è irregolare, per definizione, dovrebbe trovare nella regola giuridica il suo antidoto: quando è possibile, per impedire; quando è impossibile, per regolarizzare. Invece, nel caso degli stranieri migranti, la legge promuove, anzi amplifica l´irregolarità, invece di tentare di ricondurla nella regola. Così facendo, è legge criminogena. Fissiamo innanzitutto un punto: il flusso migratorio non si arresterà con misure come quote annue d´ingresso, permessi e carte di soggiorno, espulsione degli irregolari. Questi sono strumenti spuntati, che corrispondono all´illusione che lo Stato sia in grado di fronteggiare un fenomeno di massa con misure amministrative e di polizia. Esse potevano valere in altri tempi, quando la presenza di stranieri sul territorio nazionale era un fenomeno di élite. Oggi è un fatto collettivo che fa epoca, mosso dalla disperazione di milioni di persone che vengono nelle nostre terre, tagliando i ponti con la loro perché
non avrebbero dove ritornare. Li chiamiamo stranieri "irregolari", ma sono la regola. Siamo in presenza di una grande ipocrisia, che si alimenta della massa degli irregolari, un´ipocrisia che va incontro a radicati interessi criminali. Non ci sarebbe il racket sulla vita di tante persone che muoiono nei cassoni di autotreni, nelle stive di navi, sui gommoni alla deriva e in fondo al mare;
non ci sarebbe un mercato nero del lavoro né lo sfruttamento, talora al limite della schiavitù, di lavoratori irregolari, che non possono far valere i loro diritti; non ci sarebbe la facile possibilità di costringere persone, venute da noi con la prospettiva di una vita onesta, a trasformarsi in criminali, prostituti e prostitute, né di sfruttare i minori, per attività lecite e illecite; non ci sarebbe tutto questo, o tutto questo sarebbe meno facile, se non esistesse la figura dello straniero irregolare, inerme esposto alla minaccia, e quindi al ricatto, di un "rimpatrio" coatto, in una patria che non ha più. La prepotenza dei privati si accompagna per lui all´assenza dello Stato. Per la stessa ragione, per non essere "scoperto" nella sua posizione, l´irregolare che subisce minacce, violenze, taglieggiamenti non si rivolgerà al giudice; se vittima di un incidente cercherà di dileguarsi, piuttosto che essere accompagnato in ospedale; se ammalato, preferirà i rischi della malattia al ricovero, nel timore di una segnalazione all´Autorità; se ha figli, preferirà nasconderne l´esistenza e non inviarli a scuola; se resta incinta, preferirà abortire (presumibilmente in modo clandestino). In breve, lo straniero irregolare dei nostri giorni soggiace totalmente al potere di chi è più forte di lui.
I diritti valgono a difendere dalle prepotenze dei più forti, ma non ha la possibilità di farli valere: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla salute, all´integrazione sociale, al lavoro, all´istruzione, alla maternità… Davvero, allora, la parola straniero, nel mondo di oggi, è priva di significato discriminatorio? Possiamo da qui tentare una sintetica conclusione, molto parziale, sul tema della sicurezza e della legalità, oggi così acutamente avvertito. Quella sacca di violenza che è il mondo degli irregolari è una minaccia non solo per loro, ma per tutta la società. La condizione dello straniero irregolare, su cui incombe la spada di Damocle dell´espulsione, sembra essere studiata apposta per generare insicurezza, violenza e criminalità che contagiano tutta la società. Quando si metterà mano alla legge n. 189 del 2002 (la cosiddetta Bossi-Fini) sarà utile rammentarsi di queste connessioni. 

Gustavo Zagrebelsky

La parola straniero...


La parola del dizionario che maggiormente detesto e che, nonostante l’evoluzione del diritto e delle mentalità,      risulti la più arcaica nella sopravvivenza dell’uso e  della rappresentazione, è la parola “straniero”. Nelle lingue indoeuropee, il termine che designa lo straniero contiene contemporaneamente in sé l'intero repertorio delle accezioni semantiche dell'alterità, e cioè il forestiero, l'estraneo, il nemico, lo strano. Tutto ciò che viene avvertito come "altro" rispetto a me, e col quale tuttavia istituisco un rapporto, viene insomma condensato in un unico termine.
In molti dialoghi di Platone è spesso lo straniero a fare domande: nel Sofista solleva la questione più ardita, "parricida" (40; 13), "temibile", "rivoluzionaria" (41; 13), "eversiva" (44; 17), contestando il dogmatismo del logos paterno nel dire l’alterità del non essere, mettendo così sottosopra la tranquilla routine della tradizione. Anche ne Il politico è uno straniero a formulare la domanda "temibile" e "intollerabile" (44; 17) del politico e della politica, dell’uomo stesso come essere politico. Talvolta è Socrate stesso a diventare straniero precisamente per il suo essere "l’uomo sconcertante della domanda" (45; 19): nell’Apologia, quando è in gioco la sua stessa vita, egli parla la lingua del pensiero, non quella della retorica tribunalesca, né quella della sottigliezza sofistica e, paradossalmente, lui che è cittadino a tutti gli effetti, chiede di essere ospitato come se fosse uno straniero, che Atene dia spazio all’alterità della filosofia. E' significativo che Socrate si dica xenos (straniero), appena poche righe dopo essersi collocato fisicamente nel cuore della vita dell'agorà. Socrate è nello stesso tempo in Atene e lontanissimo da essa.  Nel Critone Socrate, che immagina di comportarsi come uno straniero, abbandonando la città dopo essere evaso dal carcere, deve fare poi i conti con le Leggi della città, che gli rimproverano la sua sfida alla loro maestà.
Nel De Officiis Cicerone usa per indicare lo straniero la parola latina hostis che non designa affatto originariamente il nemico, ma indica piuttosto genericamente l'estraneo, senza che sia in alcun modo possibile stabilire se si tratti di uno straniero ovvero propriamente di un nemico. Il significato del termine hostis diviene più chiaro se è posto in rapporto col termine che ne rappresenta in qualche modo il correlato necessario, vale a dire il termine hospes. L’hospes e l’hostis, derivando dalla stessa radice,  sono sinonimi e indicano originariamente l'estraneo. Ma l'origine comune di questi due termini si conserva nella loro potenziale intercambiabilità, nel senso che colui che è hospes è sempre anche hostis, è sempre nella condizione di diventare egli stesso "straniero", viandante, bisognoso di ospitalità. Al punto da poter affermare che hostis e hospes non indicano due "stati", due condizioni oggettive e immutabili, ma segnalano piuttosto due dinamiche che si intrecciano e sono sempre suscettibili di convertirsi l'una nell'altra. Ciascuno di noi, dunque, è al tempo stesso e inscindibilmente ospite e straniero, in quanto l'alterità - in qualunque forma essa si manifesti - è fondamentale per la definizione della nostra identità.
 Ma facendo uno sforzo di immaginazione proviamo a considerare lo straniero come l’essere presente davanti a sé stessi, o l’alter-ego (un altro se stessi, un simile).
Come scrive Paul Ricoer (La condition d’étranger,  Esprit, marzo-aprile 2006, p. 264-275), <<e’ straniero chi non è chez-nous, chi non è dei nostri>>. Ma il paradosso di questa equazione, è la necessità della presenza dello stesso straniero, per potersi osservare, attraverso di lui, come se lo straniero fosse uno specchio sul quale far riflettere sé stessi.  E generalmente  non ci si vede (nessuno può vedere la propria faccia, il proprio corpo, il proprio stato generale) che alla presenza di un mediatore, che sarà, in realtà, uno specchio, e metaforicamente, un essere simile, che è lo straniero, l’altro, colui che non è sé stessi.  Lo straniero è allo stesso tempo lo specchio necessario per la riflessione su se stessi, ed il nemico pericoloso, la somma di tutte le apprensioni! È una situazione tanto strana e crudelmente paradossale, “l’essere da soli al mondo” è sinonimo di follia e di perdita di unità. L’altro è necessario perché il sé si affermi! L’alterità è la ragion d’essere di se stessi, senza la quale non ci si può affermare, né confermare la propria identità, né conformarsi ad un ideale, né portare avanti un progetto.
E pertanto, qualcosa non torna nel nostro rapporto con noi stessi, perché vogliamo che gli altri vengano allontanati da noi, che non superino le nostre frontiere, che non deformino “l’essenza” dell’identità, per il disadattato all’alterità, che non minaccino i nostri modi di vivere e il nostro vivere; ma, il punto più alto di questa schizofrenia, che non dice il proprio nome, sta nel volere che essi siano a nostra immagine, che apprendano la nostra lingua, che assimilino i nostri valori, che portino, supportino e trasportino le nostre idee e i nostri ideali. Una grave biforcazione tra il desiderio dell’altro e il suo rigetto, dal volerlo come uno specchio e il confinarlo come una minaccia.
Finalmente l’apprensione dello straniero è una “strana impresa di se stessi”, tra la paura dell’estraneo e la volontà d’essere presente nel suo immaginario, ed il suo spazio culturale e fattuale. Nel linguaggio popolare potremmo identificare questo fenomeno con l’espressione “volere la botte piena e la moglie ubriaca”. In una analisi filosofica una tale impresa è una crisi di se stessi.  
La lettura che fa Jacques Derrida dell’eredità greca (De l’hospitalité, Clamann-Lévy, 1997) a proposito della percezione dello straniero risulta pertinente: <<lo straniero scuote il dogmatismo minaccioso del logos paterno>>. Gli stranieri senza permesso di soggiorno (i clandestini) risultano una minaccia per l’ordine stabilito e il dogmatismo del logos paterno si esprime nell’amministrazione prefettizia e nella sua macchina amministrativo- giuridica, <<come se - scrive Derrida -  lo straniero dovesse contestare l’autorità del capo, del padre, del capo famiglia (…)>>.
Tutti i provvedimenti prefettizi di ricondotta alla frontiera sono di natura “paternalistica”, e non è possibile che lo straniero possa contestare questo provvedimento che nel linguaggio amministrativo-giuridico prefettizio, che è assolutamente fondato, avendo un significato semantico, una motivazione nazionale, un fondamento legale, un fondamento istituzionale, per i suoi ricorsi e percorsi. Come può lo straniero, nella sua condizione di schiacciato dal destino, contestare un provvedimento fondato, perché legale, nazionale, istituzionale ?
Nei dialoghi platonici tra Teeteto e Xenos, rimarchiamo come Xenos contesti Parmenide affermando che “il non essere è”, il nulla esiste. Derrida sostiene che affermare “il non essere è”, rappresenta una sfida alla logica paterna di Parmenide, una sfida venuta dallo straniero.
Lo straniero senza documenti, che contesti un provvedimento dell’autorità nazionale, potrebbe sostenere che la decisione contro la quale ricorre riveli il non essere, o meglio “il non essere” per simili provvedimenti “è”! Esiste ! Di quale “non essere” si agiterebbe lo straniero ? Solo lo straniero vede in tale provvedimento (che si vuole coerente, logico, istituzionale, emanato dal prefetto con la sua autorità legale) una ingiustizia, qualcosa di illogico, di assurdo, di “non essere”. In breve è l’ordinamento che stabilisce le frontiere dell’ammissibile e dell’inammissibile e dunque ciò che è fuori dall’ordinamento (lo straniero), o l’irregolare che descrive l’ordinamento come “non essere”, o ingiusto o assurdo. Ma lo straniero non ha diritto di giudicare l’ordinamento! Lui è, quid facti, quid juris, senza dirittiFra i problemi seri di cui trattiamo, c’è quello dello straniero che essendo poco padrone del lingua del paese in cui è giunto, rischia sempre di rimanere senza difesa davanti alle leggi del Paese da dove viene espulso; lo straniero è in primo luogo straniero alla lingua del diritto nel quale è formulato il dovere dell’ospitalità.
Ed eccoci alla percezione dello straniero: colui che non parla la lingua del paese ospitante. Lo straniero è colui che non ha voce, colui che è senza terra (un territorio riconosciuto, vero o simbolico). Le parole guest (straniero), host (l’ospite) , ghost (lo spettro, fantasma) hanno una sottile differenza. Uno straniero che sarà un ospite? Un ospite che diventa una minaccia ? C’è come una sacralità dello straniero. Lui esiste senza avere una esistenza reale. Esiste biologicamente come corpo che si muove, ma non esiste dal punto di vista amministrativo per il riconoscimento sociale. Senza documenti, effettivamente lo straniero  penetra in una condizione spettrale: si esiste senza esistere. E’ la stessa interrogazione di Xenos che parla dell’esistenza del non- essere. Lo straniero senza documenti denuncia il “non essere” (l’assurdità, l’ingiustizia, la crudeltà) della amministrazione pubblica e questa ne fa un “non essere”, senza una esistenza giuridica che consenta di lavorare, viaggiare, di avere accesso ai fondamentali diritti sociali. Lo straniero è il guest-host- ghost nel territorio nel quale gli viene interdetto di soggiornare. Lui è lo straniero- minaccia, l’ospite perturbante, l’uomo infame, il disadattato che altera le regole sociali del Paese in cui giunge.  


MC

A Delio

Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini  viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa.
                                                                               
                                                       Antonio Gramsci