La parola del dizionario che maggiormente detesto e che,
nonostante l’evoluzione del diritto e delle mentalità, risulti la più arcaica nella sopravvivenza dell’uso e della rappresentazione, è la parola “straniero”.
Nelle lingue indoeuropee, il termine che designa lo straniero contiene
contemporaneamente in sé l'intero repertorio delle accezioni semantiche
dell'alterità, e cioè il forestiero, l'estraneo, il nemico, lo strano. Tutto ciò che viene avvertito come "altro"
rispetto a me, e col quale tuttavia istituisco un rapporto, viene insomma
condensato in un unico termine.
In molti dialoghi di Platone è spesso lo straniero a fare
domande: nel Sofista solleva la questione più ardita,
"parricida" (40; 13), "temibile",
"rivoluzionaria" (41; 13), "eversiva" (44; 17), contestando
il dogmatismo del logos paterno nel dire l’alterità del non essere,
mettendo così sottosopra la tranquilla routine della tradizione. Anche ne Il
politico è uno straniero a formulare la domanda "temibile" e
"intollerabile" (44; 17) del politico e della politica, dell’uomo
stesso come essere politico. Talvolta è Socrate stesso a diventare straniero
precisamente per il suo essere "l’uomo sconcertante della domanda"
(45; 19): nell’Apologia, quando è in gioco la sua stessa vita, egli
parla la lingua del pensiero, non quella della retorica tribunalesca, né quella
della sottigliezza sofistica e, paradossalmente, lui che è cittadino a tutti
gli effetti, chiede di essere ospitato come se fosse uno straniero, che Atene
dia spazio all’alterità della filosofia. E' significativo che Socrate si dica xenos (straniero), appena poche
righe dopo essersi collocato fisicamente nel cuore della vita dell'agorà. Socrate è nello stesso tempo
in Atene e lontanissimo da essa. Nel Critone
Socrate, che immagina di comportarsi come uno straniero, abbandonando la città
dopo essere evaso dal carcere, deve fare poi i conti con le Leggi della città,
che gli rimproverano la sua sfida alla loro maestà.
Nel De Officiis Cicerone usa per indicare lo straniero
la parola latina hostis che non designa affatto originariamente il
nemico, ma indica piuttosto genericamente l'estraneo, senza che sia in alcun
modo possibile stabilire se si tratti di uno straniero ovvero propriamente di
un nemico. Il significato del termine hostis diviene più chiaro se è
posto in rapporto col termine che ne rappresenta in qualche modo il correlato
necessario, vale a dire il termine hospes. L’hospes
e l’hostis, derivando dalla stessa radice, sono sinonimi e indicano originariamente
l'estraneo. Ma l'origine comune di questi due termini si conserva nella loro
potenziale intercambiabilità, nel senso che colui che è hospes è sempre
anche hostis, è sempre nella condizione di diventare egli stesso
"straniero", viandante, bisognoso di ospitalità. Al punto da poter
affermare che hostis e hospes non indicano due "stati", due
condizioni oggettive e immutabili, ma segnalano piuttosto due dinamiche che si
intrecciano e sono sempre suscettibili di convertirsi l'una nell'altra.
Ciascuno di noi, dunque, è al tempo stesso e inscindibilmente ospite e
straniero, in quanto l'alterità - in qualunque forma essa si manifesti - è
fondamentale per la definizione della nostra identità.
Ma facendo uno sforzo
di immaginazione proviamo a considerare lo straniero come l’essere presente
davanti a sé stessi, o l’alter-ego (un altro se stessi, un simile).
Come scrive Paul Ricoer (La
condition d’étranger, Esprit, marzo-aprile
2006, p. 264-275), <<e’ straniero chi non è chez-nous, chi non è dei
nostri>>. Ma il paradosso di questa equazione, è la necessità della
presenza dello stesso straniero, per potersi osservare, attraverso di lui, come
se lo straniero fosse uno specchio sul quale far riflettere sé stessi. E generalmente non ci si vede (nessuno può vedere la propria
faccia, il proprio corpo, il proprio stato generale) che alla presenza di un
mediatore, che sarà, in realtà, uno specchio, e metaforicamente, un essere
simile, che è lo straniero, l’altro, colui che non è sé stessi. Lo straniero è allo stesso tempo lo specchio
necessario per la riflessione su se stessi, ed il nemico pericoloso, la somma
di tutte le apprensioni! È una situazione tanto strana e crudelmente paradossale,
“l’essere da soli al mondo” è sinonimo di follia e di perdita di unità. L’altro
è necessario perché il sé si affermi! L’alterità è la ragion d’essere di se
stessi, senza la quale non ci si può affermare, né confermare la propria
identità, né conformarsi ad un ideale, né portare avanti un progetto.
E pertanto, qualcosa non torna nel nostro rapporto con noi
stessi, perché vogliamo che gli altri vengano allontanati da noi, che non
superino le nostre frontiere, che non deformino “l’essenza” dell’identità, per
il disadattato all’alterità, che non minaccino i nostri modi di vivere e il
nostro vivere; ma, il punto più alto di questa schizofrenia, che non dice il
proprio nome, sta nel volere che essi siano a nostra immagine, che apprendano
la nostra lingua, che assimilino i nostri valori, che portino, supportino e
trasportino le nostre idee e i nostri ideali. Una grave biforcazione tra il
desiderio dell’altro e il suo rigetto, dal volerlo come uno specchio e il
confinarlo come una minaccia.
Finalmente l’apprensione dello straniero è una “strana
impresa di se stessi”, tra la paura dell’estraneo e la volontà d’essere
presente nel suo immaginario, ed il suo spazio culturale e fattuale. Nel
linguaggio popolare potremmo identificare questo fenomeno con l’espressione
“volere la botte piena e la moglie ubriaca”. In una analisi filosofica una tale
impresa è una crisi di se stessi.
La lettura che fa Jacques
Derrida dell’eredità greca (De l’hospitalité,
Clamann-Lévy, 1997) a proposito della percezione dello straniero risulta
pertinente: <<lo straniero scuote il dogmatismo minaccioso del logos
paterno>>. Gli stranieri senza permesso di soggiorno (i clandestini) risultano
una minaccia per l’ordine stabilito e il dogmatismo del logos paterno si
esprime nell’amministrazione prefettizia e nella sua macchina amministrativo-
giuridica, <<come se - scrive Derrida -
lo straniero dovesse contestare l’autorità del capo, del padre, del capo
famiglia (…)>>.
Tutti i provvedimenti prefettizi di ricondotta
alla frontiera sono di natura “paternalistica”, e non è possibile che lo
straniero possa contestare questo provvedimento che nel linguaggio
amministrativo-giuridico prefettizio, che è assolutamente fondato, avendo un
significato semantico, una motivazione nazionale, un fondamento legale, un
fondamento istituzionale, per i suoi ricorsi e percorsi. Come può lo straniero,
nella sua condizione di schiacciato dal destino, contestare un provvedimento
fondato, perché legale, nazionale, istituzionale ?
Nei dialoghi platonici tra Teeteto e Xenos, rimarchiamo come
Xenos contesti Parmenide affermando che “il non essere è”, il nulla esiste.
Derrida sostiene che affermare “il non essere è”, rappresenta una sfida alla
logica paterna di Parmenide, una sfida venuta dallo straniero.
Lo straniero senza documenti, che contesti un provvedimento
dell’autorità nazionale, potrebbe sostenere che la decisione contro la quale
ricorre riveli il non essere, o meglio “il non essere” per simili provvedimenti
“è”! Esiste ! Di quale “non essere” si agiterebbe lo straniero ? Solo lo
straniero vede in tale provvedimento (che si vuole coerente, logico,
istituzionale, emanato dal prefetto con la sua autorità legale) una
ingiustizia, qualcosa di illogico, di assurdo, di “non essere”. In breve è
l’ordinamento che stabilisce le frontiere dell’ammissibile e dell’inammissibile
e dunque ciò che è fuori dall’ordinamento (lo straniero), o l’irregolare che
descrive l’ordinamento come “non essere”, o ingiusto o assurdo. Ma lo straniero
non ha diritto di giudicare l’ordinamento! Lui è, quid facti, quid juris, senza
diritti. Fra i problemi seri di
cui trattiamo, c’è quello dello straniero che essendo poco padrone del lingua
del paese in cui è giunto, rischia sempre di rimanere senza difesa davanti alle
leggi del Paese da dove viene espulso; lo straniero è in primo luogo
straniero alla lingua del diritto nel quale è formulato il dovere
dell’ospitalità.
Ed eccoci alla percezione dello straniero: colui che non
parla la lingua del paese ospitante. Lo straniero è colui che non ha voce,
colui che è senza terra (un territorio riconosciuto, vero o simbolico). Le
parole guest (straniero), host (l’ospite) , ghost (lo
spettro, fantasma) hanno una sottile differenza. Uno straniero che sarà un
ospite? Un ospite che diventa una minaccia ? C’è come una sacralità dello
straniero. Lui esiste senza avere una esistenza reale. Esiste biologicamente
come corpo che si muove, ma non esiste dal punto di vista amministrativo per il
riconoscimento sociale. Senza documenti, effettivamente lo straniero penetra in una condizione spettrale: si
esiste senza esistere. E’ la stessa interrogazione di Xenos che parla
dell’esistenza del non- essere. Lo straniero senza documenti denuncia il “non
essere” (l’assurdità, l’ingiustizia, la crudeltà) della amministrazione
pubblica e questa ne fa un “non essere”, senza una esistenza giuridica che
consenta di lavorare, viaggiare, di avere accesso ai fondamentali diritti
sociali. Lo straniero è il guest-host- ghost nel territorio nel quale gli viene
interdetto di soggiornare. Lui è lo straniero- minaccia, l’ospite perturbante,
l’uomo infame, il disadattato che altera le regole sociali del Paese in cui
giunge.
MC