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Michela Murgia – Libri – Opere – Bibliografia

Michela Murgia

Michela Murgia, nata e Cabras (OR) nel 1972 è stata una scrittrice, intellettale, coscienza e voce libera. Ci ha lasciato il 10 agosto 2023

Libri di Michela Murgia pubblicati in Italia:

Opere Postume:

Michela Murgia -Libri - Opere

Aggiornato Gennaio 2024

I figli sono finiti – Walter Siti

Incipit I figli sono finiti - Walter Siti

Incipit I figli sono finiti

«Anche fino a trenta ma non ci arriverà, scommettiamo.» Queste le ultime parole che Augusto ha inteso, insieme al sorriso incoraggiante dell’anestesista. Non ci è arrivato, in effetti, e nemmeno fino a quindici. Quel che importa è tremare. “Contate fino a dieci, poi dite se siete felici.” Ho pianto prima del sei, ma piangere è da gay. L’attacco di Pearl Harbour e la risposta americana, “non smetteremo finché la lingua giapponese non sarà parlata solamente all’inferno”. Pentagono, esagono, eptagono. Nella vita nuova, un cuore di cerbiatto viene offerto alla regina malvagia al posto di quello di Biancaneve. Augusto si inoltra in un pozzo che si restringe sempre di più, anche se la profondità rimane la stessa: grandi e piccole labbra. Un cucciolo viene avvelenato con l’acqua da bere, e con un brivido Augusto si accorge all’ultimo istante che il cane è Enzino. “I bufali non bevono sakè, lo gestisco io questo evento.” La Sinistra Infradito lo invita per una visita alla torre di Palazzo Vecchio, il sindaco Nardella loda i restauri; Augusto sale sbuffando e trascinando per le scale una bicicletta, ma la abbandona prima della rampa a chiocciola e spera che non gliela fottano – la piegatura temporale gli si conficca nella carne accusandolo di tutto. La catastrofe procede per gradi, non per gradini. Arrivato sulla piattaforma in cima, è troppo in alto per ammirare la città: si vedono solo le colline infiammate dall’autunno e, di fronte, Fiesole. Dio osserva da uno spioncino tra le nuvole.

Incipit tratto da:
Titolo: I figli sono finiti
Autore: Walter Siti
Casa editrice: Rizzoli
Qui è possibile leggere le prime pagine di I figli sono finiti

I figli sono finiti - Walter Siti

Quarta di copertina / Trama

Per un gioco del caso, due esseri umani molto diversi si trovano a essere dirimpettai in una palazzina milanese. Augusto è un settantenne trapiantato di cuore, vedovo da poco, che interpreta la sofferenza come un lasciapassare per il cinismo; Astòre è un ventenne deluso dalla propria stessa precocità, che si considera un eremita digitale. Raccontando la loro reciproca diffidenza mentre lentamente si trasforma in bizzarra amicizia, Siti ci parla delle mutazioni in corso nella nostra società, dove lo sviluppo tecnologico è così rapido che nessuna certezza riesce a stargli dietro; dove tutti si amano male, dove il miraggio del post-umano rischia di trasformarsi in una liquidazione dell’umanità, dove l’intelligenza artificiale incoraggia il rifiuto dei sentimenti e il Bene è un esito della paura.
Augusto e Astòre sono due risposte sbagliate a una identica domanda sul senso e la direzione del progresso; ma sono anche due creature sotto il cielo trafitte dai propri traumi, che incrociandosi fanno i conti con la morte. Con la tenerezza rabbiosa e la leggerezza consentite ai vecchi, Siti rivisita i suoi temi ossessivi e chiude il cerchio; confermandoci che la curiosità non può morire, anche se è troppo tardi per guardare indietro e troppo presto per sperare.
(Rizzoli)

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Locus desperatus – Michele Mari

Incipit Locus desperatus - Michele Mari

Incipit Locus desperatus

Quattro tavole originali del Necron di Magnus, due del Dick Tracy di Chester Gould, due del Li’l Abner di Al Capp, un Cocco Bill dedicatomi da Jacovitti; una calcografia di Piranesi, altrettanto originale; una madonna lignea del Cinquecento, con tracce dell’antica doratura; l’Oca di Enzo Mari; la lampada Toio di Achille Castiglioni; la prima edizione dell’Ortis foscoliano, quella dei Canti orfici di Dino Campana, quella del Voyage au bout de la nuit autografata dall’autore… Quel certo oggettino, in cui si rapprendeva una tenerezza lontana, quei testimoni fraterni ormai radioattivi… Contemplai qualche altra beltà, indugiando del guardo come a sussumerla nelle avide entragne, e questa, e quest’altra, e quelle che non vedevo ma sapevo esserci in giro, nelle altre stanze, o al chiuso; poi, quasi strappandomi a me stesso, spensi la luce e uscii. Girai la chiave secondo l’immutabile rito, quattro mandate a destra, una indietro, un’altra a destra, poi tre conati di spinta a saggiare l’avvenuta chiusura, per un totale di nove operazioni: undici con l’inserimento e il disinserimento.
Potevo dunque andare, ma in quella, alzando lo sguardo, vidi una cosa strana. Sulla porta, subito sopra lo spioncino, un segno fatto con il gesso: una croce, cm. 10 x 10 all’incirca. Non una X: una croce, ciò che rendeva quel segno, già di per sé inquietante nel suo abuso vigliacco, ancora piú spiacevole. Non infatti un segno, ma IL segno: e che segno! Ancorché anacronistico, se riferito al testamento antico… Cercai di ricordare il passo preciso, i due angeli segnavano le case che dovevano essere distrutte o quelle che sarebbero state risparmiate? La Bibbia del Diodati, dovevo controllare, ma intanto non potevo sfuggire alla domanda che mi rintronava in capo siccome tempesta: ero un giusto, io? Potevo sperare di essere considerato tale? Ne dubitavo, e comunque un controllo: salii e scesi le scale per esaminare le altre porte, su cui niente, nessun tipo di segno. Cosí ero io, il prescelto, ma prescelto per cosa? Non volevo saperlo, reinfilai la chiave nella toppa e aprii senza rispettare il rituale, corsi in cucina, inumidii una spugna e tornai fuori, a cancellare lo stigma.

Incipit tratto da:
Titolo: Locus desperatus
Autore: Michele Mari
Casa editrice: Einaudi
Qui è possibile leggere le prime pagine di Locus desperatus

Locus desperatus - Michele Mari

Quarta di copertina / Trama

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In filologia, il locus desperatus indica un passo testuale corrotto e insanabile, per il quale il filologo è costretto a gettare la spugna contrassegnandolo con la cosiddetta «croce della disperazione». E a dare l’avvio a questa storia è proprio una piccola croce, disegnata nottetempo con un gessetto su una porta. Un mattino, uscendo dal suo appartamento, il protagonista nota quel segno appena sopra lo spioncino dell’ingresso di casa: chi può essere stato a farlo, e che significato ha? L’uomo cancella la croce, ma il giorno seguente, e poi quello ancora successivo, il segno ricompare implacabile. Il mistero s’infittisce quando al residente viene imposto uno scambio: qualcuno prenderà il suo posto, e lui dovrà giocoforza trasferirsi. Ma cambiando abitazione sarà costretto a cambiare anche identità: tutte le cose dentro l’appartamento, infatti, dovranno a loro volta scegliere. O fuggiranno insieme a lui, oppure passeranno a un nuovo proprietario – macchiandosi di alto tradimento. Perché ogni oggetto amato ha un’anima, e dunque una sua volontà. Da sempre le case, nella storia della letteratura cosí come nella vita, sono il luogo dove gli avvenimenti piú banali si mescolano a quelli fatidici. L’abitazione al centro di Locus desperatus, però, assomiglia alla Hill House immaginata da Shirley Jackson, o alla Casa Usher di Poe: un’entità senziente, con un suo carattere ben preciso. Un luogo dove l’inconscio di chi ci abita, dopo una lunga frequentazione, è divenuto tutt’uno con i libri, le stampe, gli oggetti e i ricordi d’infanzia. E chi meglio di Michele Mari poteva raccontare lo struggimento e le ossessioni per i feticci accumulati nel corso di un’esistenza, ingaggiando un duello con la propria memoria affettiva? L’autore di Verderame e di Leggenda privata ci consegna una stramba discesa agli inferi e insieme una spietata tassonomia dei ricordi. Un romanzo tormentato e divertente sul senso ultimo che diamo agli oggetti: «Senza le mie cose io non sarei stato piú io, e senza di me loro non sarebbero state piú loro».
(Einaudi)

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Aria di famiglia – Alessandro Piperno

Incipit Aria di famiglia - Alessandro Piperno

Incipit Aria di famiglia

Dopo i cinquant’anni è così tanta la gente che inizia a morirti intorno che a un certo punto non ci fai nemmeno più caso.
Peccato che a tirare le cuoia stavolta non fosse stato il solito vecchio attrezzo in disuso, bensì la ragazza che al liceo aveva diviso con me l’ultimo banco a sinistra (e, se ancora è consentito dirlo, qualcosa di più appagante e licenzioso). Dei compagni con cui mi ero diplomato, Veronica Gentileschi era la prima ad aver raggiunto la data di scadenza.
A informarmi della disgrazia era stato Federico Montenuovo. La sua voce affabile e pastosa aveva spezzato un incantesimo lungo trent’anni: tanto era passato dall’ultima volta che l’avevo sentita.
Il funerale avrebbe avuto luogo il pomeriggio seguente in una chiesa di piazza del Popolo non lontana dalla casa in cui Veronica e il suo compagno avevano allevato tre figlie, una coppia di parrocchetti e una comune di cagnolini pietosamente strappati alla strada.
Federico parlava del funerale di Veronica Gentileschi come una volta avrebbe parlato della festa di Myrta Messori all’Open Gate: un evento imperdibile. Per questo, benché escludessi di prendervi parte, esitavo a metterlo in chiaro. Una reticenza che lo aveva indotto a rilanciare: «A proposito, dopo la funzione ci vediamo tutti da me. Niente di lugubre, solo una rimpatriata».
«Non siamo troppo vecchi per Il grande freddo?» «Parla per te, prof.» E si era lasciato andare a quella risata che già da ragazzo mi sembrava fatta apposta per lenire dubbi e sanare controversie.

Incipit tratto da:
Titolo: Aria di famiglia
Autore: Alessandro Piperno
Casa editrice: Mondadori
Qui è possibile leggere le prime pagine di Aria di famiglia

Aria di famiglia - Alessandro Piperno

Quarta di copertina / Trama

Cosa succede quando a cinquant’anni ti ritrovi all’improvviso un moccioso tra i piedi? È quello che il professor Sacerdoti – romanziere, accademico e impenitente misantropo – sta per scoprire.
Proprio lui che ha improntato i rapporti parentali a una gelida indifferenza, si vede recapitare per via di un lutto famigliare un bambino di otto anni: Noah Meisner, figlio di una sua lontana cugina ortodossa; un ragazzino silenzioso e sfuggente, precocemente attaccato alle tradizioni. Tutto il contrario del suo miscredente tutore, che lo accoglie in una casa piena di libri, improvvisandosi padre con risultati piuttosto maldestri. Cacciato dall’università per un’accusa tanto infamante quanto insulsa e alle prese con i fantasmi di un passato tragico, sarà pronto il Professore ad aprire la porta a un destino che sta per sconvolgergli la vita? Come lui e Noah impareranno, l’aria di famiglia è una calamita insidiosa e irresistibile.
Con la stessa felicità narrativa che illumina Di chi è la colpa, Alessandro Piperno segue il suo protagonista con ironia e irriverenza, ma anche con grande tenerezza, tratteggiando i chiaroscuri della mezza età. Aria di famiglia è un romanzo da cui si fa fatica a staccarsi, che ammalia e diverte – e alla fine commuove -, in cui niente è come sembra e tutto cambia rapidamente.
(Mondadori)

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