La famiglia, i divorziati e i giovani. Papa Francesco: «Proporre una conoscenza esistenziale di Cristo»

7 febbraio 2014 – Papa Francesco

Il discorso del pontefice ai vescovi polacchi: «Bisogna insistere di più sulla formazione della fede vissuta come relazione, nella quale si sperimenta la gioia di essere amati e di poter amare».

Stralcio del discorso pronunciato da Papa Francesco ai vescovi polacchi ricevuti in visita «ad limina Apostolorum».

FAMIGLIA E DIVORZIATI (…) Prima di tutto, nell’ambito della pastorale ordinaria, vorrei focalizzare la vostra attenzione sulla famiglia, «cellula fondamentale della società», «luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 66). Oggi invece il matrimonio è spesso considerato una forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno (cfr. ibid.). Purtroppo questa visione influisce anche sulla mentalità dei cristiani, causando una facilità nel ricorrere al divorzio o alla separazione di fatto. I Pastori sono chiamati a interrogarsi su come assistere coloro che vivono in questa situazione, affinché non si sentano esclusi dalla misericordia di Dio, dall’amore fraterno di altri cristiani e dalla sollecitudine della Chiesa per la loro salvezza; su come aiutarli a non abbandonare la fede e a far crescere i loro figli nella pienezza dell’esperienza cristiana.
D’altra parte, bisogna chiedersi come migliorare la preparazione dei giovani al matrimonio, in modo che possano scoprire sempre di più la bellezza di questa unione che, ben fondata sull’amore e sulla responsabilità, è in grado di superare le prove, le difficoltà, gli egoismi con il perdono reciproco, riparando ciò che rischia di rovinarsi e non cadendo nella trappola della mentalità dello scarto. Bisogna chiedersi come aiutare le famiglie a vivere e apprezzare sia i momenti di gioia sia quelli di dolore e di debolezza.
Le comunità ecclesiali siano luoghi di ascolto, di dialogo, di conforto e di sostegno per gli sposi, nel loro cammino coniugale e nella loro missione educativa. Essi trovino sempre nei Pastori il sostegno di autentici padri e guide spirituali, che le proteggono dalle minacce delle ideologie negative e le aiutano a diventare forti in Dio e nel suo amore.

I GIOVANI. La prospettiva del prossimo Incontro mondiale della gioventù, che avrà luogo a Cracovia nel 2016, mi fa pensare ai giovani, che con gli anziani sono la speranza della Chiesa. Oggi, un mondo ricco di strumenti informatici offre loro nuove possibilità di comunicazione, ma al tempo stesso riduce i rapporti interpersonali di contatto diretto, di scambio di valori e di esperienze condivise. Tuttavia, nei cuori dei giovani c’è un’ansia di qualcosa di più profondo, che valorizzi in pienezza la loro personalità. Bisogna venire incontro a questo desiderio.
In tal senso, ampie possibilità offre la catechesi. So che in Polonia vi partecipa la maggioranza degli alunni nelle scuole, i quali raggiungono una buona conoscenza delle verità della fede. La religione cristiana, tuttavia, non è una scienza astratta, ma una conoscenza esistenziale di Cristo, un rapporto personale con Dio che è amore. Bisogna forse insistere di più sulla formazione della fede vissuta come relazione, nella quale si sperimenta la gioia di essere amati e di poter amare. Occorre che si intensifichi la premura dei catechisti e dei pastori, affinché le nuove generazioni possano scoprire pienamente il valore dei Sacramenti come mezzi privilegiati di incontro con Cristo vivo e fonte di grazia. I giovani siano incoraggiati a far parte dei movimenti e delle associazioni la cui spiritualità si basa sulla Parola di Dio, sulla liturgia, sulla vita comunitaria e sulla testimonianza missionaria. Trovino anche le opportunità di esprimere la loro disponibilità e l’entusiasmo giovanile nelle opere di carità promosse dai gruppi parrocchiali o scolastici della Caritas o in altre forme di volontariato e di missionarietà. La loro fede, il loro amore e la loro speranza si rafforzino e fioriscano nell’impegno concreto in nome di Cristo.

Tratto da “TEMPI”

Trauma sessuale e Disturbo Post-Traumatico da Stress

Da una ricerca retrospettiva effettuata su un campione di 2200 donne è emerso che il 5,9% ha subito una qualche forma di abuso sessuale durante l’infanzia e che il 18,1% ha subito sia abuso sessuale che maltrattamento. Le vittime, in genere, rimuovono più o meno parzialmente, il ricordo traumatico e non comunicano la violenza subita.
Pertanto una percentuale bassissima (2,9%) di questa popolazione femminile ha denunciato all’Autorità Giudiziaria l’abuso subito. In ambito medico e peritale l’abuso sessuale si presenta spesso in sovrapposizione ad un’altra situazione clinica: il disturbo post traumatico da stress. L’una è collegata eziologicamente all’altra.
Per il DSM-IV, la violenza sessuale genera una condizione clinica classificabile tra i disturbi d’ansia alla voce: “Disturbo Post-Traumatico da stress”, al pari dell’esposizione a calamità naturali, stati di guerra, gravi incidenti. La violenza o abuso sessuale, infatti, può avere il medesimo impatto sull’esistenza dell’individuo e sulla sua integrità psico-fisica. Non sempre, però, le due situazioni cliniche combaciano o rappresentano l’uno la conseguenza diretta dell’altro. Le diagnosi di Disturbo Acuto da Stress (DAS) e Disturbo da Stress Post-Traumatico (DPTS), pur essendo le sole a prendere in considerazione il trauma (la causa) fra i criteri diagnostici, non sono esaustive nel descrivere una serie specifica di sintomi osservabili frequentemente in pazienti affetti da disturbi differenti ma accomunati dalla presenza di vicende relazionali traumatiche nelle proprie storie di vita. In poche parole, manca una collocazione nosografica specifica per i disturbi generati da trauma, in questo caso da trauma sessuale, da affiancare alle comuni diagnosi psichiatriche del DSM.
Possiamo affermare, senza con ciò minimamente sminuire la portata patogenetica di un evento così distruttivo, che non sempre la diagnosi di Disturbo Post Traumatico da Stress può essere effettuata in seguito ad un abuso sessuale.
IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS
Secondo il DSM IV-Tr, prima di effettuare una diagnosi si DPTS, nella persona devono manifestarsi segni di evitamento, sintomi di aumentato arosoul, disagio e malfunzionamento significativi, tutto per più di un mese. Più specificatamente i sintomi caratteristici derivati dall’esposizione a un trauma includono:

  • l’evitamento: il soggetto si sforza volontariamente di evitare pensieri, sentimenti o conversazioni che riguardano lo stupro e le violenze sessuali, e così pure persone, situazioni, attività che possono esservi associate.  Sono frequenti le amnesie legate al momento in cui è avvenuta la violenza sessuale.
  • l’ansia: è presente una sintomatologia ansiosa e un aumento dell’eccitazione (arousal) non presenti prima del trauma che si manifestano con insonnia, difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, incubi. Possono essere presenti: ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, irritabilità o scoppi di ira o difficoltà a concentrarsi sui compiti.
  • “Anestesia emozionale”: dopo l’esposizione al trauma, può verificarsi anche un appiattimento della reattività verso il mondo esterno, definita “paralisi psichica” o “ anestesia emozionale”. Questo sintomo fa sì che si manifesti una diminuzione dell’interesse o della partecipazione ad attività precedentemente piacevoli, sentimenti di distacco e di estraneità, una diminuita capacità di provare emozioni e mancanza di prospettive per il futuro.
  • La persona può provare incapacità a fare progetti, un senso di diminuzione delle prospettive future (non aspettarsi di sposarsi, avere figli, una carriera, una normale durata di vita) (Ammaniti, 2001).

IN AMBITO GIURIDICO                   Durante un’indagine o nel corso di una perizia è necessario:
1) Valutare l’attendibilità della testimonianza (soprattutto per i minori) al fine di accertarsi che la violenza sessuale sia realmente accaduta o se si tratta di false accuse da intendersi per esempio come manifestazioni di una pregressa conflittualità familiare (separazioni conflittuali, Sindrome d’Alienazione Parentale, ecc.).
Le false dichiarazioni possono riguardare:

  • fraintendimenti
  • racconti non veritieri
  • alterazioni volontarie
  • errori professionali

2) Escludere eventuali altre situazioni alla base del disagio che la persona manifesta
3) Effettuare un’ipotesi psicodiagnostica sull’attuale condizione della vittima
A tal proposito, l’art. 8 della CARTA DI NOTO (LINEE GUIDA PER L’ESAME DEL MINORE IN CASO DI ABUSO SESSUALE) si legge: 2002: art. 8 “I sintomi di disagio che il minore manifesta non possono essere considerati di per sé come indicatori specifici di abuso sessuale, potendo derivare da conflittualità familiare o da altre cause, mentre la loro assenza non esclude di per sé l’abuso.”
Lo stupro o qualunque induzione ad atti sessuali di una persona che non è in grado di scegliere, determina, inevitabilmente ed indipendentemente dall’età, l’insorgenza di una condizione morbosa post-traumatica nella quale il soggetto:

  • subisce intrusivamente il presentarsi di pensieri inerenti al trauma;
  • tenta di far sparire il ricordo della violenza sessuale dalla coscienza negandola, cercando di minimizzare, di non pensare.

Ciò però non conduce inevitabilmente ad una diagnosi di disturbo post-traumatico da stress. Sostiene Carbone P. e Cimino S., in “Manuale di psicopatologia dell’adolescenza”, a cura di Ammaniti M. (2002): “Nell’ambito stesso dell’abuso è importante distinguere due grandi aree:

  • l’abuso esercitato da estranei come atto di dichiarata violenza (come può verificarsi in situazioni estreme, quali la guerra) e
  • l’abuso esercitato da figure non esplicitamente nemiche (come nell’incesto) in cui la violenza è sotterranea e mascherata dal gioco della dipendenza e della seduzione.

Nel primo caso la psicopatologia della violenza sessuale è paragonabile, seppure per grandi linee, ad altre forme di violenza centrate sull’attacco all’integrità corporea (torture, deprivazioni estreme ecc.) e caratterizzate dal fatto che l’altro (il carnefice, il violentatore) ha cancellato ogni legame primario con la sua vittima: “il rifiuto di questo fondamentale riconoscimento umano costituisce il nucleo originario del trauma psichico di tipo massivo” (Lamb, Podell, 1995) e le conseguenze psichiche possono essere inquadrate nell’area sintomatologica del DPTS (Disturbo Post-Traumatico da Stress) (McLeer et al., 1994)”.
Continuano gli autori: ”Mentre la psicopatologia del DPTS è innescata dalla inattesa violenza dell’esperienza, nel caso dell’abuso, l’effetto psicopatologico è sostenuto prevalentemente dalla relazione di sottomissione e di complicità in cui la vittima si sente di essere stata coinvolta e che alimenta i sentimenti di colpa, di vergogna e il deficit di autostima che caratterizzano il vissuto dell’adolescente abusato”.
MECCANISMI DI COPING POST EVENTO TRAUMATICO: I FATTORI DI PROTEZIONE
Ogni individuo è dotato di risorse interne, più o meno importanti, che determinano l’epilogo di una situazione traumatica. I fattori che consentono al soggetto di reagire o di affrontare e superare un evento traumatico vengono definiti fattori di resilienza.
La risposta soggettiva agli eventi è oltremodo condizionata da alcuni importanti fattori come: l’età al momento della violenza subita, la durata, l’uso esplicito di violenza, la presenza o meno di penetrazione, le problematiche psicologiche già presenti, la possibilità di parlare dell’accaduto con qualcuno, il sostegno emotivo ricevuto dai propri cari, ulteriori esperienze che possono peggiorare la situazione o, al contrario, aiutare a superare gradualmente l’accaduto.
Paradossalmente, alcuni soggetti hanno mostrato che il trauma può evocare anche aspetti forti e potenti, comportando sotto certi aspetti una crescita personale fuori dal comune. Diversi studi si sono concentrati sulla cosiddetta “crescita post-traumatica”, cioè la possibilità di arricchirsi, ritrasformare un episodio negativo in uno stimolo al miglioramento, attraverso lo sviluppo di competenze in stretta connessione con la riscoperta di una capacità di affrontare eventi anche molto critici.
L’empatia, per esempio, può essere amplificata dalle esperienze traumatiche. Sembra, infatti, che la sofferenza insegni a comprendere meglio le altre persone, sostenendo una capacità emozionale che risulta estremamente utile per coltivare i rapporti che possono costituire una risorsa fondamentale per il superamento di stati di disagio. Generalmente la vittima di un abuso lotta per mantenere lontani i ricordi traumatici.
I meccanismi di difesa invalidano le normali funzioni metacognitive e le funzioni superiori della coscienza in generale, impedendo l’integrazione del ricordo traumatico che rimane tuttavia impresso nel corpo (Tagliavini, 2011). Talvolta può verificarsi che, almeno in alcuni periodi della vita, la vittima soffra di amnesie più o meno intense rispetto all’evento o abbia ricordi estremamente confusi.
Ciò che può accadere è che il ricordo traumatico, si neutralizzi, perdendo la sua valenza drammatica che lo contraddistingue, risultando più facile da gestire seppur in una situazione di “molteplicità non integrata degli stati dell’Io” (Liotti e Farina, 2011, pg 37). Da ciò la persona può trarne si un vantaggio, ossia la possibilità di ridurre il vissuto d’angoscia rispetto all’evento, ma si espone ad un serio pericolo, ovvero l’abitudine a convivere con il disagio procurato dall’abuso senza avvertire la necessità di affrontarlo adeguatamente. In alcuni casi, questo stato di cose può prendere la configurazione di Disturbo Post-Traumatico da Stress in remissione parziale.
I FATTORI PREDISPONENTI ALLA RISPOSTA TRAUMATICA
I dati epidemiologici dimostrano che non tutti i soggetti esposti allo stesso evento traumatico reagiscono alla stessa maniera e, solo una modesta percentuale, sviluppa un quadro psicopatologico rilevante. Esistono, tuttavia, altri fattori che rendono l’individuo vulnerabile e lo predispongono a reagire in modo non così adattivo alla traumaticità dell’evento.
Questi fattori sono noti come fattori di rischio e possono includere fattori genetici, familiarità, personalità, traumi pregressi, precedenti problemi psicologici, eventi di vita e, dopo l’episodio, supporto ricevuto. Il peso di questi agenti è probabilmente diverso, e ciascuno potrebbe espletare la sua azione in maniera non assoluta ma rendendo l’individuo vulnerabile ciascuno a stimoli di diversa intensità. Chiaramente il DPTS può essere diagnosticato in qualunque individuo, indipendentemente dai fattori di rischio o di resilienza presenti.
LA PREVALENZA DEL DPTS
La comparsa di DPTS nella popolazione civile riguarda i seguenti traumi vissuti nella vita quotidiana:

  • Episodi di violenza fisica e sessuale;
  • Incidenti stradali;
  • Criminalità, furti e rapine;
  • Incendi;
  • Lutti, gravidanze, rifugiati politici;
  • Professioni più esposte a rischio (agenti di pubblica sicurezza, vigili del fuoco, membri della protezione civile, autisti di autoambulanza, bancari, prostitute, operatori di soccorso) (Colombo, Mantua, 2001)

TIPOLOGIA DI TRAUMA E DPTS: POSSIBILI CORRELAZIONI
Le donne sono le più soggette ad episodi di violenza fisica; la violenza sessuale è l’evento traumatico più frequente nella popolazione femminile. La comparsa di un DPTS pare essere collegata eziologicamente alla tipologia e alla portata del trauma subito: la violenza sessuale risulta quella maggiormente determinante. Meno lo sono rapine, scippi o violenze fisiche.
Le caratteristiche dell’episodio di violenza, quali il fatto di essere aggrediti da un estraneo, l’uso della forza fisica, l’essere minacciati con armi da fuoco, sono associate allo sviluppo del DPTS (Colombo, Mantua, 2001). È importante valutare non solo il momento della violenza, ma anche quanto avvenuto prima e dopo nella storia della vittima.  La gravità della violenza subita sembra determinare l’immediata comparsa del DPTS acuto. La cronicizzazione della patologia, invece, si verifica in soggetti con maggiore vulnerabilità alla violenza con personalità premorbosa o con pregresso abuso sessuale.
Anche la presenza di una familiarità positiva per patologie depressive sembrerebbe influenzare la diagnosi di DPTS. Esistono alcune condizioni psico-sociali che permettono di ipotizzare se, in seguito all’evento traumatico, è possibile che si manifesti un disturbo post-traumatico da stress.
Per quanto riguarda gli indicatori psicologici, ad esempio: – la presenza e l’intensità della rabbia, ad un mese dall’episodio, può permettere di predire la gravità del disturbo – la dissociazione farebbe ipotizzare un futuro peggioramento del funzionamento dell’individuo e la presenza di sintomi a tre mesi dall’episodio sarebbe indice di una cronicizzazione del disturbo.
Dal punto di vista sociale, sebbene si possa pensare che il supporto della comunità e una tempestiva consulenza psicologica e assistenza legale e medica possano aiutare molte donne ad affrontare ciò che hanno appena vissuto, per alcune può essere fonte di stress e ciò potrebbe contribuire ad aggravare il quadro clinico del disturbo, influendo sul decorso dello stesso.
Le violenze domestiche assumono proporzioni sempre più allarmanti.  Gli abusi da parte del partner o di individui facenti parte il nucleo parentale sono un fenomeno sottostimato che si manifesta in forme molteplici, quali abusi sessuali, aggressione fisica, minacce di aggressione, intimidazione, controllo, stalking, violenza psicologica, trascuratezza, deprivazione economica.
L’incesto costituisce probabilmente la situazione più drammatica. Alcuni studi sulla sindrome post traumatica correlata allo stupro, condotte da Jean-Michel Darves-Bornoz evidenzia come le vittime di incesti siano maggiormente a rischio di DPTS, di sintomi dissociativi, di agorafobia e di perdita dell’autostima rispetto alle vittime di violenze non incestuose. Anche i maschi, vittime di violenza sessuale, sviluppano al pari sintomi post traumatici al pari delle donne.
CONCLUSIONI
E’ complesso discernere quali eventi stressanti della vita siano potenzialmente causa di DPTS. Di certo, negli ultimi tempi, le diagnosi in questa direzione sono notevolmente aumentate, soprattutto nella popolazione generale.
Rispetto al passato, infatti, in cui il DPTS prevaleva tra reduci di guerra o superstiti di calamità naturali, oggi sono contemplati anche tra gli agenti di pubblica sicurezza, i macchinisti, i lavoratori a rischio, i dentisti, i conducenti di ambulanza ecc. Anche in materia di abuso sessuale, nonostante l’indiscutibile condannabilità dell’atto violento, è necessario procedere con cautela nell’emettere una diagnosi. Ricordando le considerazione della Glaser (2000) possiamo affermare che trauma e abuso non sono sinonimi.
Spesso l’abuso sessuale assume una valenza talmente traumatica da generare quadri sindromici ben più complessi che il DPTS (basti pensare ai minori e agli effetti pervasivi sullo sviluppo). Allo stesso non si può considerare il DPTS come una conseguenza inevitabile dell’abuso ne si possono indicare come causa di DPTS tutti gli eventi negativi della vita.
Per muoverci con maggior accuratezza in questo ambito diagnostico sarebbe sempre preferibile procedere caso per caso, tenendo conto delle gravità, della minacciosità e dell’imprevedibilità dell’evento traumatico.

Autori *Dott. David Scaramozzino: Psicologo Clinico – Psicoterapeuta Strategico Breve, Esperto in psicologia delle Dipendenze e Psicologia Giuridica. Dott. Maria Antonietta Mastrangelo: Psicologo clinico Dott. Simona Falasca: Psicologo clinico Dott.Roberta Federico: Psicologo clinic

Bibliografia

American Psychiatric Association (1994),  DSM-IV : Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 4° ed. Masson, Milano. Ammaniti M., (2001), Manuale di Psicopatologia dell’adolescenza, Raffello Cortina Editore, Milano.Ammaniti M., (2001), Manuale di Psicopatologia dell’infanzia, Raffello Cortina Editore, Milano. Camerini G.B., Sabatello U., (2011), La valutazione del danno psichico nell’infanzia e nell’adolescenza, Giuffrè, Milano. Cerisoli M., Vasapollo D., (2010), La valutazione medico-legale del danno biologico di natura psichica, ed. Seu, Milano. Carta di Noto aggiornata 2002; Colombo P.P., Mantua V., (2001),  Il disturbo post traumatico da stress nella vita quotidiana Rivista di Psichiatria, Verona. Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina, Milano. Mazzoni G. ,Rotriquenz E., (a cura di), La testimonianza nei casi di abuso sessuale sui minori, Giuffrè Editore, 2013 Darves-Bornoz JM, Berger C, Degiovanni A, Gaillard P, Lepine JP: Similarities and differences between incestuous and non-incestuous rape in a French follow-up study. Journal Trauma Stress, 1999, 12 613-623.

Sitografia http://www.SynergiaCentroTrauma.it

Pubblicato da “OPSonline”

 

Le donne sono più intelligenti degli uomini

Le donne sono più intelligenti degli uomini. Forse lo sono sempre state, da Adamo ed Eva in poi, ma in passato non riuscivano ad esprimere in pieno tutto il loro potenziale. Oppure lo sono diventate in era più recente, grazie allo stress di dover combinare famiglia e lavoro, casa e carriera, insomma allo sforzo di dover fare più cose contemporaneamente. Come che sia, per la prima volta le femmine ottengono mediamente risultati migliori dei maschi nei test sul quoziente d’intelligenza.
Non era mai successo. Non succede in ogni Paese, ma la tendenza è chiara ed evidente: “L’effetto della vita moderna sul cervello delle donne sta appena cominciando ad emergere”, afferma James Flynn, lo psicologo considerato la maggiore autorità mondiale in materia, ora in procinto di pubblicare un nuovo libro in cui analizza il “sorpasso” femminile in questo campo.
La storia dei test sul quoziente d’intelligenza (QI) è controversa. È sempre stato oggetto di dibattito se ottenere un alto punteggio sia un metodo accurato per misurare l’intelligenza assoluta. Spesso i risultati dei test sul QI sono stati usati impropriamente per sostenere la superiorità di una razza su un’altra, o di un sesso (quello maschile) sull’altro. E tuttavia i test vengono abitualmente utilizzati come sistema di analisi in ambito accademico, lavorativo, sociologico.
Una cosa è certa: negli ultimi decenni, i punteggi medi hanno continuato progressivamente a salire, sia per gli uomini che per le donne. Proprio una scoperta del professor Flynn, negli anni ’80, ha stabilito che, perlomeno nei Paesi occidentali, i risultati dei test crescono mediamente di tre punti ogni decennio, per cui un europeo odierno dovrebbe ottenere un punteggio di trenta punti più alto dei suoi nonni o bisnonni. “È una conseguenza della modernità”, dice Flynn al Sunday Times, “la complessità del mondo moderno ha spinto i nostri cervelli ad adattarsi e ha fatto crescere il nostro QI”.
Ma la modernità, aggiunge lo studioso, sembra avere agito da stimolo più sulle donne che sugli uomini. I dati da lui raccolti indicano infatti che il QI femminile è cresciuto ancora di più di quello maschile. Il risultato è che in certe nazioni, come l’Australia, maschi e femmine ottengono ora in media un punteggio identico. In altri Paesi, come la Nuova Zelanda, l’Estonia e l’Argentina, dove il professor Flynn ha iniziato le sue ricerche, le donne hanno adesso superato gli uomini. Un evento significativo, poiché è la prima volta che accade su larga scala.
Due le teorie per spiegare il fenomeno. Una è che le donne d’oggi, costrette a una vita multitasking in cui devono giostrare allo stesso tempo famiglia e lavoro, abbiano sviluppato una maggiore intelligenza. L’altra è che abbiano sempre avuto potenzialmente un’intelligenza superiore agli uomini, ma solo adesso possano esprimerla, perché più libere di avere un ruolo autonomo. “Le donne sono state per secoli il sesso svantaggiato, represso”, commenta Flynn. “Ora che sono diventate indipendenti si vede meglio quanto valgono”.
Emma Gordon, una studentessa laureatasi alla Bristol University con il massimo dei voti, concorda: “Oggi è diventato socialmente accettabile che una donna sia più intelligente di un uomo e i dati scientifici lo dimostrano”. Helena Jamieson, uscita da Cambridge con un dottorato, crede che sia stato sempre così: “Sotto sotto noi donne abbiamo sempre saputo di essere più intelligenti degli uomini, ma in passato dovevamo attenerci allo stereotipo del “gentil sesso”, perciò abbiamo lasciato credere che fossero più intelligenti loro”.
Articolo di Enrico Franceschini, tratto da: http://www.repubblica.it
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Psicologo di Base non solo un sogno! Intervista su La Repubblica – Affari e Finanza al Presidente Palma.

 Il sogno degli psicologi affiancare i medici di base

La proposta dell’Ordine consentirebbe, secondo il suo presidente, di ripagare i costi pubblici della operazione con i risparmi conseguibili dalla riduzione delle spese: “Molte malattie sono psicosomatiche”

VALENTINA CONTE

Roma

Mettere insieme, nello stesso ambulatorio, un medico di base e uno psicologo. Uno di fianco all’altro. Una scelta non solo possibile, ma anche profittevole. Per il paziente, per i medici e per la sanità pubblica. Perché non sempre la malattia si sconfigge con le medicine o la chirurgia. Anzi, sempre più spesso la domanda di salute è una domanda di benessere. È la voglia di superare il disagio. È il desiderio di rinascere, di risolvere i nodi che bloccano la psiche e, dunque, anche il corpo. Medico e psicologo insieme è anche una scelta già sperimentata. Da più di dieci anni il professor Luigi Solano, docente di psicosomatica alla Sapienza di Roma, segue in alcuni ambulatori della capitale l’inedito affiancamento professionale, grazie al supporto degli specializzandi in Psicologia della salute dell’ateneo romano. I risultati sono talmente positivi, e confortati da prestigiosa letteratura internazionale, da spingere il presidente dell’Ordine nazionale degli psicologi, Giuseppe Palma, a cercare interlocutori istituzionali disposti  a finanziare la sperimentazione anche altrove. «In un anno l’apporto di ogni psicologo ha consentito di risparmiare in media 75 mila euro sulla spesa farmaceutica, moltiplicato per due, perché erano due gli studi serviti da ciascuno di loro», spiega Palma. «Un risparmio che certo supera di gran lunga il costo dello stipendio di uno psicologo». Ma perché si arriverebbe a risparmiare così tanto? «I dati della ricerca ci dicono che il 50% dei pazienti che va dai medici di base porta domande di salute diverse da quelle tradizionali, ma viene trattato come si fa in presenza delle classiche patologie e quindi con farmaci e prescrizioni di analisi cliniche. Risposte inappropriate nella metà dei casi. Perché molti malesseri, prima di divenire patologici, possono essere curati in modo diverso», spiega ancora Palma. «La gratitudine dei pazienti è l’eredità più preziosa che conservo di quell’esperienza», racconta Alessandra Marchina, 36 anni, psicologa della salute che, assieme ad altri sette colleghi, ha partecipato alla sperimentazione. «In tre anni ho incontrato 600 persone. Un solo paziente ha chiesto di essere visitato esclusivamente dal suo medico. Gli altri, prima incuriositi poi sempre più liberi, hanno non solo accolto la mia presenza, ma ne hanno tratto giovamento. In almeno cento casi abbiamo individuato un disagio psico-sociale distribuito in diverse aree: familiare, di coppia, lutto, lavoro, maternità, immigrazione. Dal divorzio alla fecondazione assistita, dalla simbiosi genitori-figli alla solitudine  dell’extra-comunitario, dal mobbing all’aborto. Si era creato, in quello studio e per la prima volta, uno spazio di ascolto e di aiuto nuovo». Sperimentare l’affiancamento medico-psicologo ha un costo. E in questo momento i bilanci delle sanità regionali sono quasi tutti in rosso. «Ne siamo consapevoli, tuttavia i risparmi sarebbero superiori alla spesa, la ricerca del professor Solano è lì a dimostrarlo, e il beneficio per la collettività enorme», risponde Palma che conferma, intanto, l’interessamento dell’assessore alla sanità pugliese Tommaso Fiore. Oltre ai risparmi per la collettività, la sperimentazione incorpora un obiettivo ancora più ambizioso: la definizione di una proposta di legge ad hoc, per istituzionalizzare questa presenza negli studi medici. «Ma prima sperimentiamo. Abbiamo bisogno di dati ancora più robusti e dettagliati sul territorio italiano», precisa Palma. In parlamento un ddl in materia esiste, ormai dimenticato. All’Ordine, però, non piace perché affida il ruolo di affiancamento a figure diverse dallo psicologo. In Italia gli psicologi sono tantissimi: 80 mila, un terzo di quelli europei, un quarto del mondo. Ed è un settore in rosa, visto che l’80% degli iscritti è donna e questa percentuale sale al 95% tra i professionisti under- 30. I più critici intravvedono nella richiesta di sperimentazione un tentativo lobbistico di risolvere un’emergenza occupazionale. «Ogni anno cresciamo di 6 mila iscritti. E degli 80 mila psicologi italiani la metà è disoccupata», conferma il presidente Palma. «Più volte abbiamo chiesto il numero programmato nelle università. Tuttavia il progetto che proponiamo ha una sua validità. Noi siamo convinti che valga la pena sperimentare ». «Un ingegnere di 40 anni è venuto da me presentando sintomi di astenia e capogiro. Convinto di avere un tumore, scopriamo che non aveva bisogno di alcuna risonanza magnetica. Ma di recuperare i suoi spazi e il suo sprint, negati dall’ansia di dover accudire la mamma anziana e vedova. Così è stato. Dopo solo tre sedute con la psicologa, ha recuperato tutta la sua salute», racconta Enzo Pirrotta, medico di base romano, coinvolto nel progetto pilota. «Sempre più oggi i fattori determinanti per la salute sono bio-psico- sociali. E se tutto ricade sul medico generale si rischia un cortocircuito. Su 1.300 pazienti visitati durante la sperimentazione, 857 non erano malati, ma stavano male perché avevano un disagio psicologico. E nella metà dei casi questo disagio nasceva all’interno della famiglia. Solo il 5% degli italiani ha avuto nella sua vita un contatto con lo psicologo. È una discrepanza, uno stigma, una barriera culturale da superare. Tanto più che l’ultimo contratto nazionale consente ai medici di base di assumere direttamente infermieri, operatori della riabilitazione o socio-sanitari per l’assistenza a domicilio, ostetrici. Perché non gli psicologi, visto che non si parla più di medicina generale, ma di cura primaria?».

http://www.psy.it/documenti/LaRepubblicaAffariFinanza13062011.pdf

Categorie:Psicologia

Medico: prova ad ascoltare!

Dall’ultimo report di «PatientView»: interpellate 2.500 associazioni di pazienti in 35 Paesi – Manca l’alleanza

I camici bianchi di mezzo mondo sono autorizzati a sprofondare nello sconforto: milioni e milioni di pazienti sono convinti che i medici “ostacolino” il loro accesso alle cure, costringendoli a “combattere con il sistema” per ottenere le risposte di cui necessitano. E a formulare il giudizio meno lusinghiero sui propri sanitari sono canadesi, tedeschi, italiani, neo zelandesi e britannici, convinti nel 60% dei casi che i medici debbano quanto meno raffinare le proprie capacità di dialogo con i propri assistiti. A disegnare l’identikit mondiale dello scontento nella relazione medico-paziente è un rapporto di 400 pagine appena pubblicato da «PatientView », organizzazione di ricerca indipendente britannica che lavora a stretto contatto con le organizzazioni dei pazienti e i gruppi attivi nel settore sanitario e sociale a livello mondiale.

Il Report in questione – intitolato «What do patient think of doctors?» – è stato realizzato analizzando le opinioni di circa 2.500 associazioni nazionali e internazionali di pazienti di oltre 35 Paesi tra cui figurano oltre 55 diverse aree specialistiche che vanno dalle malattie rare alle patologie croniche. Quesito centrale dell’indagine – realizzata nel novembre 2010 – che ne pensano i pazienti dei medici. O meglio: “come può essere migliorata la relazione medico paziente?”. Sotto la lente in particolare Australia, Canada; Europa orientale, Francia, Germania, Italia, Olanda, Nuova Zelanda, Spagna, Svezia Regno Unito e Stati Uniti.

Tra le specialità sono rappresentate invece oncologia, patologie gastro-intestinali, cardiocircolatorio, salute mentale, sclerosi multipla, neurologia, Parkinson, malattie rare, respiratorie e reumatologiche. Frutto di una sorta di plebiscito che non conosce frontiere, il primo dato a esplodere con schiacciante evidenza è quello relativo alla mancanza d’ascolto da parte dei professionisti della salute: a eccezione dei pazienti dell’Europa orientale e di quelli affetti da Hiv-Aids, solo una minoranza delle associazioni consultate ritiene che i rapporti medico paziente siano ancora caratterizzati da un atteggiamento tradizionale e paternalistico. Allo stesso modo, però, solo una minoranza ritiene che i medici siano orientati a trattare i pazienti in modo paritario.

L’unica eccezione si riferisce agli specialisti come neurologi o geriatri impegnati nella gestione delle persone affette dal morbo di Parkinson: il 50% dei pazienti si sente considerato come partner dal proprio medico. Ma cosa si aspettano davvero i pazienti malati quando si rivolgono a un camice bianco? La risposta – che soprattutto di questi tempi deve far riflettere – è che il 72% desidera ricevere trattamenti che consentano al paziente di “condurre una vita normale o quasi” anche “mettendo a rischio l’aspettativa di vita dell’assistito”, come ha cura di specificare il 39% dei rispondenti. E quali interventi sarebbero necessari per migliorare il rapporto medico paziente? Tre le risposte più gettonate: migliorare la qualità di vita del paziente grazie alle cure praticate (19%), migliorare il livello di comunicazione (17%), migliorare la possibilità di accesso agli specialisti. Sul come si fa a migliorare la qualità di vita del paziente, le risposte variano ovviamente da Paese a Paese e in rapporto al tipo di specialità di riferimento, ma ben il 53% dei rispondenti si è trovato d’accordo nel sostenere che i professionisti del settore dovrebbero occuparsi dei pazienti senza costringerli a lottare con il sistema per diagnosi e terapia, mentre il 49% pensa che il medico dovrebbe fornire i trattamenti ritenuti più efficaci indipendentemente dal costo.

Il 45%, infine, vorrebbe che il medico mantenesse un rapporto continuo con il paziente sostenendolo anche nella gestione personale della malattia o nell’accesso a team specialistici multidisciplinari. Ma cosa devono fare i professionisti in camice per migliorare la propria capacità di comunicazione con gli assistiti? “Guardare al paziente come a una persona e non come a un problema sanitario”, risponde oltre metà del campione. Ma anche discutere a fondo tutte le opzioni terapeutiche con il paziente prima di avviare una cura (48%), fornire più informazioni sulla situazione sanitaria del paziente (46%), fornire più informazioni che aiutino il paziente a gestire la propria patologia (44%). A confermare che l’immagine di una alleanza terapeutica medico-paziente merita d’essere rinverdita sono anche le richieste indirizzate agli specialisti. Oltre il 50% dei pazienti chiede nell’ordine: di disporre di un tempo sufficiente per il consulto (62%); di poter contare su informazioni pubbliche chiare e tempestive in merito ai migliori specialisti disponibili per una determinata patologia (59%); di poter scegliere liberamente lo specialista a cui rivolgersi (42%); di poter contare sulla puntualità dei professionisti, evitando lunghe soste in sala d’attesa (50 per cento). Una terna di risposte gettonatissime anche per la scelta degli stakeholder potenzialmente capaci di migliorare il rapporto medico-paziente: al primo posto gli infermieri (65% di citazioni), seguiti dai Governi nazionali (62%) e locali (51 per cento). Sotto la lente, infine, anche il ruolo giocato dalle aziende farmaceutiche e dalle altre aziende del settore.

I più convinti nel sostenere che i produttori possono giocare un ruolo importante nel migliorare i rapporti medico-paziente sono gli spagnoli (58% di citazioni per le aziende farmaceutiche; 60% per le aziende di biomedicali); tassi decisamente inferiori in Italia (51% e 47 per cento). Il questionario ha comunque consentito di individuare una lista di circa 70 aziende che compiono azioni ritenute positive per la relazione indagata (perché “fanno ricerca”; “monitorizzano la performance dei prodotti”; “forniscono ai medici suggerimenti nell’ottica del paziente”; “aiutano i pazienti a rapportarsi con i sistemi sanitari” e così via). Italia: voglia di “voti” agli specialisti. Nel panorama descritto da «PatientView » la situazione italiana non risulta decisamente tra le più brillanti. Circa un quarto delle associazioni di pazienti interpellate (110 in tutto, a carattere internazionale, nazionale e locale, in rappresentanza di circa 1,2 milioni di pazienti) è convinto che il rapporto tra i pazienti e i professionisti del settore sanitario resti tradizionale e patriarcale. Ben il 77% dei rispondenti è convinto che l’accesso ai medici di famiglia e ai relativi servizi potrebbe essere migliorato, mentre ben l’84% reclama informazioni pubbliche comprensibili e facilmente disponibili in merito agli specialisti dotati di maggior perizia nell’attività professionale: il 44%, infine, vorrebbe avere maggior voce in capitolo nella scelta dello specialista a cui rivolgersi.

Analogamente a quanto già registrato nei risultati generali dello studio, i pazienti italiani ritengono che il rapporto medico-paziente migliorerebbe significativamente se il medico discutesse in modo esteso le opzioni terapeutiche con il paziente (72%), fornisse più informazioni sulla diagnosi (52%) e sul rapporto rischio-beneficio dei trattamenti (41 per cento). Ma la vera panacea sarebbe un medico tanto “schierato” da fornire informazioni sui diritti dei pazienti (57%) e da affiancarli in tutte le situazioni della vita quotidiana condizionate dalla malattia (53%), come ad esempio i problemi lavorativi. Convinti infine che anche il loro tempo sia denaro, oltre metà del campione di pazienti italiani interpellati gradirebbe maggiore attenzione da parte degli specialisti al fattore puntualità (52%) e preferirebbe veder rispettate le proprie esigenze (22%) piuttosto che quelle del camice con cui hanno appuntamento. Idee chiarissime, infine, sugli aspetti che possono fare la differenza in ambito professionale: il 37% dei gruppi pazienti italiani sostengono che i professionisti del settore sono più “affidabili” quando dedicano alla formazione continua un impegno superiore a quello previsto dalla legge, mentre il 20% segnala come “responsabili” i medici che accettano di verificare i possibili reclami da parte degli assistiti, senza porre ostacoli difensivisti in materia.

Viste le tante mancanze a che santo votarsi? Per l’84% delle associazioni di pazienti italiani il compito di migliorare il rapporto medico-paziente spetta ai governi locali, ma l’80% attribuisce un ruolo decisivo anche agli infermieri, il 65% cita in tal senso il governo nazionale, il 45% dice che anche i farmacisti possono fare la loro parte. Il 51% dei gruppi cita infine le aziende farmaceutiche e il 47% i produttori di elettromedicali. Tanti deus ex machina, insomma, per un unico problema: per curare davvero il medico deve – prima – imparare ad ascoltare.

Fonte: http://www.aipsimed.org/
Tratto da opsonline

Categorie:Psicologia

Lo psicologo: che scocciatura!

30 gennaio 2011 1 commento

Trascrivo la segnalazione di un articolo comparso sul sito internet affaritaliani.it in cui viene sponsorizzata la figura del coach e in cui mi sembra che lo psicologo non ne esca tanto bene.

LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE

http://www.affaritaliani.it/coffeebreak/coach191110.html

COMMENTO DELLA REDAZIONE “OSSERVATORIO PSICOLOGIA NEI MEDIA” A CURA DELLA DOTT. SSA ILARIA FABBRI

L’International Coach Federation (ICF), che rappresenta attualmente una delle organizzazioni più autorevoli nel suo campo, definisce il coaching professionale come un rapporto di partnership che si stabilisce tra coach e cliente con lo scopo di aiutare questo ultimo ad ottenere risultati ottimali in ambito sia lavorativo che personale (1); e prosegue riconoscendone il nucleo fondamentale nei termini di una relazione fondata sul rispetto e sull’apprezzamento reciproco come persone. Secondo l’ICF, il coaching rappresenta un intervento che accelera la crescita dell’individuo, permette un accrescimento nelle capacità di pensiero e nella presa di decisioni, un miglioramento nell’efficienza interpersonale, nelle aree della produttività e della soddisfazione personale, oltre a consentire il raggiungimento di importanti obiettivi personali (1). Il coaching è un intervento che si focalizza esclusivamente sul presente e sul futuro del cliente, in cui viene valutata la situazione attuale di partenza (“dove si trova il cliente oggi”) e quali sono le mosse da fare per raggiungere gli obiettivi preposti (“la meta in cui vorrebbe trovarsi domani”) (1). I suoi destinatari sono persone in grado di gestire efficacemente la propria vita, persone creative e ricche di risorse, che non stanno cioè cercando una guarigione emotiva o sollievi da un dolore psicologico, ma, al contrario, che vorrebbero raggiungere un livello più elevato di performance, di apprendimento o di soddisfazione (1). Per tutte queste ragioni, ma soprattutto per fornire una maggiore comprensione rispetto agli approcci utilizzati, l’ICF ha definito le undici competenze chiave del coaching:

1.Conoscenza delle linee guida etiche e delle norme professionali e capacità di applicarle in modo adeguato in tutte le situazioni di coaching
2.Definizione del contratto/accordo di coaching
3.Capacità di creare sicurezza, fiducia e confidenza con il cliente
4.Presenza nel coaching, cioè la creazione di relazioni spontanee con il cliente, impiegando uno stile aperto, flessibile e confidenziale
5.Ascolto attivo, cioè capacità di concentrarsi completamente su ciò che il cliente sta dicendo e su ciò che non sta dicendo, di comprenderne il significato e di sostenere l’auto-espressione/spontaneità del cliente
6.Domande potenti, che consistono nella capacità di porre le giuste domande per il massimo beneficio nel rapporto tra il coach e il cliente
7.Comunicazione diretta attraverso la capacità di comunicare in modo efficace nel corso delle sessioni di coaching e di utilizzare un linguaggio che abbia il maggior impatto positivo possibile sul cliente
8.Creazione di consapevolezza nel clienti
9.Progettazione di azioni efficacemente orientate ai risultati prefissati
10.Determinazione degli obiettivi
11.Gestione dei progressi e delle responsabilità del cliente
Nel contesto organizzativo odierno il coaching, come attività di formazione e di consulenza professionale, viene prestato a vari livelli, anche se per anni il suo contesto naturale è stato quello sportivo. In questo ambito il termine “coach” ha designato da sempre la figura professionale che indirizza le sue competenze verso lo sviluppo delle capacità generali dell’atleta e verso l’ottimizzazione di queste stesse capacità precedentemente potenziate durante lo svolgimento della gara o dell’evento sportivo (2). Nel tempo il termine “coaching” si è rivestito di una miriade di appellativi, da executive coaching, personal coaching, job coaching, etc., ma indipendentemente dalle sfumature di significato che di volta in volta assume, l’idea che muove l’intero processo di coaching è da sempre quella dell’empowerment (3). Questo costrutto si è sviluppato soprattutto a partire dagli anni ottanta all’interno della Psicologia di Comunità e indica un concetto positivo, multidimensionale, che si colloca nell’interazione attiva tra individuo e ambiente sociale di appartenenza (4). Letteralmente il termine empowerment, che deriva dal verbo inglese to empower, significa “favorire l’acquisizione di potere, rendere in grado di” e quindi si riferisce al processo tramite il quale le persone possono accrescere la possibilità di controllare la propria vita, possono acquisire o riscoprire la padronanza di capacità che rinforzano il senso di sé, che stimolano una consapevolezza critica della realtà e inducono all’azione e alla mobilizzazione delle proprie risorse (3). Il processo di empowerment è sostanziato in realtà da alcuni fattori psicologici, quali la self-efficacy, il locus of control interno, l’hopefullness, l’autostima, il vissuto di azione e di protagonismo, l’intelligenza emotiva (4). Dunque, verrebbe da chiedersi: se c’è così tanto di psicologico nel processo di empowerment e se è vero che questo costrutto, insieme a quello di relazione, intesa come esperienza in comune e condizione che comporta sempre reciprocità (5), costituiscono le fondamenta basilari del coaching (1), allora il coaching non dovrebbe essere uno tra gli ambiti di competenza propri dello psicologo?

Secondo l’ICF, il coaching non è una psicoterapia e la guarigione emotiva non è interesse del coaching (1). Questa è cosa certa. Il coaching è un intervento non clinico, volto a scoprire o a ri-attivare nuove strategie di azione più funzionali al raggiungimento di certi obiettivi, ma proprio per questa ragione è davvero molto simile ad alcune tipologie di intervento psicologico, per esempio di counseling, di psicologia del lavoro o di promozione della salute. Infatti è bene ricordare che lo psicologo non si occupa soltanto di clinica, ma sempre e comunque lavora secondo i principi del suo Codice Deontologico e quindi, secondo quanto si legge nel terzo articolo, “…in ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace” (6). Allora dove sta il fraintendimento? Per quale ragione molte aziende richiedono un intervento di job coaching e molto più raramente si rivolgono ad uno psicologo del lavoro? E perché il privato cittadino che non è soddisfatto di qualche aspetto della sua vita chiede aiuto ad un life coach, ma difficilmente pensa che qualche colloquio con lo psicologo potrebbe sortire lo stesso effetto? La società in cui viviamo è davvero ancora così schiava del luogo comune secondo il quale chi va dallo psicologo è “fuori di testa”? Oppure è l’aspettativa di un percorso lungo, impegnativo ed economicamente dispendioso ad orientare le persone, privati cittadini o aziende, verso tipologie di intervento diverse da quello psicologico? O semplicemente l’insieme di tutti questi aspetti e magari di altro ancora determina il recente successo del coaching?

Se prendiamo in esame i rispettivi percorsi di formazione professionale, emerge che si diventa coach grazie a corsi privati offerti da svariate scuole certificate presenti sul territorio. La formazione professionale del coach si svolge in genere durante alcune giornate d’aula, sicuramente intense e ricche di esercitazioni pratiche, ma che si esauriscono pur sempre nel giro di qualche mese e senza che siano stati richiesti requisiti specifici per accedervi. Lo psicologo, al contrario, si forma grazie ad un percorso costituito da cinque anni di studi universitari, vari tirocini professionalizzanti, il superamento di un esame di Stato e l’iscrizione ad un Ordine regionale. A tutto ciò spesso si aggiungono corsi di perfezionamento, scuole di specializzazione, percorsi psicologici personali od altro, dal momento che, secondo quanto si legge nel quinto articolo del Codice Deontologico, “..lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione professionale e ad aggiornarsi nella propria disciplina specificatamente nel settore in cui opera..” (6). Al di là delle differenze nel percorso di formazione, esistono tuttavia alcune analogie nelle prestazioni professionali. Entrambe queste figure utilizzano la relazione con il cliente come strumento elettivo del loro lavoro, fanno riferimento a precise norme professionali e teoriche (anche deontologiche, nel caso dello psicologo), definiscono generalmente un contratto-accordo con il cliente (grazie ad un’accurata analisi della domanda, almeno nel caso dello psicologo), cercano di creare relazioni spontanee con il cliente (ma soprattutto basate sulla sincerità, almeno nel caso dello psicologo) utilizzando modalità di comunicazione dirette e l’ascolto attivo. Il lavoro di entrambe queste figure professionali è volto a creare un clima di fiducia e sicurezza, grazie anche alla capacità di porre la domanda giusta al momento giusto (rispettando e, quando possibile, anticipando il timing del cliente, almeno per quanto riguarda lo psicologo). Il lavoro di entrambi è diretto verso la creazione di consapevolezza nel cliente, la progettazione di azioni efficaci (o più correttamente nel caso dello psicologo, alla loro stimolazione), alla determinazione di obiettivi (che, per lo psicologo, saranno necessariamente coerenti, adeguati e funzionali alle reali possibilità della persona che ha davanti) e alla gestione dei progressi del cliente (processo che, nel caso dello psicologo, si traduce nel consolidamento e nel rinforzo positivo degli stessi). Le undici competenze di base del coaching precedentemente menzionate, così come sono state stilate dall’ICF, sarebbero dunque a tutti gli effetti competenze psicologiche e poco importa se il coaching non è un intervento clinico, di fatto molti interventi psicologici non lo sono.

Se da un lato purtroppo esiste ancora il luogo comune secondo il quale chi va dallo psicologo è “fuori di testa”, dall’altro forse anche noi psicologi dovremmo riflettere sul fatto che proprio noi stessi abbiamo contribuito ad alimentarlo, focalizzandoci e cristallizzandoci da sempre un po’ troppo sulla clinica e sulla psicoterapia. Infatti, per quanto interessanti, stimolanti e complessi questi settori della nostra professione possano essere, non la rappresentano nella sua totalità e certo non ne esauriscono le innumerevoli potenzialità. Di fronte alla crescente popolarità di altre professioni per certi versi analoghe o che comunque invadono i nostri specifici ambiti di competenza, dovremo prendere coscienza del fatto che noi per primi abbiamo investito poco fino ad ora su un’immagine positiva dello psicologo. Forse è giunto il momento di invertire la rotta impegnandoci nel promuovere attivamente la figura dello psicologo come di “attivatore-promotore di risorse” e come professionista che utilizza, quando ciò è possibile, interventi brevi focalizzati sul qui ed ora. In altre parole, uno psicologo adatto a tutti.

Riferimenti bibliografici

(1) Da: http://www.icf-italia.org

(2) Intonti, P. (2000). L’arte dell’Individual Coaching. Franco Angeli, Milano.

(3) Piccardo, C. (1995). Empowerment. Strategie di sviluppo organizzativo centrato sulla persona.Cortina, Milano.

(4) Martellucci, P. M. (2005). Il counseling per il self empowerment. In: Di Fabio, A. & Sirigatti, S. (a cura di) Counselling prospettive e applicazioni. Ponte alle Grazie, Milano.

(5) Torre, E. (2005). La relazione d’aiuto: aspetti di complessità. In: Di Fabio, A. & Sirigatti, S. (a cura di) Counselling prospettive e applicazioni. Ponte alle Grazie, Milano.

Categorie:Psicologia

Chi ha paura di Roberta Bruzzone?

Chi ha paura di Roberta Bruzzone?
Posted on 27 novembre 2010 by Dimitra Kakaraki

SEGNALAZIONE
A questo indirizzo http://tg7.la7.it/Cronaca/video-345733 è in rete un’intervista fatta dal TGLa7 alla psicologa Bruzzone definita però criminologa. Considerando ciò che dice in questa intervista è possibile chiarire quali sono le competenze e soprattutto i limiti di uno psicologo che si esprime sui media su casi che non conosce direttamente (oggi la dottoressa è consulente di parte ma al tempo dell’intervista non lo era) arrivando anche a parlare di concetti quali l’infermità mentale? Richiamandosi alla carta dei doveri del giornalista che è tenuto a non generare nello spettatore errate percezioni è possibile ravvisare in questa intervista (e se ne parla in termini generali e non diretti alla collega) delle “violazioni” lesive dell’immagine dello psicologo oramai visto come un veggente del crimine, e soprattutto è deontologicamente corretto assumere la consulenza della difesa di una persona che pochi giorni prima si era definito pedofilo assassino?
Grazie della vostra risposta che potrebbe chiarire molti dubbi, prima di tutto alla sottoscritta.
Lettera Firmata

PARERE DI Valeria La Via
Ce lo siamo chiesto tutti: è davvero indispensabile (o così facile), in un contesto mediatico, spogliarsi di quell’ habitus scientifico che consiste nel basare le proprie valutazioni su dati attendibili e completi e sulla conoscenza diretta? È una colpa tanto grave eludere una domanda quando non abbiamo niente di speciale da dire? Che ci vuole, quando la parrucchiera o un giornalista ci chiedono un parere esperto sui delitti di grande risonanza mediatica, a rispondere: “Guardi, ne so quanto lei: conosco il caso solo dai giornali”? E’ vietato porre dubbi, usare i condizionali, prospettare scenari alternativi? A giudicare dai successivi sviluppi delle indagini, la dott. Bruzzone sembrerebbe la prima vittima della sua stessa imprudenza.
E invece no. Ella è oggi consulente della difesa dell’uomo che solo poco tempo prima, nel video segnalato, aveva inquadrato come un pedofilo omicida. Lungi dal non riuscire a prendere sonno per la vergogna, Bruzzone rilascia un’intervista al “Corriere della Sera” del 14 novembre in cui, per controbattere alle critiche per le sue incaute valutazioni, afferma: “Sono tutti esperti col senno del poi…soltanto gli stupidi non cambiano mai idea e poi in questa storia tutti quanti abbiamo detto qualche cazzata [sic]. La differenza è che io lo riconosco”.
Ma come, “tutti quanti”? Chi sarebbero costoro? Non certo le persone di buon senso (non occorre scomodare i codici deontologici per capire quanto valga un giudizio espresso in quella fase dell’indagine e da quella posizione), tra le quali si annovera un grande numero di psicologi e criminologi, che non hanno affatto cambiato idea per il semplice motivo che non avevano avuto modo di formarsela.
Vero è che la qualifica di “criminologo” di cui preferenzialmente si fregia la dott. Bruzzone ha assunto nei media un’accezione vasta e imprecisa, fino ad abbracciare discipline che la criminologia vera e propria distingue dal proprio ambito di ricerca. Sta di fatto che, a esaminarne il curriculum, la dott. Bruzzone sembra semmai esperta di criminalistica, di tecniche di investigazione, che sono altra cosa dalla criminologia in senso stretto. D’altro canto, è ovvio che in sette anni di iscrizione all’Albo questa collega non potrà certo avere acquisito competenze di ogni tipo: ha giusto frequentato un paio di corsi di perfezionamento (da cui trae la gustosa quanto inesistente qualifica di “perfezionata”: chissà se, qualora facesse qualche più impegnativo Master conseguendo il diploma, si definirebbe masterizzata!), che non sono certamente sufficienti a erogare una formazione equiparabile a quella delle vecchie e purtroppo soppresse scuole di specializzazione in criminologia.
A onor del vero, va chiarito che la dott. Bruzzone non esprime concetti che richiedano speciale competenza. Per prevedere che la difesa di un imputato invochi l’infermità mentale basta aver sentito parlare degli artt. 88 e 89 del Codice Penale che trattano dell’imputabilità di chi “per infermità” (è questa l’espressione letterale) si trovi, al momento della commissione del fatto, “in tale stato di mente” da escludere o limitare in modo importante la capacità di intendere e di volere. Così pure, a dire “pedofilo” son buoni tutti, anche se, a voler sottilizzare, il pedofilo psicopatico di cui parla Bruzzone è profilo su cui la casistica non è poi così abbondante; non vi è nemmeno consenso degli esperti sui pochi casi che sono stati esaminati direttamente (basti pensare al caso Chiatti), ma chissà, magari nel data base dell’FBI ce ne sono a bizzeffe.
Inoltre, non è poi così evidente che chi sta parlando nel video in oggetto sia proprio una psicologa. Il tono di voce poco modulato e autoritario, la parlata frettolosa e senza pause, la mimica della parte finale sembrano più tipici del codice comunicativo di altre figure sociali, più interessate all’azione e alla persuasione che all’ascolto e alla comprensione. Quanto ai contenuti, che cosa c’è di psicologico? Essi sono palesemente strumentali alla pubblicizzazione di Telefono Rosa, di cui Bruzzone è consulente, e questo intento viene perseguito mediante un’adesione collusiva alla reazione sociale al crimine. Bruzzone si immedesima nel sentire della folla impaziente di linciare il mostro, apparentemente senza nulla chiedersi sulle conseguenze drammatiche che, sull’onda della suggestione emotiva di un delitto di forte risonanza mediatica, possono derivare dalla sua sollecitazione a denunciare parenti e conoscenti “sospetti” di pedofilia.
Non è certo un approccio da psicologo, che semmai si sforzerebbe di fare da “filtro” e da ragionevole sedativo rispetto agli umori della folla, favorendo il pensiero come sostituto dell’azione violenta e come risorsa per elaborare la ferita che ogni crimine infligge alla società. Forse il nostro disagio deriva da quel senso di responsabilità sociale che è nella cultura e nell’etica dello psicologo e che questo stile di comunicazione ci sembra disattendere, non sappiamo se a causa del set televisivo o del setting interno del giornalista o dell’esperto. Sta di fatto che il mondo dello psicologo sembrerebbe profondamente diverso da quello di questa figura di criminologa all’americana che Bruzzone ha avuto l’iniziativa di sdoganare sui media, dopo i Picozzi e tutti gli altri (dei quali bisogna dire che sono altrettanto poco identificati nella comunità dei medici con cui condividono l’iscrizione ad albo professionale).
Certamente chi fa la segnalazione coglie una distanza abissale tra questo stile comunicativo e la cultura condensata nell’art. 39 del nostro Codice Deontologico: “Lo psicologo presenta in modo corretto ed accurato la propria formazione, esperienza e competenza. Riconosce quale suo dovere quello di aiutare il pubblico e gli utenti a sviluppare in modo libero e consapevole giudizi, opinioni e scelte”. Oltre alla difficoltà di comprendere quali siano le effettive competenze professionali di questa esperta, il suo codice comunicativo non è certo quello dell’informazione che consente all’altro di formarsi idee personali, ma è più vicino a quello persuasivo che conosciamo dalla pubblicità o, negli ultimi anni, dalla politica.
D’altra parte, la dott. Bruzzone non sembra affatto interessata, nella sua veste di commentatrice di fatti di cronaca nera, a riconoscersi nella cultura, e quindi nella deontologia, degli psicologi. Quando dice “tutti quanti abbiamo detto qualche cazzata”, è evidente che questi “tutti quanti”, l’insieme in cui si identifica, sono solo gli altri “esperti” televisivi (che peraltro non coincidono con quelli che, invece, vengono prescelti dalla stampa più autorevole e attenta), per i quali, proprio come per i politici, il fatto di parlare dietro una telecamera conta di più di quello che viene detto, e l’appartenenza a una professione funziona solo come un credito di accesso meramente formale. Né ella sembra sospettare l’esistenza di un mondo retto da diversi valori e ambizioni. A proposito delle critiche sulle affermazioni in cui si era prematuramente lanciata si esprime come un’attrice: “è tutta invidia”, dice nella citata intervista al “Corriere”, presumendo che chiunque altro debba per forza desiderare di essere al suo posto. In questa visione, conta solo essere dalla parte emittente della TV; chi sta dall’altra parte è un fesso, un frustrato, un cretino.
Segue la logica della rappresentazione mediatica anche il suo nuovo ruolo di consulente della difesa, e da questa parte del teleschermo non è dato capire se sia stato richiesto perché il consulente che cambia idea risulta più credibile o se l’idea della consulente sia cambiata a seguito dell’assunzione dell’incarico. Se però la dottoressa è in grado di svolgerlo nell’interesse del suo cliente, in base a quel che sappiamo non abbiamo motivo di sospettare alcuna incompatibilità. Diverso sarebbe se l’incarico venisse conferito da un giudice, ma si tratta di una prospettiva decisamente fantascientifica.
In definitiva, a me sembra che vi sia un divario incolmabile tra Bruzzone iscritta ad albo, che, forse, altrove lavora come psicologa, e quest’altra Bruzzone che fa tutt’altro lavoro, ospite di set televisivi in cui va in onda continuamente uno spettacolo osceno e privo di alcun interesse, dove per ore e ore alla miseria psichica dei protagonisti fanno eco le banalità di esperti che non rappresentano altri che se stessi. Esperti che iterano la loro presenza fino a saturazione per poi venirne espulsi per lo stesso motivo per cui vengono a noia le pubblicità. Toccherà anche a Bruzzone e a chi prenderà il suo posto.
Non vedo dunque il rischio di lesione dell’immagine dello psicologo, che ben si rappresenta su altre scene assai più popolate, e che con questi opinionisti ha lo stesso rapporto che il medico di base ha con i Picozzi e i Mastronardi, ossia poco a che vedere. Rischio vi sarebbe, semmai, se colludendo con questi fenomeni mediatici attribuissimo loro un peso maggiore di quello che hanno effettivamente e che si misura dalla scarsissima consistenza delle opinioni degli esperti.
Salvo interrogarci tutti i giorni su quel pezzettino di Bruzzone che certamente è in ognuno di noi anche se forse, davanti a una telecamera e a un giornalista che incalza, non sapremmo proprio far meglio di lei.

Tratto da: OSSERVATORIO DI PSICOLOGIA NEI MEDIA NEWS LETTER DI NOVEMBRE

COMMENTI

1. Segreteria ICAA – dicembre 1st, 2010 at 13:04 http://www.voceditalia.it/articolo.asp?id=40412

In questa intervista molte delle parole che vengono attribuite a Roberta Bruzzone in realtà sono “tratte” da un articolo pubblicto da altro studioso, come si può notare in uno dei commenti a fondo articolo. http://www.voceditalia.it/articolo.asp?id=40412i sembra un comportamento etico?

2. Vittorio Sacchi – dicembre 1st, 2010 at 14:41

Sottoscrivo pienamente il commento della collega La Via, di cui ho apprezzato la chiarezza.
Mi chiedo se in casi come questi non sia opportuno, per non dire doveroso, un intervento dell’Ordine per un richiamo o con ulteriori severi proveddimenti in base ai suddetti articoli del codice deontologico.
Cordiali saluti.

3. Giada – dicembre 3rd, 2010 at 19:48

Confermo l’opinione della collega La Via e non riesco a capire come possa ancora avere una credenza sociale una persona come la Dott.Bruzzone. L’Ordine dovrebbe fare qualcosa.

4. Antonella – dicembre 6th, 2010 at 14:31

L’analisi della Dott.ssa La Via è seria e puntuale. Mi chiedo come siano ammesse certe cose da parte di emittenti televisive che propinano al pubblico “esperti” o “pseudo esperti” (meno male che Internet è propensa ad una informazione più aperta e critica). Speriamo vivamente che l’Ordine prenda posizione, anche perchè dopo tutti i commenti letti sugli psicologi da parte di molti utenti (ed è questo che dovrebbe far pensare!) c’è da preoccuparsene seriamente.
Continuate con queste iniziative!

 
5. Nicola Facco – dicembre 7th, 2010 at 16:07

Cara Valeria La Via: BRAVA. Ben esposto e argomentato il tuo parere, che condivido in toto; aggiungo a quanto hai scritto, che anche la signora presentatrice, attrice e “giornalista” Barbara Durso sta abusando dei programmi che conduce per “sentenziare” continuamente senza oggettività e propinare ore e ore di trasmesse interviste su casi di cronaca nazionale non bisognevoli di tanta ribalta e tanta quotidianità. La conduzione di interminabili dirette TV con la prassi del “dico non dico” pur di trattenere il telespettatore affamato di notizie per fare odience non si può e non si deve sempre giustifucare con il ricorrente “dovere di cronaca”: argomenti ancora in fase d’indagine devono essere rispettati come le persone che ne sono coinvolte. La brama di verità rispetto a fatti deprecabili da tutta la società viene fagocitata e sarebbe cosa buona e giusta solo una giusta e misurata cronaca dei fatti che veramente si conoscono.

Stress lavoro-correlato per 1 italiano su 4: allarme precari e anziani

Dietro la scrivania o in fabbrica, il nemico della salute dei lavoratori è uno solo e si chiama stress. Un disturbo emergente: ne soffre 1 italiano su 4 (il 27% dei lavoratori) e  il rischio di incapparvi è in crescita, con il boom del precariato e l’aumento dei dipendenti anziani. Risultato: in Italia c’è lo stress da lavoro dietro oltre la metà delle giornate di lavoro perse in un anno. Sono i dati dell’Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro). Numeri superiori alla media registrata in Europa, dove lo stress interessa circa il 22% dei lavoratori, con costi che si aggirano intorno ai 20 miliardi di euro l’anno, fra spese sanitarie e giornate di lavoro perse. Ma secondo stime più recenti, il conto che le aziende devono pagare per lo stress subito dai propri dipendenti sta diventando sempre più salato. Uno studio pubblicato nel 2009 dall’European Heart Journal calcola che solo il trattamento sanitario del disturbo depressivo collegato incide direttamente sull’economia europea per 44 miliardi di euro, con una perdita di produttività pari a 77 miliardi di euro. In Italia, una legge prende in considerazione il problema introducendo l’obbligo per tutte le aziende, a partire dal primo agosto p.v., di valutare e misurare il livello di stress dei propri dipendenti. Una scadenza che ha aperto il dibattito sui metodi da adottare per la valutazione del rischio. In futuro, è probabile che il fenomeno aumenti a causa del progressivo accentuarsi di alcuni fenomeni come l’insicurezza dei contratti, l’età sempre più avanzata dei dipendenti e gli alti carichi di lavoro, fattori che portano i lavoratori a percepire uno squilibrio tra l’impegno richiesto e la propria capacità di affrontarlo; questo genera tensione emotiva che, a sua volta, può essere causa di patologie psichiche od organiche, anche molto gravi, che possono portare a situazioni drammatiche come i suicidi di cui le notizie di cronaca danno quotidianamente conto. 

La valutazione del rischio prevede l’analisi oggettiva di dati statistici aziendali e una valutazione soggettiva attraverso, per esempio, interviste o focus group; si delineano anche i possibili interventi correttivi da mettere in campo. Situazioni di malessere si traducono in diminuzione di prestazioni e utile. È strategico cercare di eliminarle o di gestirle, per migliorare il clima aziendale e il benessere dei propri lavoratori.

Fonte: adnkronos

Categorie:Attualità, Lavoro, Sociale

Gaslighting

     

Il termine “Gaslighting” deriva dal titolo del film “Gaslight“, Angoscia (Gaslight) del 1944 diretto dal regista americano  George Cukor con Ingrid Bergman e Charles Boyer. Il film si svolge nell’Inghilterra vittoriana, dove un gentiluomo persuade la giovane moglie ad abitare nella vecchia casa dove è cresciuta e dove fu assassinata (da lui, naturalmente) sua zia e con una diabolica strategia psicologica, alterando le luci delle lampade a gas della casa, la spinge sull’orlo della pazzia (TRAMA: Gregory Anton (Charles Boyer) seduce e sposa Paula Alquist (Ingrid Bergman), nipote di una celeberrima cantante lirica morta in circostanze misteriose. Anton cerca di far impazzire la moglie in modo da poterle rubare la cospicua eredità della zia. Brian Cameron (Joseph Cotten) si accorge di ciò e riesce a salvare Paula facendo arrestare Gregory). Non vi sono parole per descrivere la sensazione di morte imminente che prova la persona colpita da quasto tipo di vessazioni psicologiche: alla vittima viene tolta la speranza del domani e con la certezza che manifesti, quanto prima, problemi psichici.

  
Da qui, il termine gaslighting è utilizzato per definire un crudele comportamento manipolatorio messo in atto da una persona abusante per fare in modo che la sua vittima dubiti di sé stessa e dei suoi giudizi di realtà, cominci a sentirsi confusa, sbagliata e dipendente fino a farla dubitare della sua sanità mentale. Il gaslighter, così viene definito l’attore di tale subdola azione di manipolazione mentale, fa credere alla vittima di stare vivendo in una realtà che non corrisponde alla realtà: in sostanza, agisce su di lei un vero e proprio “lavaggio del cervello”. La ricerca dimostra che, nella stragrande maggioranza dei casi, la vittima e il gaslighter sono relazionalmente vicini, quasi sempre partner o parenti stretti: quindi, il contesto può essere quello di coppia, familiare, amicale e lavorativo (spesso all’interno di rapporti precedentemente fondati sull’amore). Sono numerosi i casi in cui il comportamento di gaslighting è messo in atto dal coniuge abusante per chiudere rapporti coniugali difficili (insoddisfazioni personali, relazioni extraconiugali, ecc…); queste situazioni intime familiari non sono facilmente riconoscibili perchè la violenza diventa insidiosa, sottile, non se ne percepisce l’inizio e, avolte, è scusata dalla stessa vittima. Non si tratta di un’ira, bensì di una lama sottile che s’insinua, molte volte, tra le mura domestiche.

Subentra una frustrazione alla quale non si sa reagire in modo adeguato e che mette in crisi la sicurezza e la fiducia; il gaslighting lascia ferite che nessuno potrà guarire. La vittima viene “deumanizzata” dal persecutore, che attua un atteggiamento pregno di asserzioni che feriscono l’anima e che sono dannose ancor più se pronunciate alla presenza di altre persone; il gaslighter sa come incrementare le ferite: instaura, con il suo comportamento, una relazione narcisistico-perversa, manipola la vittima ottenendiìone il controllo totale e impedendone separatezza e autonomia.

In questo sprofondamento nell’abisso, la vittima attraverserà tre fasi successive: 

1) Incredulità: la vittima non crede a quello che sta accadendo nè a ciò che vorrebbe farle credere il suo persecutore (distorsione della comunicazione con “dialoghi” fatti di silenzi ostili, alternati da picchi destabilizzanti);

2) Difesa: la vittima cerca/inizia a difendersi con rabbia e a sostenere la sua posizione di persona sana e ben radicata nella realtà oggettiva; 

3) Depressione: la vittima si convince che il manipolatore ha ragione, getta le “armi”, si rassegna, diventa insicura ed estremamente vulnerabile e dipendente, si spegnerà piano piano il suo soffio vitale.

Sono classificabili tre categorie fondamentali di manipolatore:
1) il bravo ragazzo che sembra avere a cuore solo il bene della vittima, ma – in realtà – antepone ad ogni altra cosa i propri bisogni; 

2) l’adulatore (il manipolatore affascinante) che attua la manipolazione in maniera strategica lusingando la vittima; è probabilmente il più insidioso, perchè crea disorientamento totale nella vittima;

3)l’intimidatore che – non nascondendosi dietro a false facciate – utilizza il rimprovero continuo, il sarcasmo e l’aggressività diretta.

Si tratta di una grave forma di perversione relazionale che rende le vittime talmente assuefatte e dipendenti da essere, nella maggior parte dei casi, inconsapevoli rispetto a ciò che sta loro accadendo. La violenza si cronicizza non appena la vittima entra nella fase depressiva, quella in cui si convince della ragione e anche della bontà del manipolatore (che si prende cura di lei, la capisce, la sostiene) che non a caso è spesso addirittura idealizzato. Ecco che si crea così il paradosso, in cui la vittima idealizza il proprio carnefice. Proprio per quanto detto finora, è difficile che chi è vittima del gaslighter si renda conto della situazione perversa in cui vive e chieda aiuto, cosa ancor più vera se si pensa che essa diventa così dipendente da isolarsi anche a livello sociale per la paura di essere inadeguata o giudicata pazza.

Più spesso la richiesta di aiuto o la capacità di far “aprire gli occhi” alla vittima arriva da chi le sta intorno, altri familiari, amici o colleghi. E’ allora che può e deve iniziare il percorso di ricostruzione della propria identità, della fiducia e del senso di sè che porti la donna a liberarsi da una relazione perversa e dolorosa.

Quattro italiani su dieci “frustrati” a tavola

 

           

“Vorrei mangiare più sano ma non ci riesco”: è questa l’affermazione che più e meglio descrive il rapporto con il cibo di quasi il 37% degli italiani (quasi 4 italiani su 10), quota che sale al 40,5% tra i 30-44enni, a oltre il 40% tra le donne e sopra il 43% tra le casalinghe. E’ quanto emerge dal primo rapporto Coldiretti/Censis sulle abitudini alimentari degli italiani dal quale si evidenzia che i “frustrati” sono in numero superiore al quasi 33% degli italiani che dichiara di seguire una dieta sana, perché l’alimentazione è tra i fattori importanti per la salute, e sono soprattutto gli anziani (40,3%) e i laureati (37,6%) a praticare questa tendenza salutista.

Informarsi sul cibo, per gli italiani, è sempre più importante: infatti, quasi il 62% degli intervistati si dichiara molto informato sui valori nutrizionali, le calorie e i grassi riguardanti i vari alimenti. Non a caso,poi,  il 34% degli intervistati ritiene che la propria alimentazione dipenda –  in via prioritaria – da caratteristiche e scelte soggettive (che presumibilmente hanno bisogno di tante informazioni per essere adeguate), il 30,4% dalla tradizione familiare e poco meno del 19% da quello che si può permettere, tenuto conto del reddito e dei prezzi. Quanto alle principali fonti d’informazione sugli alimenti, oltre alla televisione è il web (51,1%) la fonte primaria per coloro che le cercano; seguono quotidiani, settimanali e periodici (34%), poi i familiari e gli amici (25,5%) e il 25,6% ricorre invece ai negozianti e al personale del punto vendita.

Come per la salute, anche per il cibo il web è un formidabile moltiplicatore d’offerta informativa e di comunicazione, poiché la sua logica orizzontale facilita la ricerca individualizzata relativa appunto agli aspetti che singolarmente interessano. “Emerge un’importante segmentazione dei comportamenti con oltre 1/3 degli italiani che riconosce il valore dell’alimentazione e si comporta di conseguenza, 1/3 che per stile di vita, tentazioni e stress – pur consapevole – non riesce a comportarsi correttamente e 1/3 che non è attento alla tavola per mancanza di conoscenza” ha affermato il presidente della Coldiretti Sergio Marini nel sottolineare che “su quest’ultimo segmento occorre responsabilmente lavorare in un Paese come l’Italia che non può più permettersi di dare per scontata la qualità del cibo portato in tavola come avveniva nel passato quando gli effetti della globalizzazione non erano così rilevanti”.

Tratto da opsonline

Fonte: Coldiretti